Cos’è davvero la povertà in Italia?
Lavori, hai una casa, ma non arrivi a fine mese: è questa la nuova povertà. Dati, riflessioni e paradossi di un’Italia in crisi silenziosa.
Un discorso che salta fuori spesso in famiglia, è il confronto con le famiglie di amici e conoscenti dei miei figli. Vivo in una provincia ricca del nord Italia, di conseguenza la situazione economica, nella media dei casi, è di un certo benessere. E per benessere intendo che non esiste un reale problema di sopravvivenza, anzi, spesso ci si concede anche molto di più del necessario.
A un certo punto, quando il confronto tra la nostra situazione, quella della mia famiglia, e quella degli altri volge a nostro sfavore, arriva la domanda più complessa a cui rispondere:«ma noi siamo poveri?». No, certo che no, anzi. La risposta è facile e immediata. Ma poi segue un’altra domanda, ancora più spietata:«E allora perché l’anno scorso non siamo riusciti ad andare in vacanza?».
Non starò a spiegare il perché, pur vivendo in una situazione di assoluto privilegio rispetto alla media del Paese, abbiamo dovuto comunque fare delle rinunce, ma ogni volta che capita questa situazione mi chiedo cosa debba rispondere esattamente. Se entrare nei dettagli di come funziona il reddito di un lavoratore indipendente e includere tutte le variabili estranee al reddito, come il fatto di avere già un’abitazione di proprietà (magari donata o fortemente sponsorizzata dai genitori), oppure se tergiversare e aspettare che loro, i figli, saranno più grandi e si potranno fare un’idea più precisa di cosa significhi avere un reddito discreto e nonostante ciò dover fare delle rinunce, soprattuto perché una famiglia costa, ma anche perché possono esistere priorità diverse tra una famiglia e l’altra.
Rimane però un fatto: rifuggiamo dal concetto di povertà perché la associamo alla tipologia più estrema, quella dei senzatetto o di chi non riesce a mangiare. Oggi però la situazione è nettamente cambiata. I poveri non sono più persone senza lavoro che fanno fatica a racimolare qualche euro per un panino. O meglio, non sono solo questo. La povertà spesso è quella di persone che lavorano ma fanno fatica a pagare l’affitto, ad accedere ai servizi essenziali.
In più di un caso, la povertà è proprio quella dei lavoratori precari o degli anziani con una pensione minima che non permette di vivere dignitosamente. A fare da sfondo a queste riflessioni c’è un report, quello della Caritas di quest’anno, che ha riacceso i riflettori sullo stato del disagio economico e della povertà in Italia.
Ho voluto quindi soffermarmi un attimo su questi dati, sulla loro lettura e interpretazione per capire cos’è la povertà, in Italia, nel 2025, e cosa ci dice sul futuro di un paese che, sulla carta, non ha mai visto un tasso così alto di occupati.
I tre dati chiave del report Caritas: i poveri lavorano e sono più al nord che al sud
Di tutto il report, sono tre i dati che più mi hanno colpito e che ho voluto estrarre. Il primo ci dice che un assistito su quattro dai servizi della Caritas (tra cui la mensa) è un lavoratore. Un Working Poor, come dicono gli americani (ci torneremo più tardi), che pur lavorando non riesce a sopravvivere senza l’aiuto della Caritas stessa.
Tra gli italiani, il 14,3% degli assistiti dichiara di avere un lavoro, mentre il 17,5% è un pensionato. La somma fa 31,8%, un terzo delle persone italiane assistite dalla Caritas (che sono state, nel 2024, 71.652), non dovrebbe essere in condizioni di povertà, ma evidentemente lo è.
Tra gli stranieri, la situazione è ancora peggiore. Per ragioni facilmente intuibili, sono quasi zero i pensionati (l’1,9%), ma gli occupati salgono al 24,7%. Sul totale degli assistiti dalla Caritas nel 2024 (157.000 persone), il 23,5% dei cittadini stranieri ha un lavoro.
