Il film su Barbie e il brand washing
Uscito dalla sala mi sono posto una domanda: se pure fosse soltanto brand washing, quello di Mattel, è davvero biasimabile un film così? Insomma: conta di più l'intenzione o il risultato?
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La parola di oggi: Woke, l’attenzione sui pregiudizi e sulle discriminazioni razziali, presto diventato un termine usato per parlare di tutte le discriminazioni.
IL MENÚ DI OGGI
La scelta di buttarsi sul cinema è piuttosto frequente negli ultimi anni. Lo hanno fatto Sony e Nintendo, non stupisce che Mattel, le cui vendite di Barbie continuano a calare, abbia scelto di provare col grande schermo;
D’altronde il brand washing è al centro di qualsiasi campagna di comunicazione di aziende grandi e piccole. Spesso però sfocia nel Woke Washing, ovvero l’attenzione verso certi temi posta in maniera pretestuosa. L’operazione di Mattel, per qualcuno, puzza un po’ di Woke Washing;
La realizzazione, a cura di una regista che ha già detto la sua sul mondo delle donne, è però di indubbia cura e attenzione. Tanto che viene da chiedersi se il fine, quello economico di Mattel, giustifichi sempre i mezzi, ovvero un film che indiscutibilmente ha il pregio di far riflettere.
» SE IL FINE GIUSTIFICA SEMPRE I MEZZI
Esco dalla visione del film di Barbie con un unico cruccio: averlo dovuto guardare doppiato, perché sarei stato proprio curioso di godermi la straordinaria performance di Ryan Gosling in originale.
Tutto il resto - è mio giudizio personale - merita assolutamente di essere visto. Sia che lo andiate a guardare con gli occhi sognanti di un’ex-bambino/a che ha adorato la bambola di Mattel; sia che ci andiate per guardare qualcosa di strano, curioso e che vi farà fare più di qualche sorriso; sia che ci andiate per leggere la sottile e sottintesa - ma manco tanto - critica al patriarcato di Greta Gerwig, che del resto era già nota per il suo impegno in questo tipo di scrittura, è in ogni caso un film che vi consiglio caldamente di guardare.
Qui però tratterò un altro aspetto, ovvero di come oggigiorno le grandi aziende arrivino persino a fare autocritica, pur di conquistare nuovi segmenti di mercato. Pur di espandersi lì dove vedono del facile profitto. È caduto insomma quel tabù che una volta avrebbe impedito a una grande multinazionale di fare autocritica e di scherzare su aspetti poco trasparenti del proprio passato (ma anche del presente) pur di arrivare a un pubblico diverso.
Parliamo insomma di “brand washing”, che a volte degenera nel più esecrabile “woke washing” (dopo lo spiego meglio), perché viviamo in un’epoca in cui più di ogni cosa importa come vuoi apparire. Abbiamo già parlato, nelle puntate precedenti, di grandi aziende della fast-fashion che, pur sfruttando le popolazioni povere e generando una quantità di inquinamento senza precedenti, non cercano altro che apparire come attente ai diritti di tutte le persone. Di come moltissimi produttori di auto elettriche cerchino di apparire “green" e rispettosi dell’ambiente quando tutto lascia pensare che il fine ultimo sia tutto tranne che l’ambientalismo (ma ci torneremo, ho in serbo alcuni report ufficiali che mostrano dati molto interessanti).
Ecco, per chiudere questo piccolo editoriale, mi ha fatto davvero pensare molto il come si sia riusciti a coniugare, tutto sommato in maniera funzionale e piacevole, il più banale interesse di darsi una ripulita e apparire al consumatore “un’azienda attenta ai diritti delle donne e che ha fatto i conti col proprio passato”, con una effettiva e riuscita critica sociale, che prende di mira non solo il modello di donna che Barbie ha sicuramente rappresentato negli anni ’80/’90, ma anche il patriarcato e un sessismo che ancora oggi siamo lontani dall’aver debellato. Insieme a una bella critica sul maschilismo imperante nei ruoli apicali delle aziende (americane, figuriamoci in Italia dove siamo anni luce indietro).
