Entro il 2030 il mondo del lavoro cambierà completamente e no, non diventeremo tutti ingegneri
Nel 2030 il lavoro cambierà radicalmente. Non tutti diventeremo ingegneri: la Gen Z sceglie mestieri manuali. Intanto l’IA trasforma anche agricoltura e sostenibilità.
Se lavori anche solo saltuariamente con il computer, allora saprai che il tuo mestiere è in pericolo. Anzi, è a rischio estinzione. Non passa giorno che non si scopra di quanto le AI, con i loro chatbot, siano entrate nell’uso di un ufficio, di un reparto, di un’azienda. Il mantra “l’avrai fatto con ChatGPT” è piuttosto diffuso e riempie la bocca di lavoratori e persone un po’ di tutte le categorie. Mi sono quindi domandato: ma quanti e quali sono i lavori realmente minacciati dall’arrivo dell’intelligenza artificiale?
Probabilmente l’ho già scritto, ma poco tempo fa, un’insegnante di mia figlia — con quel meraviglioso modo che hanno certe persone di vivere totalmente fuori dal mondo reale — ha bollato questi sistemi come “ennesima moda passeggera”. Intanto però, nel mondo della scuola, poco o nulla si sta facendo per contrastare o gestire un fenomeno che ormai è divenuto la normalità: l’uso dei chatbot da parte degli studenti.
Perché parlo della scuola? Perché se è vero che il domani — inteso come 2030, quindi non sto parlando genericamente di un “un domani”, ma proprio il domani che c’è dietro l’angolo — vedrà ridursi il numero di lavori affidati agli esseri umani, bisogna che le attuali generazioni sappiano utilizzare questi sistemi di intelligenza artificiale, altrimenti andranno a ingrossare le fila di quei disoccupati che ogni stravolgimento tecnico/culturale produce.
Quante sono queste tipologie di lavoro che non verranno svolte più dall’uomo? E quanti posti di lavoro rischia di far perdere la rivoluzione delle intelligenze artificiali?
Ecco i lavori che rischiano di estinguersi con l’uso massiccio dell’IA
Il McKinsey Global Institute ha indagato il fenomeno, paragonandolo con lo stravolgimento causato da un altro fenomeno che ci ha colpito negli ultimi anni: la pandemia. Un fenomeno, quest’ultimo, che pur non avendo caratteristiche da rivoluzione industriale o tecnologica, ha cambiato per sempre il mondo del lavoro e come lo intendiamo.
L’intelligenza artificiale, da questo punto di vista, rischia di fare la stessa cosa moltiplicato per dieci. Dice il rapporto McKinsey che entro il 2030, circa il 30% delle ore lavorate potrebbero essere automatizzate o accelerate grazie all’uso dell’AI. E che circa 12 milioni di posti di lavoro sia in Europa che negli Stati Uniti dovranno essere riconvertiti.
C’è questa tabella, pubblicata nello stesso report, che sintetizza perfettamente il cambiamento che accadrà nel mondo del lavoro europeo e statunitense nel breve/medio termine, ovvero da oggi al 2030. La tabella dice che si impennerà la richiesta di lavoratori in ambito salute e benessere, nonché dei lavoratori in ambito STEM (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), mentre si azzereranno o addirittura andranno in contrazione i lavori in ambito manutenzione e installazione meccaniche, agricoltura, food service, produzione, vendita, customer service e infine office support.
C’è un’altra tabella che ho trovato davvero molto interessante in questo rapporto ed è un semplice elenco di skills — ovvero capacità, competenze — a cui viene attribuito un colore. A questo colore corrisponde una variazione percentuale nell’importanza che avrà quella competenza nel mondo del lavoro da qui al 2030.
In pratica, la tabella ci sta dicendo di quale mix di capacità dovrà disporre il lavoratore del futuro. Quali saranno le competenze che peseranno di più per trovare un’occupazione e quali meno. In rosso scuro, ovvero con una variazione che andrà dal -20 al -10%, ci sono le competenze manuali, meccaniche, motorie e di base: ad esempio l’inserimento dati, la lettura e scrittura di base, le attività ripetitive e di forza fisica caleranno anche del 20%.
