Le cose fatte una volta duravano di più, signora mia
Lavatrici, auto e tessuti: è vero che una volta erano migliori? Tra dati, nostalgia e nuove abitudini, la verità è più complessa di quanto sembri.
Quella di “una volta si facevano le cose meglio, per durare di più” non è soltanto una frase ripetuta ad libitum da chiunque entri nella fase “boomer” della propria vita, ma è anche un’idea molto diffusa. Tutti noi, nessuno escluso, sotto sotto pensiamo che un tempo le cose si facessero meglio: più solide, più resistenti, più durature.
Questa convinzione sulla qualità degli oggetti che ci circondano riaffiora ogni volta che ci capita di toccare qualcosa prodotto decenni fa. Anzi, nella nostra percezione, il periodo d’oro della qualità si concentra tra il secondo dopoguerra e gli anni ’80. Poi, via via, la qualità sarebbe inesorabilmente crollata. C’è chi accusa l’influsso della Cina, chi parla di obsolescenza programmata, chi dà tutta la colpa alla tecnologia.
Io stesso ho iniziato a riflettere su questa cosa dopo aver visto un video sui social in cui un creator — un meccanico, o forse un carrozziere — mostrava la qualità “incontestabile” di una vecchia Alfa Romeo, forse un’Alfa 75, confrontandola con una moderna Giulia.
«Questa era fatta per durare! Questa qui invece no!» ripeteva, prendendo a sberle la carrozzeria e le plastiche della vecchia (ma sempre affascinante, per noi anzianotti) berlina col Biscione.
Ho cominciato a pensarci perché, dove c’è un luogo comune, di solito si nasconde anche una mezza verità. O almeno un’idea collettiva, un miscuglio di comunicazione, propaganda, nostalgia, ricordi e convinzioni popolari. Mi sono chiesto: è davvero così vero che le cose fatte una volta erano migliori di quelle fatte oggi? E man mano che cercavo una risposta, mi sono trovato davanti a così tanti dettagli da considerare che, lo ammetto, ho rischiato di mollare questa Insalata.
Gli oggetti che acquistiamo — e la loro qualità intrinseca — dipendono da una miriade di fattori.
Ma prima di tutto, c’è una domanda da chiarire: cosa intendiamo per qualità? Quando possiamo dire che un prodotto “dura”? Quando passa molto tempo prima che si rompa e siamo costretti a sostituirlo, oppure quando lo cambiamo pur essendo ancora funzionante? Quest’ultimo caso, per esempio, riguarda la cosiddetta obsolescenza funzionale. Quanti televisori sono stati buttati con l’arrivo del digitale terrestre? Quanti vengono scartati solo perché è cambiato il loro “contenitore”? Un esempio? Cambio la cucina, e quindi cambio anche il piano cottura e il forno. Come minimo.
C’è poi un altro aspetto di questa questione davvero complessa: la sofisticazione dei processi industriali. Rispetto agli anni ’80, l’industria di oggi è su un altro pianeta. L’introduzione prima dell’elettronica, poi dell’informatica e infine della robotica ha permesso di produrre oggetti sempre più precisi e sofisticati. Ma la ricerca non si è mossa solo verso il miglioramento: ha puntato anche all’efficienza. Efficienza nei processi, certo, ma anche nei materiali. Materiali più leggeri, più economici — e sempre più sostenibili. Il risultato? Una lavatrice che oggi si compra con poche centinaia di euro, cosa impensabile soltanto vent’anni fa, e che fa molto di più della sua prozia con una frazione dell’energia. Questa “democratizzazione” dell’elettrodomestico deve essere letta come un progresso o come un impoverimento qualitativo?
Un’ultima questione, e poi vi lascio al resto dell’Insalata. L’industria moderna, nella continua ricerca di materiali più efficaci, efficienti ed economici, ha trovato soluzioni un tempo impensabili.