Il secondo dato sul quale mi sono soffermato è forse ancora più sorprendente. Esiste infatti il pensiero comune secondo cui al Nord ci sia più ricchezza e, in effetti, è certamente così. Ma allo stesso modo, ci sono anche più poveri che al Sud. Sono 80.498 gli assistiti dalla Caritas al Nord-ovest e 51.213 al Nord-est, per un totale di 131.711 persone in condizioni di povertà. Al Sud, il totale è di 34.228 assistiti, poco meno di un quarto che al Nord. Se ci mettiamo le Isole, che di assistiti ne hanno 20.013, arriviamo a 54.000 circa, sempre una frazione rispetto al Nord Italia.
È evidente dalle tabelle pubblicate, che al Nord Italia sono gli stranieri ad alzare notevolmente il numero degli assistiti. Si tratta infatti del 63% in media tra Nord-ovest e Nord-est. Sono invece il 61% nel Centro, il 34,7% al Sud e al 27,7% nelle Isole. Ma chi sono questi stranieri? Che ruolo ricoprono nella nostra società? Ci arriveremo più tardi con un paragrafo dedicato.
Intanto un altro dato da prendere in seria considerazione: cresce la povertà tra gli over 65. Ovvero, dopo una vita di lavoro e con una pensione in tasca, non si riesce a garantire agli anziani (che, fra le altre cose, sono in aumento) una vita decorosa. Tanto che sono costretti a rivolgersi alla Caritas. Nel 2024, gli over 65 rappresentavano il 14,3% degli assistiti dalla Caritas, suddivisi nel 24,3% tra gli assistiti italiani e 6,9% stranieri. Un assistito su quattro, tra gli italiani, è una persona con più di 65 anni. È evidente che qualcosa, nel sistema pensionistico e nel welfare, non sta funzionando come dovrebbe.
Chi sono i Working Poor, ovvero quando il lavoro non ti aiuta a sopravvivere
Quello dei lavoratori poveri, i Working Poor, è forse il dato più scioccante, perché mette in crisi le fondamenta (che furono) solide economiche/culturali della nostra società. Studiare, trovarsi un lavoro, magari un posto fisso, è da decenni la base su cui si fonda la cultura italiana del lavoro e della famiglia. Un lavoro da impiegato poteva garantirti, solo qualche decennio fa, la possibilità di acquistare una casa, di crescere dei figli, di fare le vacanze una volta l’anno e, perché no, magari acquistare una casa in campagna. E tutto questo magari anche con un solo reddito in famiglia.
Questa è, tra le altre cose, la storia della mia famiglia d’origine e che quindi conosco da vicino. Mio padre è stato impiegato tutta la vita con uno stipendio non base, anche perché gli era permesso di fare molte ore di straordinario, e con una quantità illimitata di fatica e sacrifici è riuscito, insieme a mia madre, a fare tutto quello che oggi spesso sogniamo. Certo, in vacanza ci siamo andati poco (anzi, praticamente una volta sola) e il ristorante era un evento eccezionale, ma avevamo una casetta in campagna dove passare i weekend e l’estate, oltre alla casa di proprietà in città.
Spesso mi viene detto che oggi non riusciamo a realizzare quello che fecero i nostri genitori perché sperperiamo il nostro reddito in amenità che i nostri genitori si guardavano bene dall’avere. È certamente vero: Netflix, internet in casa, lo smartphone anch’esso con il suo abbonamento a internet, la palestra o l’aperitivo il venerdì sera. Tutte cose che hanno certamente il loro impatto sui conti a fine mese. Ma provate a calcolare l’ammontare totale di queste spese extra (togliamoci anche il fatto che la generazione prima della nostra, mediamente, fumava, giocava la schedina del totocalcio e aveva altre abitudini che oggi, per fortuna, stanno scomparendo) e poi ditemi se con quell’importo mensile riuscireste a comprare una casa in città e magari anche una in campagna come hanno fatto i miei genitori.
I working poor però, al wi-fi e all’abbonamento a Netflix, non ci arrivano nemmeno, tutt’altro. Si tratta dei corrieri, dei badanti, degli addetti alle pulizie degli uffici, dei camerieri e degli onnipresenti rider che ci portano il panino alle ore più disparate a casa, rischiando la vita in bicicletta sotto il sole o sotto la pioggia.
Tutti questi lavoratori hanno un impiego, magari una busta paga oppure, in molti casi, una partita iva (ci arriviamo più avanti), ma con quello che guadagnano semplicemente non riescono a vivere. Non a pagarsi la palestra o l’aperitivo, proprio non riescono a mangiare e infatti si rivolgono alla Caritas. In qualche caso riescono ad affittare un alloggio, ma in molti altri hanno una sistemazione di fortuna da parenti o amici, in roulotte o addirittura in macchina.
I dati Caritas parlano chiaro: quasi 1 su 4 degli assistiti ha un lavoro, e tra i 35-54enni la percentuale sale oltre il 30%. E questi lavoratori non sono marginali, ma centrali nel funzionamento della nostra economia, solo che nessuno li vede, tranne quando li chiamiamo per farci portare il sushi a casa.
Lavorano e restano poveri perché i contratti sono precari, le ore troppo poche, i salari troppo bassi. Lavorare, oggi, non è più una garanzia di inclusione sociale. Se lavori non è più certo che tu riesca a farti una famiglia, a permetterti una casa. Forse non è nemmeno scontato che tu riesca a sopravvivere e così ecco che ci si rivolge alla Caritas.
Anche in questo caso, mi viene da dire che qualcosa nel meccanismo economico/sociale non sta funzionando e che i dati sull’occupazione, a questo punto, mostrano soltanto un lato della medaglia, quello più favorevole al governo di turno, ma ne nascondono un altro, ben più significativo: lavorare non significa poter sopravvivere.
I finti autonomi e le partite IVA come maschera del lavoro precario
Se i lavoratori precari finiscono per diventare i nuovi poveri per via di contratti inadeguati, non da meno sono le partite IVA aperte per mascherare un rapporto di lavoro continuativo, ma senza garanzie e obblighi per il datore di lavoro. È l’altro volto della povertà contemporanea: quello dei lavoratori autonomi involontari. Persone che aprono una partita IVA non per scelta, ma perché costrette. Perché nessuno offre loro un contratto, ma un “incarico”, una “collaborazione”, una “prestazione”.
Il regime forfettario – con la flat tax al 15% e una gestione semplificata – dovrebbe essere uno strumento per premiare l’intraprendenza. Nella pratica, è uno strumento di iniquità sociale, che distorce completamente la progressività della tassazione dei redditi e introduce una scappatoia per i datori di lavoro non proprio onesti. Troppo spesso diventa l’alibi per evitare un’assunzione regolare. Il risultato è una fascia di lavoratori apparentemente “liberi professionisti” che in realtà lavorano per un solo committente; non hanno ferie, malattia, tutele e vivono nell’incertezza e nella solitudine fiscale.
Secondo INPS e ISTAT, una quota significativa dei forfettari guadagna meno di 15.000 € lordi l’anno. Alcuni, addirittura, non arrivano a 10.000 €. Formalmente sono “imprenditori di sé stessi”, nella realtà sono poveri travestiti da professionisti.
Ma quanti sono questi poveri/professionisti? Secondo partitaiva.it “su oltre tre milioni di Partite Iva in Italia, nel 2022 quasi la metà è forfettaria o nel regime dei minimi. Il 70% delle Partite Iva del settore dell’Ict e nei servizi alle imprese ha adottato nel 2022 il regime forfettario. Con la Legge di Bilancio 2023 il tetto massimo del reddito per aderire al regime forfettario è salito a 85.000 euro”.
Molti di questi forfettari a basso reddito non hanno scelto l’autonomia per professione. Sono stati spinti lì, senza tutele, da committenti che evitano il costo del lavoro dipendente.
I dati ISTAT mostrano che ci sono oltre 3,7 milioni di Partite IVA individuali, di cui quasi la metà (48,5 %) ha scelto, come dicevamo prima, il regime forfettario. È un regime che avvantaggia chiaramente coloro i quali riescono ad avvicinarsi alla soglia massima, gli 85.000€ di cui parlavamo prima, o che riescono a starne al di sotto in maniera non proprio trasparente. Cioè evadendo la parte in eccesso o tenendosi al di sotto in maniera artificiosa.
Facciamo un rapido calcolo di quanto sia iniqua questo regime per chi ha un reddito di 80.000€ l’anno, facendo il confronto tra lavoratore dipendente e partita IVA con regime forfettario:

Il forfettario è quindi un regime molto conveniente per i redditi medio-alti, dove il risparmio è notevole, ma non è altrettanto conveniente per i redditi bassi, dove il vantaggio è praticamente azzerato (anzi, al contrario, il maggior peso dei contributi previdenziali si traduce in una perdita di reddito netto, come evidenziato dalla tabella seguente) e in più c’è il peso dell’assenza di tutte le tutele previste dai contratti di lavoro dipendente, come fierie, malattie, maternità, ecc.

Al Nord i poveri sono in maggioranza stranieri. Ma di che tipo di stranieri si tratta?
La presenza di stranieri nei dati degli assistiti della Caritas al Nord potrebbe in qualche modo portare il lettore a pensare che si tratti di un dato abbastanza scontato. Quando parliamo di stranieri, infatti, spesso siamo portati a pensare agli stranieri irregolari, quelli che arrivano come rifugiati o col barcone, per intenderci. Evidentemente, però, non si tratta di quel tipo di straniero. Quelli che arrivano attraverso quei canali, quando ci riescono, ricevono un certo tipo di assistenza. Buona o cattiva che sia (nella maggior parte dei casi pessima), non c’è motivo per cui si rivolgano alla Caritas.
Quelli che invece lo fanno sono gli stranieri regolari: persone con permesso di soggiorno, spesso con lavoro regolare o con figli nati in Italia. Sono gli stessi che frequentemente sono in Italia con una famiglia monogenitoriale, magari numerosa, oppure sono qui come persone singole, isolate. In tutti questi casi, gli stranieri hanno difficoltà ad accedere ai servizi di welfare. Anche quando ne hanno diritto, esistono barriere linguistiche, burocratiche o culturali.
In ogni caso, gli stranieri rappresentano una parte fondamentale della forza lavoro e del supporto alla previdenza sociale italiana. In Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, interi settori come la logistica, la cura degli anziani e l’edilizia, dipendono da questa forza lavoro, eppure non riescono a ottenere sicurezza a stabilità da questa posizione. Per questo spesso si rivolgono all’assistenza garantita dalla Caritas.
Sotto questo punto di vista, essendo le grandi città del Nord Italia fortemente attrattive per la maggior possibilità di trovare un impiego, la maggiore concentrazione di questo particolare tipo di Working Poor sta trasformando le stesse città in agglomerati di povertà. Dove la stessa povertà, tra l’altro, si affianca a situazioni di benessere ostentato e di costo della vita altissimo, come nel caso del capoluogo lombardo, amplificandone il contrasto e il paradosso.
I nuovi poveri: mai così occupati, mai così in difficoltà
Dicevamo nel paragrafo sui Working Poor, quale sia il paradosso tra l’attuale generazione X (quelli come me, tra i 40 e i 50 anni) e la precedente. A loro bastava avere un lavoro per poter sperare di fare progetti di vita e di poter avere la stabilità necessaria ad avere garantiti un mutuo e una prospettiva di vita decorosa.
Oggi, tra i saliscendi di un mondo mai così pazzo e belligerante, il termine “stabilità” è diventato sinonimo di utopia. Tanto che nemmeno il mito del posto fisso regge più. Mai come oggi, si può essere licenziati anche da una grande azienda, quelle che una volta garantivano più sicurezza. Le crisi mondiali che partono dall’altra parte del pianeta, hanno sempre ripercussioni su tutto il tessuto industriale europeo e le crisi industriali sono all’ordine del giorno. Se l’azienda se la passa male, è logico che debba fare dei tagli.
Senza stabilità, però, crolla tutta la catena del credito, che si basa sulla stabilità di un reddito nel tempo. E se non c’è stabilità, allora servono le garanzie e le assicurazioni. Il costo del credito sale sempre di più e così, pur con un reddito discreto, capita che si faccia fatica ad acquistare una casa e anche quando si riesce non è detto che si riesca a far quadrare i conti con facilità. Non è un caso se, sempre nel report di Caritas in esame, il 21% degli assistiti dalla Caritas italiani hanno una casa di proprietà, con o senza mutuo.
Pensate soltanto al paradosso di avere una casa di proprietà e di avere poi difficoltà a mettere insieme un pasto. E non pensiate che si tratti di qualcuno che ha fatto il passo più lungo della gamba, perché sappiamo bene quanto le banche siano attente a valutare la situazione generale prima di concedere un mutuo.
No, con tutta probabilità si tratta di persone che vengono schiacciate dalle spese, dall’aumento del costo della vita e a un certo punto non ce la fa più e magari, per non perdere la casa, preferisce pagare il mutuo e mangiare poi alle mense della Caritas. Anche perché, è bene ricordarlo, l’Italia è l’unico paese nel G20 in cui gli stipendi sono calati drasticamente.
Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istat, dal 2019 al 2024, i salari reali risultano calati del 4,4% (a fronte del -2,6% della Francia e -1,3% della Germania). Estendendo l’analisi al periodo che va dal 2008 al 2024, la perdita complessiva del potere d’acquisto salariale in Italia raggiunge l’8,7%, un primato assoluto tra i paesi del G20.
Dunque eccola qui la nuova povertà. Una povertà spesso travestita da normalità e rispettabilità, magari con un lavoro contrattualizzato e una casa di proprietà, ma con la difficoltà di tirare avanti se non con l’aiuto di associazioni tipo la Caritas. Una povertà che si allarga a macchia d’olio e che arriva a intaccare fasce di popolazione che fino a pochi anni fa, una volta ottenuto un lavoro, potevano sperare di poter avere una certa sicurezza e stabilità.
Poi c’è il problema della popolazione più anziana e del costo delle pensioni, che con la demografia negativa sarà sempre più complicato mantenere in equilibrio. Chi pagherà le pensioni quando succederà quello che già s’intravede, ovvero che saranno più gli anziani che le persone occupate? Chi pagherà i maggiori costi di sanità e di welfare conseguenza di una popolazione sempre più vecchia? In altre parole, chi garantirà un futuro a questo popolo che cerchiamo in tutti i modi di “proteggere” dagli stranieri?
Un’ultima domanda senza risposta: se i salari, anziché crescere con l’inflazione, decrescono e le prospettive di chi lavora sono comunque di incertezza e instabilità, a che serve bearsi di un dato sull’occupazione che non è mai stato così alto?
» PENSIERI FRANCHI: A volte basta attivarsi
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Su queste pagine ho parlato spesso dell’importanza di saper distinguere notizie affidabili da quelle false o fortemente sbilanciate. Ho parlato del senso critico e dei tanti tranelli in cui si può cadere quando si tende a pensarla in un certo modo.
Mi sono chiesto tante volte come evitare di fare io stesso questo errore. Come si riesce a non cadere nel tifo da stadio per una fazione o per l’altra, come si riesce a non cedere all’istinto innato di mettere sempre tutto sulla contrapposizione e mai (o raramente) sul dialogo e sulla ricerca di un punto di incontro. Ma soprattutto, come si fa a farsi una propria idea che sia realmente svincolata da quello che la comunicazione e l’informazione affine al nostro pensiero ci ha infilato in testa.
