Cosa vuole dire vivere in un mondo tecnologico, per chi non vede o non sente
Mentre le aziende arrancano per adeguarsi alla norma sull’accessibilità, c’è chi nel digitale è escluso da sempre.
Quando in Italia arriva una legge che ci costringe a modificare il nostro quotidiano, la viviamo sempre come una grossa scocciatura, in molti casi come un’ingiustizia, perché adeguarsi significa impegnare tempo, risorse, fatica.
È fresca di due giorni la scadenza per l’adeguamento al Decreto Legislativo 27 maggio 2022, n. 82, con cui viene recepita la Direttiva UE 2019/882, meglio nota come European Accessibility Act, o EAA. Una scocciatura, perché l’abbiamo vissuta come una scadenza improvvisa che ci costringe a rivedere nel profondo siti web e applicazioni. Ma la realtà, ovviamente, sta da un’altra parte.
La legge infatti è operativa da ben tre anni, dal 16 luglio 2022. Solo che, come capita spesso, queste “scocciature” si prendono in mano mediamente a una settimana dalla scadenza, se va bene. E così arrivano le immancabili proroghe e deroghe, che per un po’ fanno respirare tutti, ma prima o poi arrivano a scadenza pure quelle.
Anche io, dovendo assistere diverse aziende coinvolte da questo adeguamento, ho vissuto l’urgenza di dover assolvere all’ennesima richiesta europea. L’ennesima dopo quella enorme questione sulla privacy, poi quella sul whistleblowing e ora questa sull’accessibilità. Inevitabile poi l’invasione di sciacalli commerciali che si avventano sui cadaveri martoriati dei soggetti obbligati ad adeguarsi in tempi brevi con l’arma più efficace di tutte: il terrorismo facile, per proporre soluzioni inefficaci, che snaturano il senso profondo di queste norme e diffondono quella vulgata secondo cui “servono soltanto ad arricchire le aziende che vendono soluzioni, magari amici di amici dei politici”.
A un certo punto però ho provato a ragionare su cosa stava essenzialmente chiedendo questa norma e sul perché lo facesse. Ho provato a immaginarmi cosa significhi utilizzare un’app o un sito web per un non vedente o un non udente, soprattutto oggi che ci stiamo appoggiando pesantemente a questi strumenti per renderli esclusivi.
Chiudono gli sportelli di banche e uffici; i servizi essenziali - come pagare le tasse o richiedere strumenti di sostegno come quelli che fornisce l’INPS, prenotare esami o ritirarne i referti - si spostano sul web e in questo modo rappresentano una gran comodità per tutti, vero, ma solo per chi non ha nessuna difficoltà. E chi è ipo o non vedente? E chi non sente?
Il mondo che si sposta online semplifica la vita soltanto a chi può utilizzare la tecnologia
La digitalizzazione è sicuramente una cosa positiva: semplifica, aumenta la produttività e permette di svolgere dei compiti spesso essenziali da casa, senza necessità di uscire. Una possibilità preziosa, ce ne siamo accorti una volta di più quando siamo stati costretti in casa da un virus terribile. E tuttavia, questo rappresenta un’enorme facilitazione soltanto per chi è più fortunato e dotato di tutti i sensi. Chi invece è ipovedente o non udente, fatica sempre di più. Per non parlare poi di chi ha difficoltà motorie.
Come stanno le cose, al momento? Numeri alla mano, il web italiano è cieco ai ciechi.
Abbiamo più di un milione e mezzo di persone con disabilità visive, ma oltre il 95 % dei siti web a livello mondiale resta inaccessibile secondo le linee guida internazionali. Un dislivello culturale ancor prima che tecnico.
Significa che chi ha bisogno di un certificato, una prenotazione medica, un bonus energia, un documento scolastico, un biglietto del treno, semplicemente non può. E non per colpa della propria disabilità, ma di una barriera digitale insormontabile. È come se un ascensore ci fosse, ma nascosto dietro un muro di cemento armato.