In cima alla lista troviamo invece le competenze avanzate in analisi dei dati, matematica, informatica e programmazione, che cresceranno di oltre il 20%. Aumenterà anche la domanda per competenze digitali di base, ricerca scientifica, design tecnologico e manutenzione, ma anche per soft skills come adattabilità, comunicazione avanzata e imprenditorialità. Attenzione alle “basic digital skills”, che cresceranno del 20% o più. Significa che nessuno più potrà ignorare l’argomento digitale e l’uso della tecnologia.
Non deve stupire poi una conseguenza di tutto ciò, ovvero la crescita anche delle competenze trasversali: saranno sempre più richieste competenze come leadership, insegnamento, empatia, gestione delle persone e abilità relazionali: l’elemento umano resta fondamentale nei contesti dove l’automazione non può arrivare. Anzi, forse ancora di più: più automatizzi, più fai entrare la macchina in un contesto sociale, più hai bisogno che l’uomo bilanci la componente umana nelle relazioni e nella gestione della forza lavoro.
È inutile girarci attorno: il dato più significativo che risulta da questo rapporto è uno soltanto: la domanda dei lavori in cui predominano le competenze cognitive di base diminuirà del 14 per cento. Cito testualmente dal report:«Le competenze cognitive di base sono richieste principalmente nei ruoli di supporto in ufficio o di servizio clienti, che sono altamente suscettibili di essere automatizzati dall'IA. Tra i lavori caratterizzati da queste abilità cognitive di base che sperimentano un calo significativo della domanda ci sono l'elaborazione dei dati di base e l'alfabetizzazione, la matematica e la comunicazione».
Per essere ancora più chiari e sintetici, builtin.com fa una classifica degli 11 lavori che verranno sostituiti dall’intelligenza artificiale nei prossimi 5-10 anni:
Customer Service Representative – chatbot e assistenti virtuali gestiranno le richieste.
Autisti di auto e camion – grazie allo sviluppo dei veicoli autonomi.
Programmatore di base – codice generato da AI come ChatGPT, Claude Sonnet, Gemini, ecc.
Research Analyst – l’IA elabora grandi volumi di dati per insight rapidi.
Paralegale – analisi documenti legali e redazione automatizzata.
Operaio di fabbrica o magazziniere – robot e visione artificiale sostituiscono ruoli ripetitivi.
Trader finanziario – algoritmi sofisticati prevedono trend di mercato.
Consulente di viaggio – piattaforme automatizzate consigliano itinerari.
Content Writer – generazione automatica di contenuti di base.
Graphic Designer – immagini create da AI (es. DALL·E, Lensa).
Data Entry Clerk – inserimento dati automatizzato.
I 9 lavori che invece non verranno sostituiti per via del fattore umano come empatia, giudizio, creatività:
1. Insegnante – relazioni, fiducia e interazione emotiva.
2. Infermiere – cura diretta al paziente e supporto emotivo.
3. Assistente sociale – interventi complessi e umani con persone vulnerabili.
4. Terapista – ascolto empatico, gestione emozionale.
5. Manutentore (es. idraulico, elettricista) – destrezza manuale e adattamento situazionale.
6. Avvocato – etica, interpretazione normativa e responsabilità giuridica.
7. Specialista HR – interazioni sensibili e reclutamento personalizzato.
8. Copywriter / UX / Technical Writer – creatività, tono e decisioni consapevoli.
9. Artista – creazione di opere originali, innovazione stilistica
Il ritorno dei mestieri “di una volta”
Non vi sarà sfuggita una certa posizione della classifica dei 9 mestieri che non verranno sostituiti dall’IA. Per essere precisi, la numero 5: l’idraulico, l’elettricista, il carpentiere. In altre parole il lavoro manuale, i blue-collar come li chiamano gli americani in opposizione ai white-collar, che sono invece i colletti bianchi, i lavoratori da ufficio.