Il classico esempio è il pile: un materiale creato per essere estremamente economico ma al tempo stesso caldo. Oggi è diffusissimo, soprattutto nell’abbigliamento tecnico, e ha permesso di realizzare capi che proteggono in modo eccellente dal freddo, senza sfruttare animali e a costi contenuti. Di conseguenza, però, il pile è anche un materiale “povero”, che con il tempo si rovina facilmente. È quindi da considerare meno “qualitativo”?
Di questo — e di molti altri casi concreti, con gli immancabili dati — parleremo nell’Insalata di oggi.
Quando qualcosa “dura di più”?
La prima domanda da porsi, prima ancora di guardare la lavatrice, il televisore o l’automobile, è semplice solo in apparenza: cosa significa che un oggetto “dura di più”?ì A livello intuitivo potremmo rispondere: “dura finché non si rompe”. Ma è davvero così? Nel linguaggio degli economisti e dei sociologi della tecnologia, la “durata” non è un valore assoluto: dipende da almeno tre tipi di obsolescenza — tecnica, funzionale ed estetica — che convivono e spesso si confondono nella nostra percezione quotidiana.
L’obsolescenza tecnica è quella più facile da capire: un oggetto smette di funzionare, o costa troppo ripararlo rispetto a comprarne uno nuovo. È l’ambito delle lavatrici bruciate, dei telefoni che non si accendono, dei frigoriferi che perdono gas. D’altronde questa è anche una conseguenza dell’abbassamento dei prezzi al pubblico e della cosiddetta “democratizzazione” degli elettrodomestici: più abbassi il prezzo e più la riparazione diventa antieconomica. Quando una lavatrice l’hai pagata 300€ e si guasta un pezzo che ne costa 100€ più la manodopera, cosa fai, la ripari? Quando le lavatrici invece costavano 2 milioni di lire e si rompeva un pezzo il cui costo era 100.000 lira allora sì che la riparavi e magari ci facevi altri cinque anni, per fare un discorso molto terra terra.
Per fare un esempio ancora più terra terra — e di sicuro molto popolare tra chi mi legge — la celebre lavatrice che acquisto Magnotta era una San Giorgio che pagò 480.000 lire nel 1981, quando lo stipendio medio di un operaio era di 350.000 lire e il reddito medio annuale (fonte Banca d’Italia) era di 7.700.000 lire l’anno. Quasi uno stipendio e mezzo per una lavatrice, come se oggi la pagaste 2.200€ circa.
L’obsolescenza funzionale, invece, è più subdola: è quando l’oggetto funziona ancora perfettamente, ma il mondo intorno a lui è cambiato. È successo con milioni di televisori perfettamente integri diventati inutili dopo l’arrivo del digitale terrestre; o con i vecchi computer che non possono più installare un browser moderno.
Infine c’è l’obsolescenza estetica, la più umana di tutte: l’oggetto smette di piacerci. Non perché non funzioni, ma perché non ci rappresenta più. È la cucina “vecchio stile” che sostituiamo solo per avere un forno a incasso più elegante, il telefono che cambiamo perché ha una cornice più sottile, la macchina che non “sta più bene” nel box.
Il Parlamento Europeo, in uno studio del 2016 intitolato A Longer Lifetime for Products: Benefits for Consumers and Companies, mette in fila proprio queste distinzioni, ricordando che “la durata percepita dei prodotti non dipende soltanto dalla resistenza fisica, ma anche da fattori psicologici e culturali come la moda, l’evoluzione del design e le strategie di marketing”.
Il documento invita a non confondere la vita tecnica (il tempo fino alla rottura) con la vita di servizio (il tempo fino alla sostituzione effettiva), sottolineando che spesso gli oggetti vengono dismessi prima del guasto reale.
Uno studio empirico del 2015, The Consumers’ Desired and Expected Product Lifetimes, ha misurato la distanza tra ciò che le persone vorrebbero e ciò che fanno davvero: in media, i consumatori desiderano che i prodotti durino da una volta e mezza a quasi quattro volte più a lungo di quanto li utilizzino effettivamente. Non è però la scarsa qualità costruttiva a interrompere quella durata, ma la nostra tendenza a sostituire gli oggetti prima che si rompano, per ragioni estetiche, tecnologiche o semplicemente di desiderio di novità. In altre parole, la vita utile degli oggetti oggi non è limitata tanto dai materiali, quanto dalle nostre abitudini di consumo.