In Italia, oltre 1 milione e mezzo di persone convivono con una disabilità visiva, ma solo 4 siti su 100 sono progettati in modo che una persona cieca o ipovedente possa accedervi autonomamente. È come se costruissimo città con scalinate ovunque e pretendessimo che chi è in sedia a rotelle si arrangi con una corda e un gancio.
Qui non c’entra la normativa europea o l’obbligo di pubblicare un documento nel proprio sito. Non c’entra nemmeno l’eventuale sanzione o il widget da installare per rendere il sito più contrastato. C’entra un’esigenza fondamentale: siti web e applicazioni, prima che belli, devono diventare fruibili da tutti, compreso quel 2,5% di italiani che, secondo l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti (UICI), hanno una qualche forma di disabilità visiva.
Cosa dice la norma europea e il decreto legge?
In rete leggerete di tutto, ma prima di prendere la prima cosa per buona, cercate di andare al cuore della questione, soprattutto quando si parla di cose importanti come queste. È evidente che le leggi vengono redatte cercando di mediare tra gli obiettivi, dalla piccola azienda che produce un servizio o ha un e-commerce, al gigante del settore. È improbabile che, di fronte a un’ispezione del sito, l’ecommerce del negozio di quartiere venga trattato alla stregua di Amazon. Ci vuole un minimo di razionalità quando si affrontano queste cose e fare di tutto l’erba un fascio, diffondendo il facile terrorismo “della multa salatissima” non aiuta la causa, per niente.
Siti web e app devono poter essere facilmente utilizzabili anche per chi ha difficoltà, pertanto non esistono servizi da acquistare e installare. Esistono dei principi a cui adeguarsi. Quindi, è bene accettarlo, è probabile che sul lungo termine sia necessario rivedere da zero il design o il layout di questi servizi. Questo perché, se abbiamo realizzato una bellissima sovrapposizione animata di un testo che va su un titolo, non c’è widget o applicazione che regga: quasi certamente quella struttura andrà rivista da zero, con grandissima sofferenza di designers e visual artists. Pazienza, la fruibilità da parte di chi ha qualche forma di inabilità viene prima dell’ego ipertrofico di un art director.
Dobbiamo anche accennare, per forza di cose, a quello che dice la norma e a individuare chi è soggetto a questi obblighi. Si parla dei siti web gestiti da un’azienda che non sia considerata micro-impresa, ovvero con (o più di) 10 dipendenti e 2 o più milioni di fatturato; aziende che forniscono servizi digitali come e‑commerce, informazioni di trasporto, servizi bancari, ebook, ecc.
Si parla tanto in rete di una deroga al 2030 per i servizi pubblicati prima del 2025. È vero?
No, lo è in parte. Innanzitutto, anche se il sito è stato pubblicato prima del 28 giugno 2025, rientra lo stesso nell’obbligo se subisce modifiche sostanziali (per esempio l’aggiunta di un form, di un’area clienti, di una funzionalità di acquisto), poiché viene considerato “nuovamente immesso sul mercato”. Certo, i più furbi potrebbero obiettare «E come possono dimostrarlo quando è stata introdotta una cerca modifica?». Certo, dimostrarlo non è facile, ma di nuovo stiamo perdendo il significato profondo di questa norma.
Tutti i siti coinvolti da questa norma devono conformarsi ai criteri WCAG 2.1 AA e EN 301 549 (non starò qui a fornirvi l’elenco completo, perché non è lo scopo di questa Insalata, ma sappiate che tecnicamente sono questi i due “vangeli” da rispettare). I contenuti audiovisivi pubblicati prima del 28 giugno 2025 (ad esempio video, streamixng, ecc.) hanno effettivamente una deroga fino al 2030. I siti dipartimentali “statici” (per esempio le vetrine informative senza funzionalità utente) non rientrano tra quelli obbligati.