Insomma, il film è un mega spot per la Mattel, che infatti ha già in programma 15 nuovi film su altrettanti personaggi di successo, ma nel suo più bieco e banale obiettivo di rifarsi la faccia, riesce persino ad essere onesta. Merito forse della scelta di lasciare carta bianca a una regista che sapevano non avrebbe fatto sconti.
Sarebbe come, perdonatemi la metafora politica (con la quale perderò molti iscritti, lo so già), un partito di destra estrema, per cercare di darsi una ripulita e chiudere con certi stilemi del passato, decidesse di farsi fare un film, scegliendo come sceneggiatore e regista un personaggio di sinistra. Ecco, il risultato sarebbe sicuramente sincero e spontaneo, ma sarebbe comunque funzionale allo scopo del committente, perché apparirebbe agli occhi di chi lo vede come una critica onesta e imparziale. Alla fine, però, quel film cosa sarebbe? Una critica sincera e schietta o un modo furbo e scaltro di rifarsi il trucco e apparire puri agli occhi dei propri detrattori?
Come sempre - ormai l’avrete capito - non vi darò una risposta. Anche perché ritengo che sia veramente una questione soggettiva. Però si, indagheremo su questo, con qualche dettaglio storico e qualche dato.
Buona lettura.
Franco A.
» TUTTO PARTE DA UNA CRISI
In sintesi:
Mattel vende meno Barbie, ecco perché fonda Mattel Films;
Il film viene affidato a una regista impegnata a raccontare il mondo delle donne, che fa un affresco sul mondo femminile e trasforma la bambola in una parabola sulla sua evoluzione da giocattolo a donna;
Nel film ci sono critiche forti al patriarcato, alla gestione maschile e maschilista delle aziende e anche forme di autocritica, che fanno pensare a una gigante operazione di woke washing. Scopriamo cos’è e cosa c’entra col film di Barbie.
Se c’è una costante nella storia di Mattel, azienda produttrice della bambola più famosa di sempre, sono le crisi e gli scandali.
Le vendite della bambola, che si stima possano aver toccato il miliardo di unità, hanno cominciato a calare già a partire dagli anni 2000. La ragione di questo calo è sicuramente dovuta all’arrivo di altri attori, come le bambole Bratz, che hanno conquistato una notevole fetta del mercato. Ma soprattutto si deve al progressivo allontanamento del pubblico da un modello che la bambola non rappresenta più.
Barbie ha infatti suscitato per anni le proteste e le critiche di una parte dell’opinione pubblica, finendo per essere accusata di aver creato un modello sbagliato di donna perfetta, a cui le bambine finivano per ambire e ispirarsi.
Il film parte proprio da qui, dal contrasto a questa teoria ritenuta sbagliata nelle fondamenta: Barbie non era un modello di bellezza stereotipata - bionda e bella ma poco altro - piuttosto la ribellione al modello delle bambole popolari negli anni ’50, perlopiù bambolotti da accudire che avrebbero inculcato nelle bambine di quella generazione una visione del mondo fatta di gestione della casa e cure reverenziali per il marito. Barbie invece proponeva l’emancipazione femminile, la realizzazione delle donne attraverso lavori e professioni che le rendessero realmente indipendenti. Per semplificare: una lotta all’imperante patriarcato.
In ogni caso, quella delle critiche rivolte al modello stigmatizzato dalla bambola, è solo una piccola parte dei problemi che ha riguardato l’azienda. La bambola fu creata da Ruth Handler (cognome di nascita Mosko), che nel film ha un ruolo sostanziale. Fu lei a ideare la bambola nel 1959 e a fondare Mattel insieme al marito Elliot Handler e a un partner, Harold Matson detto “Matt”. Infatti il nome Mattel nasce proprio dall’unione di Matt e El, quindi i nomi del socio e del marito.