L’arrivo dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro sta generando un’ondata di incertezza, soprattutto tra i giovani della Generazione Z (quelli che gli americani chiamano “zoomer”, richiamando il termine ormai popolare anche da noi “boomer”), che iniziano a mettere in discussione la sicurezza delle carriere d’ufficio.
Secondo un sondaggio di Resume Builder, il 42% dei giovani tra i 18 e i 28 anni sta già lavorando o si sta formando per diventare idraulico, elettricista, meccanico o saldatore. Di questi, più di un terzo possiede una laurea, ma sceglie comunque di orientarsi verso un mestiere manuale, percepito come più stabile e meno minacciato dall’automazione e dall’intelligenza artificiale.
Questa tendenza non nasce solo dalla paura dell’IA, ma anche da un senso di delusione verso il percorso accademico tradizionale. Quasi uno su cinque afferma di non aver trovato lavoro nel settore per cui ha studiato, mentre il 16% ha lasciato un impiego white-collar per abbracciare una carriera pratica e ben retribuita. Il cambiamento riflette anche un crescente scetticismo verso l’università: i costi sono alti, il ritorno sull’investimento è incerto e i mestieri manuali offrono guadagni più immediati e una domanda stabile sul mercato, soprattutto alla luce dei cambiamenti che arriveranno nel prossimo futuro.
Questo fenomeno ha portato alla nascita di un nuovo soprannome generazionale: la “Toolbelt Generation”, ovvero la “generazione della cintura degli attrezzi”. In un contesto in cui l’IA può scrivere email, rispondere ai clienti e persino progettare loghi, i lavori che richiedono competenze fisiche, adattabilità e presenza sul campo stanno acquisendo nuovo prestigio. Per la Gen Z, tornare all’artigianato non è un passo indietro, ma una risposta concreta a un futuro sempre più incerto e digitalizzato.
Una volta era sinonimo di scarsa istruzione, ora l’agricoltura è un affare da super ingegneri
Ma allora, se è vero che i mestieri manuali stanno tornando di attualità perché quelli da ufficio rischiano di essere in gran parte automatizzati, come si mette per chi pratica il mestiere più manuale di tutti? Sto parlando dell’agricoltura, il mestiere da fare con le braccia e il sudore della fronte, quello che viene spesso visto in antitesi rispetto alla necessità di studio e formazione.
L’agricoltura di oggi, ovviamente, è completamente diversa da quella di cinquant’anni fa e, che lo si creda o meno, è divenuto forse uno dei mestieri che più di altri è stato trasformato dalla tecnologia. Non ricordo più dove ho letto della trasformazione degli agricoltori in ingegneri agronomi per via dell’elevato utilizzo di tecnologia e competenze digitali di cui hanno bisogno i lavori di questo settore (c’è anche un interessantissimo studio del Parlamento Europeo sull’argomento, sul quale torneremo in una puntata futura).
Lavorare la terra produce direttamente la prima forma di sostentamento dell’uomo: il cibo. Cereali e verdure, da cui poi si producono le farine e il cibo per alimentare un’altra filiera fondamentale, quella degli allevamenti di animali, sono la prima risorsa di sostentamento di cui l’uomo non può fare a meno. È per questo che l’agricoltura ha conosciuto un’evoluzione costante lungo tutta la storia dell’uomo, che va dall’invenzione dell’aratro ai moderni trattori con guida autonoma.
Oggi l’agricoltura è divenuta uno dei principali campi di applicazione delle nuove tecnologie: dai droni che monitorano l’andamento delle piantagioni ai già citati trattori e mezzi da lavoro con guida autonoma, dalla scienza dei fertilizzanti all’intelligenza artificiale impiegata per analizzare i dati rilevati sul campo per intervenire, bilanciare, modificare e rispondere velocemente ai fenomeni che riguardano piantagioni e coltivazioni.