Cosa bisogna fare per adeguarsi
Banalmente, bisogna cominciare con l’impostare un audit tecnico per valutare lo stato di conformità. A questo proposito esistono anche dei servizi sul web, per esempio MAUVE++, che tra l’altro è un servizio del CNR e perfettamente compatibile con le richieste di AGID, l’agenzia digitale italiana che si occupa di far rispettare la norma. Questo servizio purtroppo si limita a un massimo di 50 pagine web, ma non è un limite così stringente. Difficile che un sito abbia più di 50 pagine diverse tra loro nel layout. Voglio dire: se avete un e-commerce con 10.000 prodotti, è molto probabile che le schede dei prodotti siano tutte impostate in maniera simile tra loro, pertanto contano come una sola pagina. O quantomeno le parti da adeguare saranno le medesime in tutte le schede prodotto.
Fatta questa analisi, bisogna rivedere le pagine del sito web per adeguarsi. In alternativa, si potrà dichiarare di non essere conformi a quanto richiesto nel documento di cui al punto successivo.
L’ultima richiesta riguarda proprio la Dichiarazione di Accessibilità, da pubblicare sul sito, dove si dichiara appunto lo stato di adeguamento del sito. Esiste anche un modello fornito da AGID a questo proposito. Lo scopo quindi è quello di dichiarare il proprio stato di adeguamento, dove non è stato possibile adeguarsi e perché. Soprattutto, bisognerà monitorare lo stato dell’accessibilità nel tempo e impegnarsi comunque a migliorare il livello di adeguamento ai criteri citati prima, ovvero WCAG 2.1 AA e EN 301 549.
In ogni caso, andrà previsto anche un meccanismo di segnalazione da parte degli utenti. E qui arrivano all’ultima informazione di servizio fondamentale.
Attualmente non risultano sanzionabili le aziende che hanno avuto una media del fatturato degli ultimi tre anni inferiore ai cinquecento milioni. Come sempre, quando si scopre che una norma o una legge non prevede sanzioni, si butta tutto all’aria esclamando un liberatorio “ma allora chissene frega!”.
Se torniamo però un attimo alla premessa, cioè lo scopo fondamentale di questa norma, forse dovremmo ripensarci. Questa soglia molto alta sulla sanzionabilità delle aziende in realtà ci dice, un’altra volta di più, che il pugno duro verrà utilizzato probabilmente con le grandi aziende, ovvero con chi dovrebbe riuscire ad adeguarsi più facilmente. Ma questo non significa che tutte le altre possono fregarsene. Anche perché nessuna azienda è immune dall’eventuale azione legale intentata dal singolo utente che, non trovando supportata una funzione di accessibilità e nemmeno specificata nella dichiarazione, potrebbe decidere di far causa all’azienda che è comunque soggetta a un obbligo.
Non bisogna perdere di vista il vero obiettivo
Per chi volesse andare un po’ più a fondo e analizzare cosa c’è al cuore di questa legge, ho un aneddoto personale da raccontare. Anni fa, quando avevo un negozio di informatica e assistevo anche i privati, capitai a casa di un signore anziano fortemente ipovedente. Scoprii allora tutta una serie di strumenti che ignoravo e soprattutto notai con ammirazione la forza di volontà incredibile di cui dispone chi, pur non riuscendo più a vedere, non si arrende a una situazione di disabilità e sfrutta tutti i sistemi a disposizione.
All’epoca eravamo molto distanti dalla diffusione di servizi come Audible, che forniscono migliaia di audiolibri con un abbonamento mensile. L’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti però forniva un servizio (molto utile) di scambio audiocassette con i pochi libri che venivano letti e registrati all’epoca. Questo signore possedeva anche un macchinario per poter ingrandire una porzione dello schermo del computer. Perché sì, non l’ho detto, ma questo signore utilizzava quotidianamente il computer pur vedendo quasi nulla.
All’epoca i sistemi operativi non contemplavano funzionalità di accessibilità ed erano pochissime le applicazioni che ponevano rimedio in questo senso. Oggi la questione è cambiata radicalmente: le opzioni di accessibilità non solo sono presenti nei sistemi operativi più diffusi, ma è facilmente ipotizzabile che l’Intelligenza Artificiale rappresenterà una spinta enorme sotto questo punto di vista.
