#InsalataLight: Quanto vale un account digitale e perché può creare schiavi digitali
Un'indagine svolta dai Carabinieri sul presunto caporalato dei rider ha fatto riemergere una vecchia questione: quanto vale un account digitale? Cosa significa perderlo?
Tempo stimato per la lettura: 9 minuti
Una premessa importante: questa newsletter settimanale nasce, cresce e si concretizza nel giro di qualche ora, rubata al mio tempo libero e alla mia famiglia. A volte capita che abbia il tempo di rileggere tutto a distanza di giorni, altre volte non ho nemmeno il tempo di riguardarla. Se trovi degli errori, piccoli o grandi che siano, porta pazienza. Magari segnalameli, te ne sarò grato.
#InsalataLight è la versione leggera di Insalata Mista. È una rivisitazione di una vecchia uscita, aggiornata e attualizzata al momento in cui esce. È anche un modo per recuperare puntate col podcast, che è partito quando la newsletter era già intorno alla puntata 50. Un modo per riscoprire e aggiornarsi su un tema interessante del passato, insomma, scoprendo come si è evoluta la questione nel frattempo.
» ACCOUNT DIGITALI, SCHIAVITÚ E CAPORALATO
A chiunque di voi sarà capitato di perdere un account. Un account di qualsiasi tipo: un’email, un account con cui fare acquisti online, oppure un social network, che vi ha costretti a farne uno nuovo. In qualche caso potreste non essere più riusciti ad accedere, in altri avrete tentato di recuperare la password, accorgendovi solo in quel momento che anche l’indirizzo email di recupero non era più utilizzabile. In altri ancora, semplicemente non ve ne siete curati e ne avete creato un altro.
In fondo creare un account è un gesto semplice: si inseriscono pochi dati in un form ed ecco fatto: abbiamo creato un clone di noi stessi, una nostra copia digitale online che, con tutta probabilità, vivrà eternamente nella rete.
Perché la faccio così lunga per un semplice account? Ve lo spiego subito: mi ha colpito molto un articolo a firma Monica Serra su La Stampa (5 aprile 2023, pag. 20) sul racket dei rider. I rider sono i lavoratori della new economy che ci portano il cibo a casa o in ufficio; quelli che scorrazzano per la città a tutte le ore, in sella a biciclette con le ruote grandi come monoposto da Formula 1 e che portano sulle spalle zainetti cubici con sopra stampato il logo dell’azienda. Ebbene, l’inchiesta de La Stampa parla appunto del traffico di account falsi, messi a disposizione delle persone che non possono crearne uno proprio perché non in possesso di documenti regolari o perché semplicemente non ne sono capaci.
È una cosa che fa strano mischiare una fattispecie criminale come il racket, con gli account digitali. La stessa combinazione di nome utente e password, a cui fino a oggi non abbiamo dato così tanta importanza, possono diventare vitali per qualcuno, tanto da farci nascere un racket criminale attorno. Vuole dire, quindi, che quell’account non è più così innocuo, ma può avere un valore enorme.
Quanto frutta un account rubato?
Un account rubato può fruttare molto, moltissimo. Nel caso dei rider, stando a quanto scrive La Stampa, la possibilità di utilizzare un account fasullo per lavorare può costare anche il 50% dei guadagni, che a Milano possono arrivare a 70€ al giorno. Quindi 35€ al lavoratore e 35€ al suo “gestore” (o magnaccia, o sfruttatore, chiamatelo come volete). Poi ci sono gli optional, ovvero lo zaino, la pettorina e la bicicletta.
Anche nel caso della bicicletta si parla di giro di affari illecito, perché spesso le biciclette a pedalata assistita con cui i rider si muovono velocemente, sono pure truccate per andare veloci come motorini. E, guarda un po’, sembra che siano tutte modificate alla stessa maniera. Per queste biciclette ai rider possono essere richiesti anche 1000€, presumibilmente per il solo utilizzo, ovviamente.
