Il costo troppo alto del low-cost
La polemica sul tour delle influencer organizzato da Shein ha riportato d'attualità un problema: l'industria del low-cost, tra sfruttamento del lavoro e tonnellate di CO2 prodotte.
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La parola di oggi: Fast Fashion, la moda veloce che reagisce velocemente alle tendenze presentando capi d’abbigliamento spesso a costi bassissimi.
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L’editoriale: “Dalle magliette al divano: il vero problema è quando il prezzo è troppo basso”
L’approfondimento di Insalata Mista:”Il costo troppo alto del low-cost”
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In sintesi:
Il fenomeno Shein ha riportato d’attualità il problema della moda a basso costo. Le tante inchieste sul gigante da 100 miliardi di dollari raccontano condizioni di lavoro che violano persino le leggi cinesi;
Il problema non riguarda soltanto le pessime condizioni di lavoro, ma anche l’ambiente. L’industria della moda è infatti responsabile di una grandissima quantità di emissioni di CO2;
Il problema dello sfruttamento del lavoro riguarda soltanto i giganti asiatici? Non è così, come descrivono le inchieste di Domani e di Report, che hanno raccontato le pessime condizioni dei lavoratori del settore dei mobili e dell’arredamento low-cost.
» Dalle magliette al divano: il vero problema è quando il prezzo è troppo basso
Questa settimana ho deciso di affrontare un tema delicato, quello dei brand d’abbigliamento low-cost. Un tema tornato d’attualità dopo che un’iniziativa di un famoso marchio, Shein, nata per contrastare i sempre più numerosi report e inchieste che denunciano le condizioni dei lavoratori collegati al marchio, ha ottenuto l’esatto effetto opposto, trasformandosi in un vero boomerang.
Il problema però non sembra fermarsi a Shein e ai marchi d’abbigliamento low-cost. Il problema sembra essere proprio quel “low-cost” a cui in occidente ci siamo tanto legati. La promessa della globalizzazione era proprio questo: più lavoro per i paesi poveri e costi più bassi per noi occidentali. Qualcosa evidentemente non ha funzionato come doveva, perché il prezzo che non paghiamo da questa parte del mondo, lo stanno pagando da un’altra parte.
Che poi non è vero nemmeno questo: come scoprirete nella parte finale di questa Insalata, il problema riguarda anche l’Italia, e nemmeno marginalmente. Cosa possiamo fare per risolvere questo problema? Direttamente forse poco… o forse no.
Quello che faccio in questi casi, personalmente, è sola una cosa: informarmi. Adottare un approccio troppo estremo e trasformarsi nei talebani della moda a basso costo non avrebbe senso. Però non bisogna nemmeno abbassare lo sguardo. Facendo ricerca di materiale per questo articolo mi sono imbattuto in decine di report sulla situazione generale dell’industria. Uno di questi ve lo linkerò alla fine. Ma soprattutto vi metto qui il trailer di un docufilm che è veramente un pugno nello stomaco. Date un occhio anche solo al trailer, vi basterà.
Franco A.
» IL PREZZO TROPPO ALTO DEL LOW-COST
Chissà a cosa penserebbe un qualunque abitante del Bangladesh se scoprisse che, nell’occidente ricco e avanzato, si arriva a spendere 2€ per una maglietta. È chiaro a tutti che l’abbigliamento non può costare così poco, quindi come si è arrivati a cifre così basse proprio nei paesi più ricchi del pianeta?
Shein, per chi non lo conoscesse, è un gigante della fast-fashion. Ovvero di quel settore della moda che produce capi d’abbigliamento (e non solo) alla velocità della luce, chiaramente a prezzi bassissimi, quasi regalati. Come mai recentemente si è parlato proprio di questo marchio e non di altri che sono sulla stessa barca (parliamo di H&M, Primark, Zara, etc.)?
Forse perché Shein è prima di tutto un fenomeno recentissimo, la cui crescita è stata davvero incredibile ed è legata a doppio nodo con un social network che è cresciuto altrettanto velocemente e con cui condivide il paese d’origine: TikTok. Entrambi cinesi, Shein però è stato fondato da Chris Xu, nato negli Stati Uniti ed esperto di SEO, ovvero di posizionamento sui motori di ricerca.
Forse sta proprio qui il segreto del successo di Shein, il cui valore di mercato è passato dai 5 miliardi di dollari nel 2019 ai 100 miliardi(!!!) del 2022, con una crescita che ha letteralmente surclassato marchi più noti. Basti pensare che Zara e H&M, messe insieme, valevano nel 2022 “appena” 30 miliardi di dollari.