Sto parlando di un concetto già esplorato e di cui ho parlato più volte: le Eco Chambers, ovvero le stanze in cui ci chiudiamo e in cui esistono solo persone che la pensano come noi: quel gruppo Facebook, quella cerchia di amici, persino il gruppetto che al lavoro, nella pausa pranzo, si sofferma a parlare davanti alla macchinetta del caffè di ciò che già sappiamo essere affine al nostro pensiero.
Sono tutti modi per ricevere rinforzi e conferme positive al nostro modo di pensare e che in nessun modo fanno invece l’unica cosa che ci farebbe bene: mettere in discussione il nostro pensiero critico. Perché a farci crescere come persone — non c’è certo bisogno che ve lo dica — non sono le conferme, bensì le cose che ci mettono in crisi perché ci insinuano nella testa il dubbio.
Non è un caso se i ragazzi, quando affrontano l’adolescenza, diventano iper critici e iper polemici. In quel momento della vita, per crescere, hanno bisogno del confronto, di mettere in discussioni le idee proprie e quelle degli altri, ma soprattutto quelle dei genitori, che fino a quel momento sono stati l’unica fonte di “verità” e dunque, in quanto tale, vanno messi per primi in discussione.
Peccato che quel periodo duri soltanto pochi anni. Un po’ più in là, quando si diventa adulti, si tende invece a fare l’esatto opposto: si cerca una verità a tutti i costi, anche se quella che troviamo fa acqua da tutti i buchi. L’importante è che sia un qualcosa di solido a cui ancorarci e da non mettere in discussione mai, nemmeno quando ci sembra che tutto sommato sia una verità opaca o quando addirittura va contro il nostro interesse.
E allora, tornando al punto di partenza, come si fa a rifuggire da questo atteggiamento e dalle notizie opache, dalle mezze verità, dalle notizie false? Recentemente, a questo proposito, ho capito una cosa fondamentale. Un po’ la scoperta dell’acqua calda, se volete, ma certe volte è bene non dare per scontata nemmeno quella. Per schivare tutta la cattiva informazione basta passare da un atteggiamento passivo a uno attivo, tutto qui.
Che significa? Significa non leggere più notizie sui social e non ascoltare più il telegiornale che passa in TV, sul canale che abbiamo scelto per farci compagnia mentre cuciniamo. Significa trasformare ogni momento di ricerca di informazioni in un momento attivo in cui siamo noi ad andare a cercarci un’informazione. Non importa se poi l’abitudine ci porterà a frequentare posti già noti, cambia però la prospettiva, e non poco.
Così, il momento di informazione deve essere cercato, voluto. Cercare approfondimenti sui quotidiani, sulle riviste, ma anche sul web o su YouTube. Ascoltare persone che non abbiamo mai ascoltato e poi cercare di farci un pensiero nostro su quello che quella persona sta dicendo. Succederà una cosa, ve lo dico subito: cercheremo di capire, per tutto il tempo, se quello che sta parlando la pensa come noi o meno.
Lo so, è naturale, lo facciamo tutti, ma anche questo esercizio di ascoltare qualcuno che non abbiamo ancora inquadrato ci farà ragionare in maniera positiva e più obiettiva. E poi potrà succedere pure l’inaspettato. Cioè che, non avendo completamente inquadrato il posizionamento di una voce nuova che però sembra dire cose sensate, ci scopriremo essere d’accordo con uno che sta dall’altra parte. Che la pensa, sulla carta, all’opposto di noi. E a quel punto sarà successa una cosa meravigliosa: ci saremo messi in discussione e avremo rotto quel muro che sembrava indistruttibile. Il muro del pensiero costituito, del preconcetto, del pregiudizio e delle idee che il nostro gruppo di appartenenza ci ha inculcato negli anni.
Passare da utenti passivi a attivi richiede fatica, lo so, perché non basta spingere un tasto o sbloccare uno schermo e bersi con l’imbuto tutto quello che arriva. Richiede, al contrario, un momento di tranquillità e la buona volontà di andarsi a cercare delle cose; magari scartarne un tot, perdendo alla fine anche un po’ di tempo. Ma solo così avremo fatto il primo, vero passo verso la libertà di pensiero.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini