Il falso mito del genio e degli inventori solitari
Un’invenzione “di un solo genio” è quasi sempre l’ultima tessera di un mosaico collettivo. Dietro ogni svolta epocale c’è un ecosistema di persone, tecnologie e contesti che preferiamo non vedere.
Una delle più belle newsletter che potrete leggere su Substack è senza alcun dubbio “Appuntamento con la morte”, che tratta in modo leggermente sarcastico temi legati alla medicina e spesso anche alla morte. Ma la morte è in realtà un pretesto per giustificare un velo di umorismo che rende quello che l’autrice scrive più comprensibile, godibile e meno “mappazzone scientifico”.
L’ultima puntata di Appuntamento con la morte s’intitola “Non esistono eroi solitari” e mi ha scatenato una serie di pensieri che poi hanno portato a questa Insalata Mista, ovvero tutte quelle situazioni in cui viene scoperto qualcosa che cambia il corso dell’umanità e in cui il merito viene riconosciuto a una sola persona, quando in realtà quella persona è solo l’ultimo anello di una catena lunghissima.
Spesso, quell’ultimo anello non è nemmeno il più importante. Magari ha soltanto avuto il ruolo di mettere assieme quello che era già stato scoperto da altri scienziati, a cui è mancata solo la possibilità pratica di tirare una riga tra i puntini. Come nel caso raccontato in “Non esistono eroi solitari”, per esempio, che parla del trapianto di cuore e del fatto che ad altri scienziati non è stato possibile sperimentarlo solo per una questione normativa.
Un anno fa scrissi un’Insalata Mista che toccava lateralmente questo tema. Il titolo era “Le tecnologie abilitanti” e parlava proprio di tutte quelle tecnologie che hanno permesso a loro volta l’arrivo di altre tecnologie, quelle che poi sono arrivate al grande pubblico e che in qualche caso hanno cambiato il corso della storia.
Le tecnologie abilitanti
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Oggi parliamo proprio di questo: di tutti quei casi in cui abbiamo legato una svolta epocale, una scoperta scientifica incredibile, a un solo nome, rendendo queste persone dei miti in grado di cambiare per sempre la storia dell’umanità, senza curarci di tutto ciò che ha permesso davvero a quelle persone — a quegli scienziati o ingegneri — di arrivare dove sono arrivati.
Parleremo anche di un altro aspetto spesso poco considerato: il contesto storico e l’humus scientifico attraverso cui non solo un singolo scienziato, ma diversi centri di ricerca arrivano quasi contemporaneamente alla stessa scoperta. Cosa crea questo contesto scientifico in cui, in più parti del mondo, si arriva alla stessa scoperta? Quali sono le condizioni che rendono possibile lo “sblocco” di una determinata evoluzione scientifica o tecnologica?
Lo vedremo analizzando, per prima cosa, da dove nasce la necessità di attribuire le scoperte a una sola persona che assume così le vesti dell’eroe solitario; poi vedremo quali sono i casi più celebri di tecnologie abilitanti che hanno portato ad altrettante svolte rivoluzionarie; e infine a chi giova identificare un solo nome come autore di scoperte eclatanti.
Il mito dell’inventore solitario e la scorciatoia narrativa
Raccontare una scoperta senza un nome è difficile. Raccontarla senza darle un volto è quasi impossibile. La storia del progresso, così come la raccontiamo, ha bisogno di protagonisti riconoscibili: un inventore, uno scienziato, un genio solitario che “ha avuto l’idea giusta”. Per non parlare poi delle storie di riscatto sociale: il bambino cresciuto in una famiglia povera che ha studiato e lavorato duramente per arrivare a scoprire o inventare qualcosa che l’ha reso milionario.
È una scorciatoia narrativa potente, rassicurante, quasi esaltante. Funziona nei libri di scuola, nei documentari, nei titoli dei giornali. Funziona perché semplifica ciò che, per sua natura, è complesso e stratificato, spesso noioso da spiegare e ancor più da ascoltare.