Quest’ultimo però, il marito appunto, non fu subito convinto dall’idea di costruire una bambola che rappresentasse le forme reali di una donna. Si convinse però dopo aver scoperto l’esistenza di un altro esemplare di bambola di questo genere in Germania, bambola a cui evidentemente Mattel si ispirò parecchio.
Parliamo di Bild Lilli, bambola prodotta nel 1954 da Greiner & Hausser Gmbh. La vera antesignana di Barbie, si potrebbe dire. Ma come ormai sappiamo bene, il successo non lo fa quasi mai l’idea, piuttosto come l’idea viene trasformata in realtà e soprattutto come viene gestita finanziariamente.
Tutto ruota intorno ai nomi dei protagosti di questa vicenda. Se dal nome dei due soci (maschi) nasce il nome dell’azienda, dai nomi dei figli di Ruth nascono i due protagonisti del film e del più importante business dell’azienda: il nome Barbie riprende infatti il nome della figlia di Ruth e Elliot, Barbara, mentre Ken nasce dal nome del figlio della coppia, Kenneth.
Partner della coppia è però un ingegnere, tale Jack Ryan, che negli anni successivi alla creazione della bambola divenne celebre per ben altre circostanze. Sposato cinque volte, di cui una con la celebre attrice Zsa Zsa Gabor, condusse una vita di eccessi, tra cocaina, feste e prostituite. Accusato di aver persino tenuto in ostaggio la figlia, finì per suicidarsi. Sulla sua vita, la figlia più grande Ann Ryan, ha prodotto un podcast dal nome “Dream House - The real story of Jack Ryan, the father of Barbie”, che potete trovare su Spotify (solo in inglese).
I guai per i creatori di Barbie non finiscono qui, perché anche Kenneth Handler, sposato con tre figli, finì al centro di diversi scandali sessuali e accuse di molestie da parte di altri uomini a cui Handler avrebbe offerto ruoli nei suoi film. Morì poi nel 1994, quasi certamente di AIDS come accertato da più fonti, anche se ufficialmente la madre parlò di tumore al cervello.
Tutto questo è raccontato nel libro inchiesta “Toy Monster: The Big, Bad World of Mattel”, una biografia dell’azienda ovviamente non autorizzata, scritta da Jerry Oppenheimer, penna di punta del New York Times. Il libro purtroppo non è disponibile in italiano, ma per chi fosse interessato è sicuramente una lettura che ci può dire qualcosa sulla estrema necessità da parte di Mattel di darsi una ripulita.
Cos’è il Woke Washing e perché molte aziende vengono accusate di praticarlo
In gergo tecnico, questo genere di pulizia si chiama “brand washing”, o forse sarebbe meglio parlare di “woke washing”. Non cercate il termine woke sui traduttori perché non è propriamente inglese, è invece un termine diventato popolare a partire dal 2010 nello African-American Vernacular English (AAVE), che è uno slang popolare tra le popolazioni afro-americane.
Woke è un termine nato inizialmente per intendere tutte le battaglie contro i pregiuzi e le discriminazioni razziali, per poi allargarsi a diversi tipi di discriminazioni, come quelle sessuali, per finire inglobando temi di giustizia sociale cari all’ala progressista americana. Da qui lo slogan “stay woke”, divenuto popolare durante le proteste che fanno capo al movimento BLM, Black Lives Matter.
Ok, il “woke woshing” però è un’altra cosa, ed è inteso come lo stfruttamento strumentale di queste battaglie e di questi ideali per avvicinare le aziende a un pubblico più vasto, per fare l’occhiolino insomma a nuovi pubblici che sono più attenti di eri alla sostenibilità, al rispetto dei diritti e alle discriminazioni.
Sono decine le campagne pubblicitarie che sono state additate di “woke washing”: da quella di Pepsi in cui la modella Kendall Jenner offre un “Pepsi moment” alla polizia schierata per fronteggiare la protesta di attivisti di qualche genere, allo spot per il Super Bowl 2017 di Audi America, in cui un papà si interroga su come sarà difficile per sua figlia ritagliarsi un futuro professionale che le riconoscerà i giusti meriti pur non essendo un uomo. E le regala una S5, sullo sfondo di una promessa:”Audi of America is committed to equal pay for equal work”. Salvo poi scoprire che il board di Audi era (all’epoca) in larghissima parte maschile.
D’altronde il “woke washing” non è soltanto un modo furbo con cui multinazionali senza scrupoli si rifanno il trucco, piuttosto è diventato un capitolo importante della strategia aziendale moderna. Sui vari siti istituzionali della aziende troverete facilmente, oltre alla “Vision” e alla “Mission”, un’altra voce, che è la “Purpose”, lo scopo dell’azienda. Ovvero le ragioni che spingono a fare impresa, ad avere un ruolo e un impatto sociale che va oltre la vendita dei prodotti o dei servizi.
La purpose è così rilevante da diventare l’argomento principale delle lettere che annualmente Larry Fink, Amministratore di Black Rock, scrive ai CEO delle aziende sostenute dal fondo. Black Rock, per chi non lo sapesse, è uno dei fondi più grandi del pianeta, che finanzia aziende di ogni dimensione con miliardi di dollari. Basti pensare che nel 2022 ha distribuito ai suoi investitori 5 miliardi di dollari.
Ebbene, nel 2018 Fink, nella sua lettera intitolata “A sense of purpose”, scriveva agli amministratori delle aziende sostenute da Black Rock, che bisogna creare valore a lungo termine e che gli amministratori devono chiedersi che ruolo svolgono nella comunità, come gestiscono il loro impatto sull’ambiente e come stanno lavorando per creare una forza lavoro diversificata. Insomma diritti, ambiente, lavoro. Temi che vi suoneranno certamente familiari.
Sapete qual è il vero problema del “woke wahsing”? È che quando le aziende si affidano a grandi agenzie di comunicazione, poi il messaggio che passa rischia di diventare realmente autentico. Di essere efficace. È la base della comunicazione no? Diffondere un messaggio nel modo più efficace possibile.
Trovate un esempio qui sopra: la campagna di Gillette in risposta al movimento Me Too è straordinariamente efficace nel criticare il modello che in fondo Gillette ha sempre sostenuto: quello della mascolinità tossica e dell’uomo che deve chiedere sempre il meglio. Tuttavia è stato fortemente criticato per essere un’operazione di “woke washing”.
Quindi, torno alla domanda che mi ponevo nell’editoriale: un’operazione di “woke whashing” è realmente dannosa in quanto costruita con il solo scopo di conquistare nuovi pubblici e nuovi mercati, o è tutto sommato un male necessario a veicolare comunque un messaggio efficace che smuove le coscienze e arriva a ottenere un risultato?
Il film di Barbie o il film di Greta Gerwig?
Ed eccoci tornati dunque, dopo un lungo percorso attraverso il bisogno di Mattel di fare un po’ di brand washing e l’aver scoperto come questo tipo di operazione, che i contestatori chiamano “woke washing”, sia in realtà diventato parte della strategia di tutte le grandi aziende.
Mattel stava e sta perdendo fatturato, questo è un dato di fatto attualissimo. Qualche anno fa, tuttavia, ha deciso di esplorare nuovi campi, da qui nasce Mattel Films, che è co-produttore del nuovo film di Barbie.
Il risultato è un successo. Il film, costato intorno ai 130 milioni di dollari, ne ha incassati 164 soltanto nel primo weekend di proiezione, per attestarsi al momento a 578 milioni di dollari in tutto il mondo. Non stupisce quindi che Mattel abbia messo in programma 15 nuovi film live action con protagonisti i suoi personaggi di successo: dalle Hot Wheels a Big Jim, da Polly Pocket a Thomas & Friends (da noi noto come Il Trenino Thomas).
Quindi operazione riuscita, ma di che film si tratta? Cercherò di evidenziarvi i potenziali spoiler, anche se ritengo che ci sia ben poco da spoilerare. Il significato qui è tutto tranne che nella trama.
Si tratta di un film che si lascia interpretare in diversi modi e che possiede più strati di lettura. È sicuramente una commedia brillante e divertente. Merito di un Ryan Gosling davvero eccezionale, ma anche di un Will Ferrell che non delude mai e di Michael Cera, che interpreta uno sfortunato Alan, il migliore amico di Ken.
Tranquilli, ora arriviamo al lato femminile: ovviamente brava e straordinariamente perfetta Margot Robbie nel ruolo di Barbie, ma altrettanto di livello è la performance, anzi forse ancora migliore, di Kate McKinnon, nel ruolo della Barbie stramba.
La vera star del film però è sicuramente Greta Gerwig, che ha scritto e diretto il film insieme al suo compagno, Noah Baumbach. Tra le varie collaborazione, la Gerwig ha diretto Lady Bird (2017) e Piccole donne (2019), entrambi nominati agli Academy Award come miglior film, ma con il primo la Gerwing ha ottenuto anche la nomination come Miglior regista e Miglior sceneggiatrice originale, mentre per il secondo è stata candidata come Miglior sceneggiatura adattata. La Gerwig è stata inclusa anche nell’annuale lista del Time (anno 2018) tra le 100 persone più influenti del mondo. Wow.
Steven Spielberg ha scritto di Greta Gerwig:”Non tutti gli anni il primo lungometraggio da solista di un regista ti travolge nella sua dolcezza e dolore, nella sua umiltà e franchezza e nella sua fiducia nell'arte e nel mestiere del cinema. Certo, è già successo prima, riportando alla mente Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, Fruitvale Station di Ryan Coogler e ora Greta Gerwig e Lady Bird”.
Stiamo parlando quindi di una regista emergente ma dalla grandissima esperienza, soprattutto nel raccontare il mondo femminile. Il suo ultimo film è proprio questo: ci si diverte e si sorride, ma il sorriso si increspa un po’ quando Barbie riceve delle molestie, o quando entra in un consiglio di amministrazione della Mattel completamente al maschile.
**** ATTENZIONE, RISCHIO SPOILER! ***
Le Barbie di Barbieland finiscono poi vittime di un incantesimo, quando Ken torna indietro dal mondo reale illuminato da un’idea di patriarcato che cerca di replicare - apparentemente con successo - nel mondo tutto rosa e sorrisi di Barbieland. Le donne diventano così quello che spesso sono ancora oggi nel mondo reale - questa la critica più forte del film - un orpello a corredo di un mondo troppo maschile e troppo maschilizzato. Sarà la Barbie stramba a porre rimedio a tutto questo, suggerendo a Barbie un piano per sovvertire il patriarcato imposto da Ken.
Colpiscono due momenti particolari del film: il primo è l’incontro con la creatice di Barbie, Ruth Handler, che tra l’altro accenna ai suoi “problemi finanziari”. Si fa riferimento chiaramente al fatto che causò l’uscita della Handler dalla Mattel, ovvero la manomissione di fatture e altri documenti che le valse l’accusa di falso e frode da parte della Securities and Exchange Commission nel 1978, un altro esempio di come il “brand washing” possa giocare con fatti veri e controversi in una sorta di pubblica confessione.
Ruth spiega a Barbie come la vita reale, quella degli esseri umani, sia più dura da affrontare rispetto al mondo dorato di Barbieland. Una metafora di ciò che dovranno affrontare le bambine una volta uscite dall’ovattato ambiente domestico.
Il secondo momento da sottolineare è la battuta finale, dove Barbie chiede di un ginecologo, che chiude il film sancendo la definitiva evoluzione di Barbie da bambola a donna. Questo perché durante tutto il film si allude più di una volta alla mancanza dei genitali da parte delle bambole (anche di Ken, che però sorvola lasciando intuire che c’è dell’altro).
Dunque, con questa battuta, Barbie dichiara al mondo di non essere più una semplice bambola, ma di essere entrata nel mondo reale, di essere diventata una vera donna. Una difficile decisione presa dopo essere stata costretta a scegliere tra scarpa a tacco alto, metafora del mondo di Barbieland, e le Birkenstock, metafora del mondo reale. Un’altra scena magistrale che strappa più di una risata, con un forte richiamo alle pillole di Matrix.
**** FINE RISCHIO SPOILER ****
Cos’è Barbie e perché dovreste vederlo
Vada come vada, pensiate quello che volete, Barbie merita di essere visto, non fosse altro che per vedere come la Gerwig ha saputo tradurre i giocattoli in immagini reali. Fantastiche le scene che rappresentano il passaggio da Barbieland al mondo reale, così come la spiaggia e il mare in cui Ken fa la prima gaffe.
Il film di Barbie offre tutto sommato due ore piacevoli, che strappano qualche sorriso e che non annoiano. Poi, se ci volete leggere qualcosa di più, ci troverete tanto su cui riflettere anche usciti dalla sala. Tanto che poi ti viene in mente di documentarti un po’ sull’azienda e sulla bambola più famosa del mondo e finisce che ci scrivi una newsletter intera.
Barbie è, infine, un’immensa opera di “brand washing”, che non mi sbilancio a definire “woke washing” perché significherebbe dare un giudizio su tutta questa faccenda che non voglio dare.
Dicevo nell’editoriale: se lo scopo non è edificante, ma l’azione raggiunge comunque lo scopo, possiamo o meno biasimare il risultato? Traduco: se anche Mattel fosse partita con le peggiori intenzioni di rifarsi il trucco e risollevare le sorti economiche dell’azienda senza alcuna sincera intenzione di parlare di donne e patriarcato, è davvero criticabile un film che poi nella sua costruzione e nel suo risultato finale, appare un immenso affresco di come una certa idea dell’uomo e del patriarcato sia diventata ormai quasi ridicola, fuori contesto e persino patetica?
Come sempre, per citare il Quelo di Guzzanti, la risposta cercatela dentro di voi (anche se poi è sbajata).
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
iPhone vi dirà cosa significano i segnali dell’auto - Molti di voi, tra i quali chi scrive, ignoreranno che Apple ha introdotto l’anno scorso una funzionalità che si chiama “Visual Look Up”. Una volta fatta una foto, scorrendo il rullino, se appare una stellina sull’icona delle informazioni, iOS sarà in grado di darci informazioni sul contenuto della foto. Una pianta per esempio, o un punto di interesse. Ebbene, con iOS17, Visual Look Up ci dirà anche cosa significa una particolare spia luminosa che dovesse accendersi sul cruscotto dell’auto. Comodo no?
Twitter, alla fine, è diventato “X”. Sia la versione web prima, che l’app per Android poi, hanno mandato in pensione il celebre uccellino per far posto alla ben più anonima X, che tanto piace a Elon Musk. Ci sono diverse voci che parlano della probabile evoluzione di X in qualcosa di più di un social network (più di una voce, ne ha parlato anche la CEO Linda Yaccarino). Sembrano esserci anche problemi sul fronte del marchio: sia Microsoft (per la sua console Xbox) che Meta, posseggono entrambi un marchio con una X. Insomma, la questione è controversa, ma intanto il cambiamento è in atto e presto arriverà anche su iOS. L’uccellino è scappato, speriamo sopravviva.
E pace fu tra esercenti e banche sulla questione del POS. L’associazione delle banche e quella degli esercenti hanno finalmente trovato un accordo col quale verranno ridotti ai minimi le commissioni sulle transazioni fino ai 30€ e addirittura azzerate per quelle entro i 10€. Insomma, questione di poco e potremo finalmente comprare il giornale col bancomat. Ma tanto, poi, chi lo compra più il giornale? 😢
TI SEI PERSO LE PRECEDENTI PUNTATE?
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.