Se quelli appena descritti possono sembrare scenari da multinazionale dell’agritech, magari americana o comunque distante dalle nostre imprese agricole, è bene sapere che anche in Italia l’agricoltura sta diventando sempre di più materia di ricerca e applicazione tecnologica.
Secondo quanto riporta da nature.com, l’agricoltura in Italia contribuisce per circa 35 miliardi di euro al PIL (2,2%) ma negli ultimi anni ha subito un calo, perdendo la leadership europea, ora detenuta dalla Francia. L’aumento dei costi, la carenza idrica senza precedenti nel 2022 e 2023 e i tagli ai finanziamenti pubblici hanno messo in difficoltà gli agricoltori, che lamentano la pressione delle normative UE su emissioni e pesticidi.
Per affrontare queste criticità, è stato creato il Centro Nazionale per le Tecnologie Agricole (Agritech), con un budget di 477 milioni di euro e circa 2.000 tra ricercatori, dottorandi e postdoc (ricercatori post-dottorato). Coordinato dall’Università Federico II di Napoli, in partnership con 51 enti (tra cui Nestlé e Bonifiche Ferraresi), il centro opera attraverso vari “spoke” tematici: dalla genetica delle piante (per esempio i pomodori resistenti alla siccità tramite CRISPR/Cas9) alle emissioni in zootecnia, fino all’agricoltura di precisione con droni e IA per monitorare suolo e colture.
La vera sfida sarà convincere gli agricoltori — soprattutto le piccole aziende del Sud — ad adottare queste innovazioni. Sono quindi previste iniziative come l’Agritech Academy (formazione per 40 consulenti all’anno), il centro Farming Future (20 prototipi, 18 startup, 20 milioni di euro), e partnership fra università e aziende agricole per sperimentare “sul campo” le novità sviluppate. L’obiettivo è colmare il gap tecnologico e ambientale, rendendo l’agricoltura italiana più sostenibile e soprattutto a prova di futuro.
Il bivio: per sopravvivere al futuro dovremo diventare tutti ingegneri o tutti artigiani?
Viviamo in tempi di incertezza totale, in cui fare previsioni è difficile tanto quanto trovarsi a dover scegliere su cosa investire nei prossimi 10 anni. Mestieri tecnici e scientifici dovrebbero essere al sicuro, ma non così tanto se proprio le macchine diventeranno capaci di fare quello che solitamente fa l’uomo, ma in modo molto più veloce, preciso e senza stancarsi mai.
D’altro canto, quello che sicuramente la macchina non potrà mai fare, almeno nei prossimi dieci anni, sarà sostituire i mestieri manuali o quelli dove è richiesta un’altissima componente umana.
In tutto questo, però, non bisogna trascurare un altro ramo delle professioni che diventerà sempre più importante e non legata, se non in parte, all’apporto delle macchine e dell’intelligenza artificiale. Sto parlando della sostenibilità ambientale e di tutto ciò che sta diventando di importanza sempre più critica per il pianeta. Da questo punto di vista, la sfida tecnologica è in antitesi a quella ambientale: tutte queste tecnologie, intelligenza artificiale in testa, sono fortemente energivore. Consumano acqua per raffreddare i server che fanno calcoli sempre più complessi e quindi scaldano. Ma i chip stessi, per essere prodotti, richiedono l’impiego di metalli e minerali sempre più scarsi e dunque preziosi, oggi al centro di complicate guerre commerciali.
Le reti neurali, i grandi modelli di linguaggio e tutto ciò che chiamiamo genericamente “intelligenza artificiale” è qui per rimanere, su questo non c’è dubbio, ma non possiamo immaginare che tutto ciò abbia un’evoluzione esponenziale così come ce l’ha avuta fino ad oggi, altrimenti dovremmo aspettarci, da qui a dieci anni, un mondo completamente rivoluzionato. E la rivoluzione ci sarà, ne abbiamo parlato lungamente in questa Insalata Mista, ma non potrà procedere allo stesso passo per sempre, perché di mezzo c’è proprio la tenuta sostenibile di questi sistemi.