Eppure questa semplificazione ha un costo: attribuire una scoperta a una singola persona non è solo una scelta divulgativa, è una riscrittura della realtà. La scienza e la tecnologia non avanzano per illuminazioni improvvise — quasi mai — ma per accumulo di tentativi, di errori e di miglioramenti incrementali. Il progresso non è una scintilla che scocca nel vuoto, ma una fiamma che si accende solo quando c’è abbastanza materiale pronto a bruciare. E quel materiale è quasi sempre il lavoro di molti, spesso distribuito su anni o decenni, talvolta su continenti diversi, che arrivano a confluire (quasi “in un solo momento”) verso uno specifico laboratorio o una specifica comunità di ricerca, dando poi gloria e onori a una singola persona. Il problema, però, non è dare un volto alle scoperte. Il problema è quando quel volto diventa l’unica cosa che ricordiamo.
Uno dei segnali più evidenti che il mito del genio solitario non regge è la frequenza con cui le grandi scoperte emergono contemporaneamente in luoghi diversi. Il calcolo infinitesimale nasce sia con Newton sia con Leibniz, quasi negli stessi anni. La teoria dell’evoluzione per selezione naturale viene formulata da Darwin, ma anche da Alfred Russel Wallace, indipendentemente. Queste situazioni non rappresentano un’eccezione statistica: sono un pattern ricorrente.
Le “scoperte simultanee” raccontano qualcosa che forse ci piace un po’ meno, ma che in fondo rappresenta la realtà dei fatti. Non che Newton o Darwin non fossero brillanti, ma che il loro genio si muoveva dentro un contesto che aveva già preparato il terreno. Senza la matematica sviluppata nei secoli precedenti, senza l’astronomia, la fisica, la filosofia naturale, certe idee semplicemente non sarebbero state pensabili. Arrivano quando arrivano perché il tempo storico è maturo, non perché qualcuno è improvvisamente più intelligente di tutti gli altri (beninteso: più intelligenti sicuramente lo sono, ma non straordinariamente più intelligenti degli scienziati dello stesso livello).
In questo senso, il progresso assomiglia più a una marea che a un fulmine a ciel sereno. Sale lentamente, quasi impercettibilmente, finché a un certo punto supera una soglia e sembra un evento improvviso. Ma guardando indietro, quella soglia era stata preparata passo dopo passo. Attribuire tutto a chi arriva per ultimo — o a chi sa comunicarlo meglio — è comodo, ma profondamente ingannevole.
Il mito dell’inventore solitario non è solo un errore storico: è, di fatto, un prodotto. Un prodotto culturale, più facile da vendere e da comunicare. Serve a costruire eroi, a rendere il progresso una storia individuale invece che collettiva. È una narrazione che piace al mondo odierno perché l’eroe ha un nome, un volto, un marchio. È una narrazione che piace ai media, perché è più facile raccontare una persona che un processo. Ed è una narrazione che piace anche a noi, perché ci illude che il cambiamento passi da gesti eccezionali, non da lavori lunghi, faticosi e spesso invisibili. Se ci pensate, succede anche nella politica, dove leggi e opere civili assumono il nome del ministro o del politico che le ha promosse (o promesse), come il Decreto Bersani, la Legge Bossi-Fini, il Ponte Salvini, ecc.
Ma questa narrazione ha effetti collaterali. Oscura il contributo di chi non firma i brevetti, di chi lavora nei laboratori, di chi costruisce strumenti, infrastrutture, condizioni materiali. Oscura le donne, i tecnici, i ricercatori junior: le figure che non rientrano facilmente nel racconto del genio carismatico. E soprattutto distorce il modo in cui pensiamo al progresso: come qualcosa che accade grazie a qualcuno, invece che grazie a molti.