Da dove nasce il successo di Shein
Il successo di Shein è da cercare principalmente nella sua attenta strategia comunicativa. Due i principali ingredienti: innanzitutto investire cifre enormi in pubblicità digitale, ma soprattutto arruolare migliaia di influencer e di fashion blogger sui social network, tra cui (ovviamente) spicca TikTok.
D’altronde il target di riferimento di Shein, le generazioni Z e Alpha (ovvero i nati dal 1997 in poi), è lo stesso di TikTok e non stupisce quindi il dato che ci fornisce TikTok stessa, ovvero che “il 44% degli utenti TikTok della GenZ ha comprato un prodotto fashion perché l’ha visto su TikTok”.
Qual è lo scandalo di cui si è parlato tanto?
Ora, inquadrato il fenomeno, veniamo all’attualità. Shein è stata preso di mira prima di tutto come brand che non rispetta i diritti dei propri lavoratori; secondariamente per via dell’inquinamento che produrrebbe. Insomma, l’abbigliamento di Shein sarebbe poco sostenibile non soltanto per i costi troppo bassi, ma anche per ciò che produce in termini di inquinamento, per continuare a creare nuovi prodotti da mettere sul suo e-commerce.
A gennaio di questo anno, il Time scriveva di come l’azienda produca circa 6,3 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. L’Italia, per fare un confronto, nel 2021 ne ha prodotte 328 milioni. Sotto questo profilo, però, Shein non è certo da sola. Sempre l’articolo del Time stima come l’intera industria del fashion pesi per il 10% sulle emissioni di CO2 globali.
Dicevamo che Shein non è sola: secondo un report di stand.earth, sono molti i brand di moda che anziché abbassare le emissioni nel 2022 le hanno addirittura aumentate. Secondo questo report, Nike e Inditex (Zara) hanno toccato le 10 milioni di tonnellate.
Torniamo però alla notizia: per cercare di correggere il tiro, Shein ha invitato un gruppo di influencer presso una delle sue fabbriche a Guangzhou, in China. Cosa è successo durante questo viaggio? Ovviamente quello che succede durante qualsiasi visita in fabbrica organizzata dalle aziende stesse (ve lo dice uno che di questi viaggi ne ha fatti diversi): la fabbrica risplende e i lavoratori felici producono sorridenti a ritmo di Musica. Questo almeno raccontavano i tanti reel caricati su Instagram, alcuni dei quali sono stati poi cancellati.
L’ondata di critiche è piovuta sulle influencer per quello che hanno raccontato a proposito della fabbrica, tra lavoratori felici e prodotti di qualità. Un racconto così lontano dalla realtà raccontata dalle tante inchieste da creare una rivolta contro le influencer stesse.
Dani Carbonari, una di queste influencer, è stata una delle più criticate sul web (con i soliti modi del web, tra minacce di morte e altri commenti simili) e nel giro di poco è stata costretta a cambiare versione, cancellando i video pubblicati e pubblicandone di nuovi in cui ha, di fatto, chiesto scusa.
Ma di cosa ci si stupisce veramente?
A questo punto qualcuno potrebbe domandarsi: “perché ci si stupisce?”. Se un capo d’abbigliamento arriva a costare un euro, possiamo veramente pensare che l’azienda rispetti le più basilari condizioni di lavoro? No, certo, questo no. Da qui però a chiudere gli occhi su quanto denunciato da Wired nella sua inchiesta (che racconta di condizioni lavorative disumane) o della violazione della stessa legge cinese sul lavoro raccontata dalla svizzera Public Eye, il passo è lungo.
Ha certamente anche ragione chi sostiene che non tutti possono permettersi un abbigliamento che sia realmente “sostenibile”, perché spesso i marchi che adottano questa filosofia producono abbigliamento di lusso. E forse il problema è proprio questo.
Lo spiega bene Alessandro Masala nel suo Breaking Italy: il problema più grosso della fast fashion è che ha definitivamente sdoganato un’idea del costo dell’abbigliamento che è letteralmente insostenibile. Il danno fatto da questa industria però è anche un altro: quello di aver distrutto la fascia media. Dai 2€ per una t-thirt si passa subito alle centinaia (sto estremizzando, ma sono sicuro che avrete capito) per un capo di lusso.
Cosa possiamo fare in concreto?
È la domanda delle domande, ovvero: “ok, ora so che non devo comprare da Shein, ma come faccio a essere certo che quello che compro altrove non arrivi dalle stesse fabbriche dove vengono sfruttate le persone e prodotte tonnellate di CO2?”.