L’obsolescenza programmata, quella “vera”, esiste ma è meno sistematica di quanto si creda. Il report europeo del 2016 spiega che solo in rari casi i produttori inseriscono intenzionalmente componenti a vita limitata; molto più spesso si tratta di obsolescenza di contesto, generata da aggiornamenti software, normative ambientali o standard tecnologici che rendono un prodotto “vecchio” pur essendo ancora funzionante. È un fenomeno evidente nell’elettronica e nell’automotive, dove la parte digitale invecchia più in fretta della meccanica.
Eppure, la percezione collettiva che “una volta le cose duravano di più” nasce proprio da qui: dalla difficoltà di distinguere tra ciò che si rompe, ciò che non serve più, e ciò che non ci piace più. È un miscuglio di memoria, di nostalgia e di valori culturali. Forse, più che parlare di oggetti che duravano di più, dovremmo parlare di persone che cambiavano più lentamente.
Perché oggi ci sembra che tutto duri meno
Se c’è un dato che sembra dare ragione al luogo comune della “qualità perduta”, riguarda proprio gli elettrodomestici. Uno studio condotto dalla Norwegian University of Science and Technology (NTNU) nel 2025, Long-term lifetime trends of large appliances since their introduction in Norwegian households, ha mostrato che la durata media delle lavatrici è passata da circa 19 anni a poco più di 10, e quella dei forni da 24 a 14. Un calo di quasi la metà, che ha fatto gridare all’obsolescenza programmata. Ma gli stessi autori precisano che il fenomeno non riguarda tutti gli apparecchi e che le cause sono molteplici: materiali diversi, nuovi standard di sicurezza, riduzione dei costi e mutamento delle abitudini domestiche. In altre parole, non c’è un grande complotto dei produttori, ma un’evoluzione tecnica e culturale.
Eppure la sensazione rimane. Forse perché gli oggetti di oggi sembrano più fragili: troppo plastica, troppa elettronica, troppi sensori pronti a guastarsi. Ma la verità è che, pur durando qualche anno in meno, gli elettrodomestici moderni consumano fino al 60% in meno di energia rispetto a quelli di trent’anni fa e costano molto meno in proporzione al reddito medio. Secondo i dati di APPLiA Italia, la durata media di frigoriferi, congelatori, lavatrici e lavastoviglie varia oggi tra i 12 e i 20 anni, un intervallo che non si discosta molto da quello degli anni ’80, ma con un impatto ambientale ed economico decisamente più contenuto.
C’è poi la questione del prezzo. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, una lavatrice negli anni ’80 costava quanto o più di uno stipendio medio mensile — oggi, anche senza sconti o offerte, la si può comprare con una frazione di quella cifra.
La differenza non è soltanto economica, ma psicologica: quando un oggetto costa poco, tendiamo a considerarlo usa-e-getta. Il rapporto tra costo e durata si è assottigliato, e con esso l’idea stessa di “investimento domestico”. Negli anni ’70 comprare un frigorifero era un atto quasi solenne, qualcosa che “ti restava per sempre”; oggi è un acquisto impulsivo, online, con consegna in 24 ore e smaltimento gratuito del vecchio. Ricordo il momento in cui in casa mia si sostituì il televisore del salotto: fu quasi un evento, una celebrazione. Tutta la famiglia si recò in negozio a scegliere il modello giusto.
Lo studio europeo Product lifespans — monitoring trends in Europe -dell’European Environment Agency (EEA, 2024) suggerisce che in molti casi la riduzione della vita media non è tanto meccanica, quanto comportamentale: cambiamo prima perché vogliamo cambiare prima. La frequenza di sostituzione anticipata cresce con il reddito e con la velocità dell’innovazione.
Soprattutto nei beni digitali — smartphone, TV, piccoli elettrodomestici — la vita utile tecnica spesso supera quella percepita. Ancora di più: quanti elettrodomestici cambiamo perché cambiamo la cucina? E quanti perché quelli nuovi hanno una funzione in più o consumano molto meno?
Così, più che un mondo in cui “le cose durano meno”, viviamo in un mondo in cui ci stanchiamo più facilmente delle cose e, essendo così alla portata di chiunque la sostituzione, procediamo senza troppi pensieri. Siamo diventati più mobili, più esigenti, più aggiornabili. Gli oggetti di oggi non muoiono: vengono abbandonati.
L’automobile moderna: più longeva dentro, più fragile fuori
Poche cose evocano la nostalgia della solidità come l’auto “di una volta”. Le portiere che si chiudevano con un tonfo secco, il profumo di tessuti pesanti, le cromature spesse che riflettevano il sole come specchi. Un tempo — si dice — le macchine erano fatte per durare. E in parte è vero: erano meno sofisticate, più riparabili, spesso più semplici da mantenere. Ma la verità, ancora una volta, è più sfumata.
Se si guarda ai numeri, le auto di oggi non durano affatto meno: anzi, durano di più. Secondo il rapporto 2025 dell’Automobile Club d’Italia (ACI), l’età media del parco circolante è di 13 anni, in costante crescita rispetto ai 7-8 anni degli anni ’90 raggiungono un’età media di quasi 19 anni: segno che i motori, la meccanica e i materiali strutturali resistono bene, spesso meglio che in passato.
Anche sul piano globale i dati sono coerenti. Lo studio Longest-Lasting Cars di iSeeCars (2025) analizzando 14,9 milioni di veicoli ha mostrato che una Toyota ha il 17,8% di probabilità di superare i 400.000 chilometri, contro una media del settore pari al 4,8%. Questo significa che la durata potenziale delle automobili moderne è tecnicamente superiore, grazie a tolleranze più precise, lubrificanti avanzati e controlli elettronici che riducono gli errori meccanici. Un fatto che è diretta conseguenza dell’aumento della sofisticazione dei macchinari industriali, in particolar modo nelle lavorazioni meccaniche. Un macchina a controllo numerico di oggi è in grado di lavorare un pistone con una precisione millimetrica impensabile venti o trent’anni fa. E quel pistone scorrerà perfettamente nel suo cilindro per centinaia di migliaia di chilometri.
Eppure, la percezione collettiva è l’opposto: “sono tutte di plastica”, “una volta le macchine erano fatte meglio”, “oggi si rompono per un guasto all’elettronica”. Non è del tutto falsa: la qualità percepita degli interni e delle carrozzerie è effettivamente cambiata, ma spesso per questioni di sicurezza o di sostenibilità. Proprio per questi motivi, i costruttori hanno sostituito molti metalli con materiali più leggeri — alluminio, resine, plastiche rinforzate — che migliorano i consumi ma trasmettono una sensazione di fragilità. Ve li ricordate i consumi delle auto degli anni 80, vero?
Negli anni ’80 un’auto media consumava attorno ai 13 litri/100 km, mentre oggi, pur con vetture spesso più grandi e pesanti, le nuove omologazioni mostrano consumi ben al di sotto dei 6-7 litri/100 km per molte berline compatte. Questo miglioramento tecnico evidenzia che l’aumento di peso e dimensioni non ha impedito al motore di diventare, nonostante tutto, più efficiente e l’auto in generale è molto più sicura di quelle di quarant’anni fa. In più, la sofisticazione elettronica ha introdotto un nuovo tipo di vulnerabilità: quella software. Un aggiornamento che non arriva più, un sensore che va in tilt, un infotainment che diventa obsoleto nel giro di tre anni. Così succede che le auto moderne invecchiano fuori più in fretta di quanto invecchino dentro.