Proprio a questo scopo, ho cercato di analizzare la questione della legge sull’accessibilità prendendole dal lato corretto della questione: gli ipo o i non vedenti. Ho scoperto quindi che esistono diversi strumenti utilizzati attualmente da chi non vede o vede poco. Si chiamano “screen reader” e permettono, semplicemente, di leggere il contenuto dello schermo e, in molti casi, spostarsi tra gli elementi dello schermo con i tasti della tastiera anziché il mouse. Il che, guarda caso, corrisponde proprio a quello che richiede la normativa europea di cui stiamo parlando.
Oggi esistono molti tipi diversi di screen reader, ma ho voluto prenderne ad esempio uno gratuito e completamente libero: NVDA, che è un progetto nato da NV access, un’organizzazione benefica fondata da due ragazzi non vedenti. Si legge sul sito: “Michael Curran e James Teh si sono incontrati da bambini in un campo musicale per non vedenti, dove si sono resi conto di condividere un forte interesse per i computer. Diversi anni dopo hanno deciso di unire le forze per aiutare a migliorare l'accessibilità dei computer per le persone non vedenti e ipovedenti”.
Ecco perché ho scelto NVDA: perché è un prodotto libero, fatto da ipovedenti per ipovedenti. Si tratta, in sostanza, di un’applicazione disponibile soltanto per Windows (per ora), che legge il contenuto dello schermo e aiuta i ragazzi non vedenti a utilizzare non soltanto il web, ma anche i documenti (che sono un’altra parte fondamentale di quanto richiesto dall’European Accesibility Act) o le applicazioni per la videoscrittura.
Non è una cattiva idea partire proprio da qui: fare il test “del cieco”, installare quest’app e provare a utilizzare il proprio sito a occhi chiusi. È un test non precisissimo, che però ci da già un’idea precisa di quanto sia difficile, per chi ha una difficoltà di questo genere, utilizzare un servizio come il nostro sito.
L’abilismo e quell’antico vizio di pensare soltanto alla parte più fortunata
Finora abbiamo parlato di non vedenti o ipovedenti, ma la situazione non è più facile per chi non sente. È vero, chi non sente può leggere e scrivere senza difficoltà, ma come la mettiamo con la proliferazione di video integrati nei siti web e nelle app?
In Europa ci sono oltre 22 milioni di persone con una disabilità uditiva (fonte: European Federation of Hard of Hearing People). Molti siti e video non hanno sottotitoli o trascrizioni. I contenuti multimediali (video istituzionali, webinar, corsi online, reel, storie) sono diventati centrali, ma allo stesso tempo esclusivi. Se non senti, perdi pezzi. Se non ci sono sottotitoli, perdi il contesto. Se non c’è una trascrizione, perdi quasi tutto.
Chi decide chi ha diritto all’informazione e chi no? E come può essere inclusivo un Paese in cui i contenuti informativi restano muti per milioni di cittadini?
Alla base di tutto questo vorrei aggiungere un tema che è molto ampio e che meriterebbe soltanto lui un’Insalata dedicata, ovvero il tema dell’abilismo. L’abilismo (dall’inglese ableism) è la discriminazione sistemica basata sulla disabilità. È l’insieme di atteggiamenti, strutture, abitudini sociali e tecnologiche che danno per scontato che tutti vedano, sentano, camminino, capiscano e interagiscano come un corpo “normodotato” (termine orribile, me ne rendo conto). E chi non rientra in questo schema deve adattarsi, compensare, chiedere aiuto o, più semplicemente, accettare che il mondo è pensato da chi e per chi non ha difficoltà.
L’abilismo è strutturale, non solo verbale. Non è solo lo sguardo pietista o il linguaggio politicamente corretto (tipo “diversamente abile”). L’abilismo si può riscontrare con facilità — tanto per ribadire il tema di questa Insalata — in un sito senza etichette per screen reader; in un video senza sottotitoli o trascrizione, in un modulo da compilare solo con il mouse; in un’app che funziona solo con riconoscimento vocale o facciale; su un treno regionale con una sola carrozza accessibile, sempre piena.