L’industria della moda si sta muovendo, non possiamo dire che non stia facendo nulla. Così come l’Agenzia delle Nazioni Unite, che ha fondato la United Nations Alliance for Sustainable Fashion, che ha messo in piedi una serie di iniziative per raggiungere l’obiettivo di un’industria della moda che sia più sostenibile per le persone e per il pianeta.
La moda sostenibile è un tema di cui si è parlato e si parlerà anche durante laFashion Week milanese, a riprova di come si tratti di un tema assolutamente centrale. Quello che però non mi riesce facile capire è cosa si possa fare nel concreto se, cercando tra i brand di moda sostenibile, mi viene proposto Chloé, che vende una t-shirt in cotone biologico a 290€. Scontata, però, costa “solo” 174€.
Torniamo a quello che diceva Masala prima: non è possibile che si debba passare dai 2€ di Shein ai 174€ di Chloé. Deve esistere un’alternativa sostenibile a una cifra abbordabile che possa essere, ipotizzo, 30€.
I panni sporchi vanno lavati in casa
A questo punto qualcuno potrebbe pensare che questi fatti riguardino soltanto i paesi poveri o l’industria delle moda. E invece no, quando parliamo di diritti calpestati e condizioni di lavoro disumane, dobbiamo guardare anche alla nostra bella Italia.
Mi ha molto colpito l’inchiesta del quotidiano Domani, “La convenienza ha un costo. Ecco il mondo dei senza diritti”, che racconta dei turni massacranti dei lavoratori di Mondo Convenienza, il marchio più importante in Italia dell’arredamento low-cost, quasi tutti stranieri e con paghe da fame (si parla di 6 € lordi l’ora, altro che i 9€ del reddito minimo di cui si parla da qualche tempo).
Non bastasse, l’inchiesta racconta anche delle botte subite da uno dei lavoratori al centro della protesta, Rachid, a cui sono stati dati 40 giorni di prognosi per essere stato picchiato (presumibilmente) da uno dei suoi responsabili.
E se il settore del mobile low-cost parla di 6€ l’ora, non va molto meglio ai lavoratori (quasi tutti cinesi, questa volta) del settore dei mobili imbottiti, ovvero i divani. Di questo settore si era occupato Report, con un servizio denominato “Una poltrona per due” che denunciava, anche in questo caso, condizioni di lavoro pessime a paghe orarie indegne per un paese come il nostro.
Report:
Synthetics - Anonymous 2.0 Fashion’s persistent plastic problem
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
Alla fine Thread, il social network che ha fatto infuriare Elon Musk in quanto “clone” di Twitter creato da Meta, è uscito, ma non in Europa. Alla base del mancato sbarco ci sarebbe, guarda un po’, un problema di trattamento dei dati. Meta infatti permetterebbe il passaggio diretto da Instagram a Thread, compresi tutti i dati associati al profilo e questo, in Europa, non è possibile. Se però non riuscite a vivere senza provare l’ultimo social network (che a quanto pare sta bruciando rapidamente le tappe con 100 milioni di iscritti), qui potete trovare una guida per installarlo lo stesso. Ma in fondo diciamocelo: “perché?”
Fiat ha lanciato la nuova Topolino, una rivisitazione dell’auto storica che contiene parecchie citazioni dall’illustre passato del marchio. Si tratta di un’auto completamente elettrica, pensata per la città e per i più giovani. Si potrà infatti guidare a partire dai 14 anni e la velocità massima sarà limitata a 45 Km/h. Il costo? Meno di 10.000 €, ma è previsto anche un abbonamento mensile da 39€. Interessante ma, perché la versione Dolce Vita non ha gli sportelli?
Se avete cominciato a vedere online e nei negozi fisici prezzi scontati più alti dei prezzi originali, non stupitevi, i negozianti non sono impazziti di colpo. È entrato in vigore l’articolo 17 bis del codice al consumo, modificato recentemente dal decreto “Omnibus”. Secondo questo articolo del codice, quando si sconta un prodotto, si deve anche indicare il prezzo più basso applicato allo stesso nei 30 giorni precedenti la promozione. In pratica, questo nuovo articolo del codice al consumo dovrebbe impedire ai negozi di fare i furbetti mostrando uno sconto importante applicato a un prezzo di partenza alzato per l’occasione. Dai, era ora.
TI SEI PERSO LE PRECEDENTI PUNTATE?
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.