Ci sono moltissime sfide che la scienza deve vincere nel frattempo, prima fra tutte la sostenibilità. I processori che alimentano le potentissime GPU su cui si basano i calcoli di questi modelli di linguaggio, sono prodotti con processi produttivi sempre più nanoscopici. Oggi siamo arrivati ai 2 nanometri e il singolo nanometro è previsto per il 2027. Oltre questo limite, lo intuirete da soli, servirà un salto tecnologico radicale.
Quella del processo produttivo è infatti una barriera che difficilmente potrà essere superata e già così fa davvero impressione. E allora, per poter aumentare la densità di transistor e produrre chip sempre più potenti con consumi gestibili, bisognerà trovare un’altra tecnologia. Ecco perché, presto o tardi, anche questa tecnologia, così dirompente e rivoluzionaria, comincerà a rallentare e l’umanità avrà finalmente il tempo di trovare una nuova stabilità.
Se succederà tra dieci o vent’anni, chiaramente, nessuno può dirlo. Ma è evidente che chi oggi deve impostare un percorso di studi e pensare al mestiere che farà tra cinque anni, vive un momento di estrema confusione e difficoltà. Sarà per questo che gli zoomers, probabilmente più saggi e maturi di quello che pensiamo, si stanno orientando verso i mestieri manuali pur avendo una laurea in tasca. Pensare che un robot umanoide ci entri in casa per riparare un tubo è sicuramente una prospettiva possibile, ma non probabile nell’immediato futuro e quindi, a questo punto, forse, è meglio la cazzuola che il computer.
» PENSIERI FRANCHI: L’involuzione della libertà e dei costumi
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Una recente puntata del podcast “Non hanno un amico” di Luca Bizzarri mi ha fatto riflettere su un fatto che mi era completamente sfuggito. Il celebre film di Walt Disney “Oceania”, all’estero ha un altro nome. Si chiama “Moana”, così come la protagonista, Moana Waialiki. In Italia si è preferito cambiare sia il nome del film, Oceania, che il nome della protagonista in Vaiana. Due indizi si dice che fanno una prova, quindi la trasformazione non può essere stata casuale e se come me siete stati adolescenti o ragazzi negli anni 80 o 90, saprete che quel nome, Moana, evoca una figura precisa, incisa indelebilmente nel nostro immaginario e che pertanto non può essere confusa con altre.
Moana Pozzi non è stata solo una pornostar, è stata la regina delle pornostar. Ma ancora di più, è stata un simbolo. Un simbolo della lotta al conformismo, all’ipocrisia dei benpensanti, della difesa della libertà dei costumi e di una certa concezione cattolica del sesso, purtroppo fin troppo radicata nel nostro paese.
Moana Pozzi fu anche un incredibile personaggio televisivo, persino un personaggio politico, grazie al Partito dell’Amore fondato da Ilona Staller, in arte Cicciolina, portata in parlamento dal compianto Marco Pannella. Compianto per me, ovviamente. D’altronde i Pensieri Franchi sono un pezzo d’opinione e per me, se la politica d’oggi avesse in seno solo l’1% della fibra di cui era fatto Marco Pannella, vivremo in un posto migliore.
Torniamo però a Moana, la cui esperienza di pornoattrice, se vogliamo, fu soltanto una piccola parte della sua carriera. Presto infatti divenne un personaggio pubblico, ospitata dalle principali trasmissioni televisive in onda anche sulla televisione pubblica, la Rai. Basti pensare che il grande debutto in TV di Moana fu addirittura in un programma per bambini, Tip Tap Club (Rai 2, 1982), condotto insieme a Bobby Solo e Sergio Leonardi. Poi ci fu Jeans (Rai 3, 1987), una trasmissione musicale per giovani.
Fu molto presente anche sulle reti Mediaset, partendo dalla trasmissione L’araba fenice (Italia 1, 1988), un talk show condotto da Paolo Beldì in cui Moana partecipava con un segmento provocatorio, spesso “vestita” soltanto di cellophane, a Magico David (Italia 1, estate 1992) dove era co-conduttrice insieme a Gianni Fantoni. Dieci puntate in seconda serata dedicate ai trucchi del mago David Copperfield, con rubriche di “lezioni d’amore” e satira sui vizi capitali.
Non si contano, oltre alle partecipazioni ufficiale, le comparsate in diversi salotti televisivi italiani, tra cui Maurizio Costanzo Show o Tutti a casa, di cui si ricorda una memorabile intervista di Pippo Baudo, ripresa poi nelle Teche Rai del 2013.
Moana Pozzi fu anche un personaggio enigmatico perché enigmatica fu la sua scomparsa a soli 33 anni, con il ritrovamento delle “Confessioni di Sant’Agostino” sul comodino. Eppure oggi, a trent’anni dalla sua morte, facciamo persino fatica a pronunciarne il nome che, come ebbe modo di spiegare Moana stessa, deriva da un’isola delle Hawaii, in un lungometraggio di animazione che nulla ha a che fare con tutto quello che rappresentò Moana in Italia.
Non so se il motivo sia da ricercare nell’imbarazzo che avrebbe potuto suscitare l’eventuale domanda di un bambino al genitore sprovvisto di mezzi per spiegare cosa sia una pornostar, come ipotizza Bizzarri nel suo podcast, o se tutto sia frutto di questo assurdo revisionismo che ci porta a cancellare fatti e personaggi del nostro passato per rivedere tutto alla luce di questo nuovo perbenismo storico. Fatto sta che in Italia il film della Disney e la sua protagonista non possono chiamarsi Moana perché, sempre in Italia, se pronunci quel nome ti viene in mente una ragazza che per un periodo fece anche film porno.
E pensare che questa associazione, quella tra un nome e la pornografia, può nascere soltanto nella testa degli ormai cinquantenni, che niente hanno a che fare con un film Disney, se non nel rapporto con un eventuale figlio che chiede di essere portato al cinema. Eppure tutto questo non ha impedito a chi si occupa dell’adattamento dei film che arrivano in Italia di cedere a un certo prurito di perbenismo e pudicità, anche se la vera Moana, quella ben più famosa dalle nostre parti, negli anni ’80 partecipava a trasmissioni TV su tutte le emittenti nazionali, addirittura in programmi per bambini.
Mi domando quindi, riallacciandomi al titolo di questi Pensieri Franchi, se non stiamo assistendo a un’involuzione dei costumi e della libertà. Se non si stia sviluppando uno strisciante e subdolo ordine morale che ci stia portando lentamente a regredire verso una condizione in cui non si può più nemmeno citare un nome per associazione col passato; in cui non si può fare educazione sentimentale e sessuale nelle scuole perché bisogna in qualche modo “proteggere” i più piccoli da qualcosa che, secondo qualche mente involuta, li potrebbe turbare.
Forse, quantomeno dal punto di vista dei costumi e della vivacità del dibattito pubblico, eravamo più liberi negli anni novanta. Oggi, nelle trasmissioni RAI, i conduttori si lanciano in ridicoli rimproveri se sentono una parolaccia provenire dal pubblico o dagli ospiti. Ieri, invece, uno dei più importanti conduttori televisivi intervistava una pornoattrice su temi come gelosia, maternità, rapporto con i genitori e col partner.
Noi, oggi, per fuggire da queste domande e da questi temi, cambiamo nome ai film e ai loro protagonisti, in un continuo tentativo di nascondere la testa sotto la sabbia ed evitare risposte normali a domande che, semplicemente, le meriterebbero.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Io vorrei lavorare nel reparto letterario o come insegnante di teatro, guida nei musei, quindi spero che la tua previsione sia giusta... altrimenti sono sei anni di uni buttati via 🥲
Aggiungo
CRASH – La chiave per il digitale: L'apocalisse del lavoro è cominciata
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