Dunque c’è qualcuno che ha creato tanti account sulle varie piattaforme di food delivery e che “presta” questi account a diversi lavoratori che, per motivi vari, non possono farsene uno proprio. Facciamo un rapido calcolo? 10 lavoratori assoldati con questo sistema, che generano 35€ di guadagno pulito al giorno, fanno 10.000€ al mese. Non male, non stupisce che la criminalità (organizzata o meno), ci abbia messo le mani.
Le piattaforme collaborano?
Ho una mente semplice, dunque mi faccio una domanda: senza voler fare troppo i sofisticati e mettere in mezzo questioni tecniche come l’indirizzo IP, l’identificativo di un dispositivo mobile, la posizione e mille altre soluzioni tecniche che pure sono convinto esistano, non basterebbe pretendere che quando un rider si registra, carichi anche un documento la cui validità venga sottoposta a verifica?
Non solo, ma molte di queste società, come Deliveroo (lo scrive sempre La Stampa), si rifiutano pure di obbligare il fattorino a caricare la propria immagine, così da fare in modo che sia il cliente stesso a verificare, direttamente o indirettamente, che l’account corrisponda esattamente alla persona che gli porta il cibo a casa. Unica eccezione, in tutto questo caos, è Just Eat, che ha regolamentato i rider con un regolare contratto di lavoro subordinato.
Eppure, andando sul sito di Deliveroo per registrarsi come rider, viene richiesto di avere un IBAN intestato, un documento di identità - passaporto o carta di identità, codice fiscale e/o permesso di soggiorno se non sei cittadino UE. Insomma, un certo numero di controlli pare che effettivamente vengono fatti.
Allora mi faccio un’altra domanda: se serve un IBAN, quindi un conto bancario intestato a chi apre l’account, possibile che ne venga aperto uno per ogni account fasullo? Ovviamente no, perché anche l’apertura di un conto è sottoposta alla verifica dei documenti. Dunque chi rivende questi account, con tutta probabilità, utilizza un solo IBAN per più account, accumulando anche somme non indifferenti (come abbiamo visto prima). Ma allora non sarebbe facilissimo, per queste piattaforme, segnalare situazioni anomale alla autorità?
Torno alla domanda iniziale: perché farla tanto lunga per un account digitale? Spesso, di fronte alle mie proteste per una password troppo semplice, mi sono sentito rispondere “ah ma tanto io non ho nulla da nascondere”. Per molti utenti digitali, quindi, una password serve soltanto a nascondere qualcosa. Un’interpretazione un po’ da film di spionaggio anni ’80, dove le password o le combinazioni si usavano con le valigette o le cassaforti contenenti documenti segreti. Strano che non venga vista invece come la chiave di casa. Chi toglierebbe la serratura dalla propria porta di casa? Nessuno, appunto. Se lo facessimo, la cosa più semplice che potrebbe accadere sarebbe che la casa venga svaligiata. Ma la peggiore, di sicuro, è che qualcuno entri dentro senza più andarsene. Insomma che la casa diventi quella di qualcun altro. Ecco, è questo il punto: se ci rubano l’account, ci rubano la nostra identità e qualcuno potrà usarla come vuole. Come? Ecco un esempio reale.
Cosa ti succede quando ti rubano l’account, ovvero la storia del mio amico a cui hanno bloccato 3 volte l’account
Ora voglio parlarvi di un caso personale, di una persona che conosco bene a cui hanno rubato - per fortuna soltanto temporaneamente - l’account di Facebook. A questo mio amico (ehi, non sto usando la figura retorica dell’”amico” per raccontare un fatto successo a me, non avrei avuto problemi a raccontarlo) hanno rubato l’account nel più classico dei modi: sono entrati tramite una password molto semplice a cui non era stata associata un’autenticazione a due fattori (ehi Meta, che ne diresti di renderla obbligatoria?). Sono entrati e hanno immediatamente cambiato il numero di telefono e l’email di recupero associata all’account.