Il motore può durare mezzo milione di chilometri, ma lo schermo dell’infotainment smette di aggiornarsi dopo cinque. Le guarnizioni si seccano, le plastiche si graffiano e quella sensazione di “solidità” che avevano le vecchie Alfa, Lancia o Mercedes — le macchine “fatte per durare” — oggi si misura con parametri diversi: emissioni, peso, crash-test, consumo medio. La durata, insomma, non è più quanto a lungo vive l’auto, ma quanto a lungo resta compatibile con il mondo attorno a lei.
E forse è proprio qui che si nasconde il vero cortocircuito: non sono le automobili a essere diventate più deboli, è la nostra relazione con la macchina a essere cambiata. Da compagna di viaggio è diventata quasi un gadget, un’interfaccia, un servizio a quattro ruote. E come ogni oggetto tecnologico, non aspettiamo più che si rompa per sostituirlo: basta che sembri superato.
Le “cose” non si rompono più: siamo noi che le cambiamo prima
La storia dei materiali racconta, forse meglio di qualunque altra, la traiettoria dell’industria contemporanea: dal pesante al leggero, dal duraturo al sostituibile e sostenibile. È un percorso che parte dal ferro e arriva al polimero, e che non sempre è sinonimo di peggioramento. Molti dei materiali che oggi giudichiamo “poveri” sono in realtà figli dell’intelligenza e dell’efficienza, non dell’improvvisazione.
Il pile, per esempio — nato nei laboratori Malden Mills e reso celebre da Patagonia negli anni ’80 — fu concepito come una fibra sintetica a basso costo capace di imitare la lana, ma più leggera, più calda e, soprattutto, più lavabile. Una “povertà nobile”, potremmo dire: materiale economico, sì, ma democratico, capace di portare comfort e calore dove prima servivano budget e animali. Eppure, il pile si consuma presto, si infeltrisce, e nel tempo perde la sua forma: una perfetta metafora della modernità che dura meno ma funziona meglio.
Lo stesso principio domina l’automotive e l’elettronica: alluminio, compositi, plastiche rinforzate, acciai sottili. Oggi una vettura media pesa circa 1.460 kg, contro i 1.200 kg degli anni ’80, ma consuma meno della metà — da oltre 13 litri/100 km a circa 6 litri/100 km per le berline compatte europee. Siamo cioè riusciti a rendere più leggero l’impatto energetico di queste auto, anche quando non abbiamo alleggerito la materia.
La fragilità visiva delle cose di oggi — il loro aspetto “plasticoso” — è spesso il prezzo da pagare per l’efficienza, la sicurezza, la sostenibilità. E se le superfici si graffiano più in fretta, è perché sotto quelle superfici si nasconde una complessità che consuma meno, inquina meno, pesa meno.
In fondo, il mondo moderno non ha ridotto la durata delle cose: ha cambiato il modo in cui le cose invecchiano. Un tempo il ferro arrugginiva, oggi il software smette di aggiornarsi. Un tempo il televisore si guastava nel tubo catodico, oggi lo si sostituisce perché non ci funziona più l’ultimo aggiornamento di Netflix. E questo cambia tutto: non è più la materia a cedere, ma il contesto. Viviamo in un’economia che invecchia per incompatibilità, non per usura.
Forse, allora, non è vero che “una volta le cose duravano di più”. È che una volta avevamo un rapporto più lento con gli oggetti: li riparavamo, li conservavamo, li facevamo durare perché il tempo scorreva più piano, e cambiare aveva un costo. Oggi, invece, cambiare è diventato parte del loro funzionamento. C’è chi ne farà anche una questione di puro consumismo. Può essere, ma c’entra sicuramente anche altro.
Oggi gli oggetti passano più in fretta perché siamo noi a correre più forte, a pretendere aggiornamenti continui, a voler cambiare forma insieme al mondo. Le cose non si rompono: ci stanchiamo di loro. Ma nel frattempo, quelle stesse cose, continuano — silenziosamente, efficientemente — a funzionare. Forse più e meglio di prima.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini




Grazie davvero per questo articolo e per tutti i link di riferimento.
Una prospettiva molto interessante, grazie!