Forse non possiamo fare a meno dei nomi e delle facce. Ma possiamo ricordarci che sono etichette, non spiegazioni. E che dietro ogni grande scoperta che “ha cambiato il mondo” c’è quasi sempre una folla silenziosa che quel cambiamento lo ha reso possibile molto prima che qualcuno se ne prendesse il merito.
Le rivoluzioni che non fanno notizia
Molte delle innovazioni che cambiano davvero il mondo hanno una caratteristica in comune: non fanno notizia. Non hanno una data precisa da ricordare sui libri di storia, non vengono annunciate con una conferenza stampa, non hanno un momento facilmente raccontabile come “prima” e “dopo”. Crescono lentamente, sotto traccia, esperimento dopo esperimento, finché qualcuno non costruisce sopra di loro qualcosa di visibile, comprensibile, vendibile, comunicabile. Ed è quasi sempre quel qualcuno a prendersi il merito della rivoluzione: quello che l’ha confezionata e ci ha messo il marchio sopra.
È il caso di gran parte della tecnologia che oggi diamo per scontata. I processori diventano più potenti, più piccoli, più efficienti. Le memorie aumentano di capacità. Le reti si velocizzano, i costi scendono. Nessuno di questi passaggi, preso singolarmente, sembra epocale. Eppure è proprio questa somma di progressi invisibili a rendere possibili le svolte che poi raccontiamo come improvvise.
Il progresso tecnologico raramente esplode: più spesso si deposita, strato dopo strato, come sedimenti. Quando finalmente emerge qualcosa di nuovo, ciò che vediamo non è l’inizio del processo, ma il suo punto di arrivo.
Nel racconto pubblico, l’intelligenza artificiale sembra nascere all’improvviso: un nuovo modello, un’interfaccia convincente, una demo che fa il giro del mondo dopo un tweet qualsiasi. Ma guardando sotto la superficie, diventa chiaro che quel salto non sarebbe stato possibile senza tutti gli avanzamenti tecnologici precedenti.
Le reti neurali esistono da decenni; il deep learning non è una scoperta recente. Ciò che cambia, negli ultimi anni, è la possibilità concreta di addestrare modelli enormi su quantità di dati impensabili fino a poco tempo prima. E questa possibilità arriva da altrove: dalle GPU progettate per i videogiochi, dai SoC (System on a Chip) degli smartphone che hanno conosciuto uno sviluppo incredibile, dai data center costruiti per servire video, social network e pubblicità, e infine dalle reti che vanno sempre più veloci per permetterci di vedere e ascoltare video in streaming.
In altre parole, l’intelligenza artificiale moderna è figlia del mercato consumer. Senza milioni di telefoni venduti ogni anno, senza la corsa alla grafica realistica nei videogame, senza la miniaturizzazione spinta dei chip e l’ossessione per l’efficienza energetica, oggi non parleremmo di modelli generativi. O, quantomeno, non nei termini in cui ne parliamo adesso.
Il merito, però, tende a concentrarsi su chi costruisce l’ultimo piano dell’edificio, non su chi ha gettato le fondamenta. Probabilmente di tutto questo rimangono una manciata di nomi: la gente comune parla di ChatGPT e Gemini, ma questi non sono che strumenti nati anche grazie a una serie di scoperte epocali eppure sconosciute ai più.
Esiste una dinamica ricorrente nella storia dell’innovazione: quando una tecnologia diventa possibile, qualcuno la realizza. Non perché sia l’unico in grado di farlo, ma perché le condizioni sono finalmente mature. È lo stesso meccanismo che spiega le scoperte simultanee: quando “l’idea è nell’aria”, come raccontano molti storici della scienza, prima o poi qualcuno la afferra.
Questo vale per la matematica, per la biologia, ma vale soprattutto per la tecnologia. Il telefono, l’elettricità, Internet, l’AI: nessuna di queste innovazioni nasce dal nulla. Arrivano quando esistono già i materiali, le competenze, le infrastrutture e — dettaglio non secondario — un contesto economico che rende conveniente svilupparle.