È, semplicemente, quando il mondo è stato progettato senza tenere conto di te.
L’abilismo però è anche culturale. Il problema non è che una persona è cieca o sorda. Il problema è cosa succede quando una società è cieca alla cecità e sorda alla sordità. Viviamo in una cultura dove l’indipendenza, la rapidità, la performance visiva e uditiva sono considerate standard. Ogni deviazione da questo schema viene vista come un “limite” da gestire, non come una diversità da accogliere. E così, l’accessibilità diventa un “favore”, un costo, una deroga. Non un diritto. Non parliamo poi della deriva della società delle performance e della produttività rincorsa a ogni costo. Come può andare d’accordo tutto questo con l’inclusione di chi non ha gli stessi mezzi?
Nel digitale, l’abilismo si amplifica perché viene codificato in sistemi automatici. Per esempio, se non puoi usare il CAPTCHA visivo, non entri (i CAPTCHA sono quei sistemi che consentono a un sito o un’app di capire se siamo esseri umani tramite la selezione di immagini e/o lettere e numeri); se non puoi sentire l’audio di un tutorial, non impari; se non puoi navigare con il touch o il mouse, non partecipi.
E più automatizziamo i servizi, più automatizziamo anche l’esclusione. La tecnologia non è neutra: riflette le priorità e le cecità di chi la progetta.
Quindi, per concludere, con l’European Accessibilty Act non si parla semplicemente di rispondere all’ennesima legge, all’ennesimo obbligo, all’ennesima scocciatura di una commissione europea che non ha altro a cui pensare. Si tratta di affrontare un tema fondamentale e prioritario, sopratutto per noi europei, che del rispetto dei diritti, della privacy e delle minoranze abbiamo sempre fatto un nostro punto fondativo (o almeno lo era, un tempo).
Quello dell’EAA è prima di tutto un’occasione preziosa di fare qualcosa per superare il concetto di abilismo. Superare l’abilismo significa non chiedere l’adattamento alla disabilità, ma adattare il mondo a tutte le abilità. Significa coinvolgere le persone disabili nei processi di progettazione e considerare l’accessibilità un requisito primario, non un’optional.
Ma sopratutto significa parlare di disabilità senza paternalismo, senza ridurla a storie di ispirazione o tragedia. È un cambio culturale, linguistico, progettuale. Ed è esattamente ciò che il recepimento dell’European Accessibility Act dovrebbe farci fare. Se davvero riteniamo che la tecnologia abbia lo scopo principale di migliorare la vita di tutti, allora deve essere l’obiettivo principale ogni qualvolta si studia un nuovo servizio, una nuova piattaforma o anche semplicemente un nuovo sito web.
L’abilismo non è un insulto. È, al contrario, un silenzio. È ignorare una norma solo perché non ci sono sanzioni. È non vedere l’obiettivo, ma solo l’obbligo. È ciò che accade ogni volta che costruiamo una società digitale a immagine e somiglianza di un corpo “standard”. Ma quel corpo, semplicemente, non esiste. E se non lo capiamo, sarà la nostra tecnologia a diventare davvero cieca. E profondamente sorda.
» PENSIERI FRANCHI: Voglio vivere avventure
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Sono sempre stato un grandissimo amante dei videogiochi, chi mi segue lo sa già. Da ragazzino giocavo ai titoli dell’epoca, più semplici e dalle possibilità limitate rispetto a quelli di oggi. Quando giocavo, però, sognavo di poter infrangere quei limiti. Così, quando un gioco in cui bisognava semplicemente avanzare verso destra uccidendo i nemici mostrava sullo sfondo delle case o dei muretti, io li osservavo e, fantasticando, immaginavo di poter entrare in quella casa o sbirciare dietro quel muretto. Pensavo, tra me e me: “chissà se un domani si potrà esplorare tutto liberamente”.