Fatto questo, hanno cominciato a pubblicare contenuti pedo-pornografici sulla bacheca di Facebook e a mandare messaggi privati alla rete dei propri amici. Capite quindi cosa può succedere? In tempo zero, la tua reputazione può essere completamente distrutta perché è vero quello che starete pensando, ovvero che si può facilmente avvisare tutti che si è stati vittima di hacking, ma quanti saranno quelli che penseranno comunque che, in fondo, magari quella dell’account hackerato è soltanto una scusa e che forse vi siete lasciati “sfuggire” qualcosa?
Torniamo alla vicenda: il mio amico ha ovviamente presentato ricorso col team di assistenza dedicato di Meta che, dopo molteplici verifiche (alcune anche assurde, altre complicate e altre ancora assurdamente complicate), gli hanno concesso la possibilità di accedere all’account modificandone di nuovo la password. Poi, una volta entrato, gli hanno bloccato l’account perché aveva pubblicato contenuti inappropriati. Inutile ricontattare il team di assistenza dicendogli: “ehi Facebook, è successo quando l’account era in mano ad altri, è il motivo per cui mi avete ridato l’accesso!”. Non importa, devono comunque verificare.
Rimossi i contenuti e ripristinato il tutto, l’account è stato di nuovo bloccato. Una terza volta. Qual è stato questa volta il motivo? Chi era entrato in possesso dell’account, aveva anche aperto un account pubblicitario e aveva fatto una pubblicità a pagamento, senza ovviamente pagare. “Ma com’è possibile?” protesterà chiunque abbia provato anche soltanto una volta a pubblicizzare qualsiasi cosa su Facebook o Instagram. ”Facebook non ti fa nemmeno partire la campagna se non inserisci un metodo di pagamento valido!”. E infatti, l’assurdità sta proprio lì: se ci prova il famoso hacker, riesce pure a fare piccole pubblicità da meno di 2€ al giorno che poi, prima che vengano bloccate del tutto, accumulano 200€ di pubblicità non pagate e quindi, alla fine, Meta ti blocca. E cosa blocca? L’account del mio ignaro amico. Anzi no, mi correggo, bloccano il mio amico colpevole di aver pensato che il suo account su Facebook non fosse il suo alter ego digitale, ma soltanto una combinazione tra una email e una password. Tanto, diceva, non aveva segreti da nascondere.
Dal tuo account al giovane rider che lavora 12 ore al giorno per 100€ al mese
Torniamo all’argomento di questa newsletter: i rider ricattati. Ricattati da altre persone che gli prestano un’identità digitale perché non ne possono avere una personale. Perché non hanno i documenti in regola, perché non parlano italiano o inglese oppure perché, più semplicemente, non sanno usare uno smartphone. Possibile? Possibile. Secondo l’indagine del Nucleo ispettorato del lavoro dei Carabinieri, condotta in 10 grandi città italiane, su 823 rider controllati, 92 operavano con account ceduto da altri e di questi soltanto 23 erano irregolari. 69 di questi, dunque, operavano con un account falso pur potendone registrare uno a nome proprio. Un rider pakistano ha dichiarato di lavorare dalle 12 alle 14 ore al giorno, compresi domeniche e festivi, per 100€ al mese più i pasti. Capite quanto può valere un’identità digitale?
Raccontava Luca Ravenna in uno sketch comico di una massaggiatrice cinese che si chiamava come lui, arrivata probabilmente in Italia con i suoi documenti falsi trafugati in qualche modo (e con un nome da maschio perché il cinese di turno avrebbe confuso il nome che finiva con la “a” per un nome da donna). Faceva molto ridere, ma raccontava esattamente questo: un furto d’identità. L’uso di una falsa identità per accedere a un mondo al quale altrimenti non avremmo accesso. Lo stesso sono costretti a fare i rider sfruttati dai caporali di turno e lo stesso stava per accadere chissà a chi, chissà in quale parte del mondo, con l’account rubato al mio amico, che nel frattempo ha subito anche una bella diffamazione gratuita con la sua rete di contatti.
Questa storia ci dice che gli account andranno sempre di più considerati come nostre identità, come se fossero dei documenti d’identità. Insomma, gli account sono una cosa seria. Tenetelo a mente.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
articolo interessante