Attribuire il merito solo a chi arriva per primo sul mercato o sui giornali è un’abitudine comoda, ma miope, perché confonde l’atto finale con il processo che lo rende possibile. E finisce per raccontare l’innovazione come una serie di colpi di genio, invece che come ciò che è davvero: un lavoro collettivo, lungo, spesso invisibile, che solo alla fine prende una forma riconoscibile.
Scoprire non basta
Nella storia della scienza e della medicina, scoprire qualcosa non è quasi mai la parte più difficile. La parte difficile è far sì che quella scoperta funzioni, si ripeta, si diffonda, diventi affidabile e riproducibile in miliardi di pastiglie che arrivano sugli scaffali delle farmacie. Eppure, nel racconto pubblico, queste fasi tendono a scomparire. Rimane il nome di chi “ha scoperto”, mentre tutto ciò che viene dopo viene trattato come un dettaglio tecnico, un inevitabile sviluppo.
Per fare un esempio che si sposa perfettamente con questo concetto, prendiamo qualcosa che conosciamo tutti e che ha cambiato la medicina per sempre: la penicillina. Alexander Fleming osserva per caso l’effetto antibatterico di una muffa, ed entra giustamente nei libri di storia. Ma la penicillina che salva milioni di vite non è quella di Fleming: è quella che viene isolata, purificata, prodotta su larga scala grazie al lavoro di chimici, biologi, tecnici e industrie, spesso sotto la pressione della Seconda guerra mondiale. Senza quel lavoro collettivo, la “scoperta” sarebbe rimasta una curiosità di laboratorio. Eppure, quando raccontiamo quella storia, tendiamo a fermarci al momento dell’intuizione, come se il resto fosse solo burocrazia scientifica.
Questo schema si ripete continuamente. Il DNA viene associato ai nomi di Watson e Crick, ma senza il lavoro sperimentale di Rosalind Franklin — e senza un’intera comunità scientifica che stava già lavorando in quella direzione — la famosa doppia elica non avrebbe preso forma. Anche qui, il merito si concentra su chi riesce a costruire un modello convincente, non su chi rende possibile quel modello.
Il punto non è riscrivere la storia per togliere valore ai risultati individuali. Il punto è riconoscere che il progresso scientifico non segue una logica meritocratica pura. Non vince necessariamente chi contribuisce di più, ma chi si trova nella posizione giusta al momento giusto: vincono i dati giusti, gli strumenti giusti, il contesto giusto e, spesso, la capacità di raccontare per primo una storia coerente.
In medicina questo è ancora più evidente. I vaccini a mRNA, celebrati come una rivoluzione improvvisa, sono il risultato di decenni di ricerche fallite, finanziamenti intermittenti, intuizioni ignorate e tecnologie immature. Quando finalmente funzionano, sembrano una scoperta dell’ultimo minuto. In realtà sono il punto di arrivo di una lunga serie di tentativi che, per anni, non avevano prodotto risultati spendibili.
Il modo in cui attribuiamo il merito scientifico rivela molto di come pensiamo al progresso. Preferiamo gli eventi improvvisi ai processi, i momenti storici alle traiettorie lunghe, le singole persone alle comunità. È una scelta comprensibile perché funziona meglio come racconto, ma al tempo stesso è anche pericolosa: ci porta a credere che l’innovazione sia una questione di intuizioni brillanti, invece che di perseveranza, collaborazione e conoscenza condivisa.
Quando guardiamo alla scienza come a una sequenza di eventi eccezionali, perdiamo di vista il lavoro quotidiano che rende quei momenti possibili: il lavoro di chi costruisce strumenti, raccoglie dati, verifica i risultati, fallisce più volte prima che qualcosa funzioni davvero (e si rialza ogni volta). È un lavoro che raramente riceve riconoscimento pubblico, ma senza il quale nessuna scoperta cambierebbe mai il mondo.
Forse il problema non è solo a chi attribuiamo il merito, ma come lo attribuiamo. Finché continueremo a raccontare la scienza come una galleria di geni isolati, continueremo a non capire come funziona davvero. E, di conseguenza, a sottovalutare tutto ciò che serve perché una scoperta smetta di essere un’idea interessante e diventi una realtà che salva, cura, trasforma.
A chi conviene il genio solitario
A questo punto la domanda non è più se il mito dell’innovatore solitario sia sbagliato. Piuttosto è “a chi conviene continuare a raccontarlo così?”. Perché quella narrazione non è neutra, né casuale. Anzi: serve interessi molto concreti. Serve a semplificare il racconto del progresso, ma soprattutto serve a renderlo appropriabile.
Un processo collettivo è difficile da vendere. Non ha un volto o una storia da raccontare. Un individuo, invece, sì. Può diventare un simbolo, un brand, un’icona. Può essere associato a un’azienda, a un brevetto, a una visione del mondo. Può essere celebrato e, soprattutto, può essere isolato dal contesto che lo ha reso possibile, trasformando un risultato collettivo in un successo personale.
Non è un caso che questa narrazione funzioni così bene in un sistema economico che premia la proprietà intellettuale, la leadership carismatica e la competizione individuale. Il genio solitario è una figura perfetta: rassicura, semplifica, legittima. E poi ha a che fare anche con quella retorica del successo personale tipica dei Paesi occidentali, la cui società è spesso basata sulla corsa a fare sempre di più e meglio degli altri.
Attribuire il merito non è solo un atto simbolico: è un atto di potere. Decide chi viene ricordato, chi viene finanziato, chi viene ascoltato la prossima volta. Decide chi entra nei manuali e chi resta nelle note a piè di pagina. E spesso decide anche chi può permettersi di fallire e chi no.
Quando concentriamo il riconoscimento su pochi individui, rendiamo invisibile tutto ciò che non rientra in quella cornice: il lavoro dei team, delle infrastrutture pubbliche, delle università, dei laboratori, delle politiche industriali. Rendiamo invisibile persino il ruolo del caso, del contesto storico, delle condizioni materiali. Tutto ciò che non può essere personalizzato smette di contare.
Il paradosso è che così facendo finiamo per fraintendere anche l’innovazione futura. Se crediamo che il progresso dipenda da singoli talenti eccezionali, investiremo meno nei sistemi che li rendono possibili: istruzione, ricerca di base, infrastrutture, collaborazione. Continueremo a cercare il prossimo “genio”, invece di costruire le condizioni perché emergano nuove idee.
Forse il punto non è smettere di attribuire meriti individuali — ci mancherebbe — ma rimetterli al loro posto. Riconoscere che ogni scoperta, ogni innovazione, ogni svolta che “cambia il mondo” è il risultato di una rete di persone, di tecnologie, di idee precedenti, di fallimenti accumulati. Che il progresso non è una gara a chi arriva primo, ma un processo in cui molti contribuiscono e pochi vengono ricordati.
E anche quando una tecnologia è agli albori, dovremmo smetterla di giudicarla come se fosse già matura e pronta per essere diffusa in tutto il mondo. Mi viene da citare le auto elettriche e l’annosa discussione sull’autonomia, ad esempio (di cui ho già parlato diffusamente in diverse Insalate).
Ripensare l’attribuzione del merito non è solo un esercizio di giustizia storica. È un modo per capire meglio come funziona davvero il cambiamento. E forse anche per smettere di aspettarci rivoluzioni improvvise, salvatori solitari, scorciatoie geniali. Il progresso, quando funziona, è quasi sempre meno spettacolare di come lo raccontiamo. Ma è proprio per questo che vale la pena guardarlo da più vicino.
Perché dietro ogni nome inciso nella storia c’è quasi sempre una folla che ha lavorato in silenzio. E finché continueremo a ignorarla, continueremo anche a non capire come nascono davvero le cose che ci cambiano la vita.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini





Articolo bellissimo, complimenti