Quel futuro oggi è qui, e lo è da tempo. I videogiochi sono diventati universi narrativi, capaci di costruire interi mondi esplorabili. Mondi spesso ispirati alla realtà – con la ricostruzione fedele di intere città – e altre volte completamente fantastici, che ci proiettano in universi paralleli, incredibili, immaginifici. Mondi in cui possiamo dimenticare chi siamo, interpretando chiunque vogliamo: un eroe che deve salvare il pianeta; il soldato di una fazione ribelle contro le forze che dominano l’universo; oppure un dio che governa il creato e armonizza pianeti, ecosistemi, specie animali.
Insomma, il videogioco è stato per me il mezzo per viaggiare con la mente in luoghi fantastici. Proprio come la lettura, prima di lui. Solo che il videogioco, a differenza della letteratura e delle altre arti, le fonde tutte. Richiede una storia, una sceneggiatura di fondo, una buona scrittura dei personaggi, la creazione di mondi credibili, un’estetica grafica di alto livello, una fotografia memorabile e musiche belle da ascoltare e coerenti col contesto.
I videogiochi, come qualsiasi altra cosa, possono essere anche molto diversi. Così come un libro può essere un saggio, un libretto di barzellette, un manuale o un testo scolastico, allo stesso modo un videogioco può essere un passatempo mordi e fuggi, un gioco da condividere con amici, oppure un’avventura narrativa da vivere in solitaria.
Da quando sono piccolo, ho sempre cercato quest’ultima: la grande esperienza, la grande avventura. Ho sempre desiderato, nel videogioco, quel momento in cui sentirmi un altro. Immergermi per diventare oggi il protagonista di una storia ambientata in un futuro post-apocalittico in cui non si può camminare liberamente sotto la pioggia, domani un reduce della guerra del Vietnam assoldato dalla mafia afroamericana alla fine degli anni ’60.
Ma sembra che tutto ciò che ruota attorno al videogioco – stampa generalista, stampa di settore, produttori, persino parte degli appassionati – non la pensi così. Ai videogiochi oggi si chiede sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di più. Devono superare un limite dopo l’altro, non si sa imposto da chi. Devono durare di più, essere più realistici, più veri del vero, e soprattutto costare sempre di più. Così l’intero settore, nonostante ricavi mostruosi, è costretto da anni sull’orlo di una crisi irreversibile. Una crisi in cui, però, si è praticamente infilato da solo.
Alla rincorsa della perfezione, del fotorealismo a tutti i costi, della verosimiglianza assoluta, i videogiochi si stanno trasformando in prodotti che devono generare soldi ancora prima di uscire. Devono promettere meraviglie prima ancora che lo sviluppo inizi, perché se l’attesa del pubblico non viene drogata e mantenuta a livelli innaturalmente alti per tutto il ciclo di sviluppo – che può durare anni – allora “non vale la pena” farli uscire.
Tutto questo, però, ha poco a che vedere col videogioco. O almeno, ha poco a che vedere con quella forma di evasione meravigliosa che è sempre stata per me. I videogiochi di oggi, come tanti altri lati dell’intrattenimento, rischiano di essere annientati dal desiderio cieco di crescita infinita, dalla gara al superamento costante, in una corsa che avrà un solo vincitore e una marea di sconfitti. Come un podio da cui il primo arrivato getterà giù tutti gli altri.
E non credo che a questa corsa cieca e autodistruttiva partecipi solo l’industria videoludica. Ho il sospetto che parte della responsabilità sia anche del pubblico: di chi ogni giorno scrive e giudica i videogiochi solo valutando quanto il nuovo ha superato il vecchio, quanto un episodio è più grosso e stupefacente del precedente. Questa assuefazione alla meraviglia ci sta portando a uno stato di tossicodipendenza: vogliamo sempre di più e sempre meglio. Ma il videogioco non è questo. È, prima di tutto, una forma artistica di narrazione. E può dare tantissimo anche con pochi mezzi.
Lo faceva anche trent’anni fa, quando un muretto disegnato con pochi pixel bastava a farmi immaginare mondi fantastici, che poi – anni dopo – sarebbero arrivati davvero. Ma oggi come allora, non è cambiato il desiderio alla base del videogiocare: vivere avventure.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini