Nel futuro, sarà il caldo a decidere chi vive e chi no
Il caldo estremo non è più solo meteorologia: è diseguaglianza, ingiustizia, morte. E divide chi può difendersi da chi resta esposto.
C’è un aspetto del cambiamento climatico che non lascia indifferente nessuno: il caldo. Anche se i più indefessi negazionisti del cambiamento climatico perseverano nel sostenere che «ha sempre fatto caldo d’estate», esistono gruppi di ricerca sull’argomento. Pertanto il cambiamento climatico è una realtà scientifica, inattaccabile, così come lo è il fatto che le estati sono sempre più calde e durano sempre di più.
Il cambiamento climatico è un fenomeno che va combattuto per mille motivi, primo tra tutti quello di cercare di evitare i tanti fenomeni disastrosi connessi. Vedremo come la scienza prende tanto seriamente questo fatto da aver costituito gruppi di studio che si occupano di stabilire quale disastro è realmente conseguenza del cambiamento climatico e quale invece no. Ma il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature hanno anche altre conseguenze sociali.
Il caldo colpisce infatti chi è più povero: chi non può permettersi di rinfrescare gli ambienti dove vive con l’aria condizionata; chi vive in alloggi più piccoli, o ci vive in più persone; chi non lavora in ufficio ma nei campi o nei cantieri sotto il sole. Il caldo può essere anche trasversale e colpire chi non per forza è povero. D’estate è impossibile frequentare la scuola, per esempio, ma deve essere addirittura un incubo dover affrontare il caldo estivo nelle carceri o nelle RSA.
Nel futuro il problema aumenterà sempre di più, fino a dividere il mondo in due classi sociali ben distinte: chi potrà permettersi l’aria condizionata e chi invece no, aumentando le statistiche di decessi nei quartieri più poveri, nelle mega città dei paesi del terzo mondo e più in generale dove caldo l’ha sempre fatto, ma da qualche anno uccide sempre di più.
Infine c’è la questione etica e morale. Usare l’aria condizionata consuma tanta energia e l’energia, in molti posti — tra cui l’Italia — significa inquinamento e consumo di combustibili fossili. Siamo facendo tanto per ridurne il consumo e l’emissione di gas nocivi, ma cosa significherebbe adottare l’aria condizionata massicciamente nei paesi del sud del mondo? Se, per ipotesi, mettessimo in piedi un grande piano di climatizzazione dei paesi in via di sviluppo per combattere l’innalzamento delle temperature, cosa succederebbe alle emissioni di CO2 e al consumo di energia elettrica?
Come sempre, a pagare le conseguenze di un mondo che cambia, sono i paesi del terzo mondo, i più poveri, che spesso non hanno nulla a che fare con le cause di tutto ciò. E quando arriva il loro turno, allora vengono sollevate questioni etico/morali. Ma se il pianeta è arrivato a questo punto, se siamo sul punto di non ritorno, non è certo colpa di chi oggi, di tutto questo, paga soltanto le conseguenze.
Non è solo il caldo. È l’ingiustizia.
Quando un’ondata di caldo colpisce Londra, Lagos o Palermo, non colpisce tutti allo stesso modo. Il termometro può anche segnare la stessa temperatura, ma le conseguenze saranno molto diverse se ti trovi in una villa con piscina e aria condizionata oppure in una stanza condivisa con tre persone e senza finestre. Friederike Otto, climatologa dell’Università di Oxford, lo dice con chiarezza: gli eventi estremi non sono mai davvero “naturali”. Dipendono dalla vulnerabilità di chi li subisce.
Molti pensano che il cambiamento climatico sia un’opinione. Peggio, che sia una posizione politica. Questo perché la politica ne ha fatto una bandiera ideologica. Se sei di destra, sei scettico verso il cambiamento climatico perché i leader più influenti lo trattano come un modo esagerato di vedere un fenomeno storicamente ciclico.
Se sei di sinistra, il cambiamento climatico è un pretesto per scendere per strada e gridare contro i simboli del capitalismo e della ricchezza: aerei privati, i mega SUV che circolano per strada, l’industria più in generale. Tutte cose che consumano energia e producono inquinamento. Quell’1% che produce inquinamento per tutto il restante 99% e che di certo non rappresenta l’1% della popolazione mondiale più in difficoltà, anzi, il contrario. Da qui l’identificazione della sensibilità climatica come schieramento ideologico e politico, ma non c’è niente di più sbagliato.
Il cambiamento climatico non è un’opinione, è un fatto scientifico. Una questione perfettamente codificata, analizzata nelle sue cause e soprattutto nelle sue conseguenze che sono qui, sotto gli occhi di tutti. E la scienza non fa ipotesi, non segue un’ideale, se non quello dell’analisi dei dati. Per questo all’University of Oxford è stato istituito l’Environmental Change Institute, che si occupa di capire, attraverso modelli climatici precisi, quanto il cambiamento climatico abbia amplificato gli effetti di un fenomeno naturale.
La scienza oggi è in grado di simulare quanto un evento sia stato amplificato dal cambiamento climatico, ma anche chi è stato colpito e perché. E quasi sempre, le vittime sono le stesse: poveri, lavoratori esposti, famiglie marginali. Otto la chiama «crisi di giustizia», non crisi climatica. Perché il cambiamento climatico non è solo una questione di fisica, ma di potere. Di chi può proteggersi e chi no.
Cito dall’articolo del The Guardian:”Non possiamo sempre dire esattamente dove e come si manifesteranno gli effetti del cambiamento climatico. Ma sappiamo con certezza che più le persone sono vulnerabili, maggiore è il rischio. Negli ultimi anni abbiamo imparato molto su come valutare questi rischi.
Per esempio, oggi sappiamo che il cambiamento climatico influenza soprattutto le ondate di calore, molto più di altri fenomeni. Ogni nostro studio cerca di rispondere a una domanda: cosa significano questi cambiamenti per una specifica parte della popolazione?
In questi studi di “attribuzione”, analizziamo non solo i dati meteo ma anche densità abitativa, strutture socioeconomiche, e tutto ciò che può dare un quadro accurato dell’evento e delle persone colpite.
Solo dopo ci chiediamo se e quanto il cambiamento climatico abbia influito. Usiamo modelli climatici per simulare due mondi: uno con cambiamento climatico umano e uno senza. Così possiamo stimare quanto un’ondata di calore sia più probabile o intensa a causa delle attività umane.
Ma sono la vulnerabilità e l’esposizione a determinare se un evento atmosferico diventa disastro. Ecco perché parlare di “disastro naturale” è improprio”.
Il caldo è soprattutto una questione di reddito
Secondo una ricerca spagnola del Carlos III Health Institute, nelle ondate di calore che hanno colpito Madrid solo i quartieri più poveri hanno registrato un incremento della mortalità. Non è difficile capirne il motivo: chi ha meno soldi vive in case mal ventilate, più affollate, spesso prive di condizionatori o impossibili da raffrescare.
Anche quando il condizionatore c’è, resta spento per paura delle bollette e del costo dell’energia. Secondo Save the Children, in Spagna un bambino su tre non riesce a mantenersi al fresco in casa. E in Europa occidentale, dove il cambiamento climatico corre più veloce che altrove, questa forma di povertà termica è destinata ad aggravarsi.
Gli esperti parlano già di cooling poverty, una povertà silenziosa che si manifesta quando non puoi permetterti di difenderti dal caldo. E che non dipende solo dalla tecnologia, ma da una lunga storia di disuguaglianze. Alby Duarte Rocha, ricercatore alla TU di Berlino, lo spiega chiaramente: le persone a basso reddito vivono in quartieri con meno alberi, meno parchi, più asfalto. Il fresco, anche in città, è un privilegio.
E se in molti potrebbero pensare che questa emergenza riguardi soltanto il sud del pianeta, si sbaglia. Yamina Saheb, autrice principale dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sul tema della mitigazione del cambiamento climatico, scrive di una recente ricerca che mostra come il caldo, aggravato dall’inquinamento da carbonio, abbia ucciso in Europa quasi 50.000 persone solo lo scorso anno. «Dobbiamo lanciare l’allarme: è una questione urgentissima», dice Saheb, «dobbiamo decidere che questa sarà l’ultima estate in cui si muore di caldo in Europa».
Le ondata di calore in Europa - scrive sempre il Guardian - sono diventate più calde, più lunghe e più frequenti: il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, e si prevede che il 2024 lo supererà. «Il riscaldamento globale uccide», dice Saheb. «La domanda è: quante persone dovranno morire prima che i decisori politici riconoscano che la povertà energetica estiva è un problema centrale?».
Gli esami di maturità con 40 gradi
In Italia il caldo estremo non è più un problema del futuro. È già qui, e lo possiamo sperimentare tutti, perché tocca scuole, ospedali, RSA e carceri. Secondo una stima pubblicata da Tecnica della Scuola, solo il 6,45 % degli edifici scolastici è dotato di climatizzazione. Il resto – cioè più del 93 % – è esposto al caldo senza difese.
Se qualcuno di voi ha provato a lavorare, a studiare o a fare qualsiasi altra attività che richieda concentrazione, saprà bene quanto il caldo asfissiante sia nemico delle attività intellettuali. Non è un caso se in Italia, a differenza di molti altri paesi, le vacanze scolastiche sono concentrate tutte nei mesi estivi, per limitare la permanenza dei ragazzi in un edificio troppo caldo. Ebbene, oggi chiudere le scuole nei due mesi estivi non basta, perché le temperature sono salite e studiare diventa difficile, quasi impossibile, ben prima di giugno.
Durante le prove di maturità di giugno, in molte aule si sono superati i 38 o 40 gradi. Studenti sudati, insegnanti accasciati. La scuola pubblica, tempio dell’istruzione per tutti, si trasforma in un forno che seleziona chi ha più resistenza fisica.
Eppure, secondo i tecnici, dotare le scuole italiane di climatizzazione costerebbe tra i 180 e i 210 milioni di euro: poco più del budget di un ministero per un anno. Meglio poi non mettere questo dato a confronto con quanto è stato sperperato con il Super Bonus, perché verrebbe da chiedersi: sarebbe stato tanto complicato prevedere una piccola parte di quella voragine di denaro per raffrescare scuole e magari ospedali e carceri?
Già, le carceri, quel posto dove il caldo produce suicidi in un numero che è addirittura raccapricciante per un paese occidentale che si vorrebbe definire “civile”. Qui però il problema è esclusivamente politico, perché per una parte della politica (e della popolazione), il carcere è un posto dove il colpevole del reato deve soffrire, deve “pagarla”. In totale contrapposizione rispetto a quanto previsto dalla Costituzione Italiana.

Tra il 2024 e il 2025 si sono tolte la vita in carcere 124 persone, di cui la maggior parte giovani, giovanissimi. Il totale dei decessi annuali però è addirittura il doppio, in crescita anno dopo anno. Tra le cause dei decessi c’è la condizione inumana in cui i detenuti vengono mantenuti. In un Paese che concentra 60.000 persone in celle che ne potrebbero contenere al massimo 51.000 (ovvero il 18% in più rispetto alla capienza massima), è legittimo pensare che una gran parte dei decessi dipenda anche dal caldo.

D’altronde, come viene calcolata la capienza massima di un carcere? Lo dice il Ministero della Giustizia: “I posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto + 5 mq per gli altri, lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni, più favorevole rispetto ai 6 mq + 4 stabiliti dal CPT + servizi sanitari. Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”.
Oltretutto, guardando con attenzione la tabella delle presenze in carcere, ci si accorge facilmente come quel 18% di media, come tutte le medie, dice pochissimo. Per esempio non parla della Sardegna, dove tutto sommato c’è un dato di sovraffollamento negativo. In sintesi, c’è il 18% dei posti liberi. Al contrario, in Puglia il sovraffollamento tocca il 47%. Il solito problema meridionale? Non si direbbe, se la Lombardia è al secondo posto delle regioni col maggiore sovraffollamento delle carceri con il 43%. E se volete capire meglio cosa possa voler dire vivere in una cella sovraffollata, non posso che consigliarvi l’ascolto di questa puntata di Wilson.
La domanda allora è: cosa stiamo aspettando? Vogliamo davvero che le prossime generazioni colleghino il ricordo della scuola all’afa, ai malori, alle finestre spalancate e all’impossibilità di concentrarsi? E cosa accade, negli stessi giorni, dentro alle carceri o alle RSA, dove il caldo può essere una condanna a morte? Il problema non è tecnico. È politico.
Il caldo è ormai una questione di sopravvivenza
Un tempo il caldo era desiderato. Dopo un lungo inverno, significava gelato al bar, lenzuola leggere, le nonne che si sventolavano con grazia e i ventilatori a pale che giravano pigramente sul soffitto. Era una promessa d’estate, non una minaccia.
Oggi il caldo è diventato una questione di sopravvivenza. Non solo peggiora le condizioni di salute, ma le crea. Favorisce malattie, compromette il sonno, la lucidità, l’apprendimento. Brucia i raccolti, inaridisce i fiumi, trasforma le città in serre. Ma soprattutto, divide. Divide chi può proteggersi da chi resta esposto. Chi può permettersi l’aria condizionata da chi apre le finestre sperando in un filo d’aria inesistente. Chi lavora in ufficio da chi spala asfalto o raccoglie pomodori a 40 gradi. Il caldo è diventato una nuova forma di diseguaglianza.
E mentre la scuola pubblica si scioglie sotto il peso del silenzio politico, gli studenti affrontano gli esami sudati, stanchi e spogliati di concentrazione. I detenuti si tolgono la vita. Gli anziani nelle RSA restano immobili, soffocati. Eppure siamo nel settimo Paese più ricco al mondo. Ma sembriamo incapaci di prendere atto che il caldo oggi è una condizione sociale, economica, culturale. Non solo atmosferica.
E allora sì, è una questione politica. Ma la politica – quella vera, che dovrebbe decidere per il futuro – ha troppo caldo per agire, o forse semplicemente troppa paura di perdere voti per assumersi la responsabilità di un piano a lungo termine. Perché combattere il caldo non porta applausi immediati. E rinfrescare una cella, una classe, una sala di degenza non è mai stato considerato un investimento. Non dà dividendi, solo dignità.
E ogni governo che lo dimentica, non sta solo ignorando un’emergenza climatica. Sta scegliendo deliberatamente chi potrà sopravvivere e chi no.
Pensieri Franchi: La magistratura fa politica, la politica fa l’influencer
La magistratura fa politica. Ed è un dato di fatto, ma questa volta non è un’accusa, bensì il riconoscimento di un merito. Ma allora, se la politica non decide più nulla, a cosa serve?
Ne ha scritto Il Post di recente ed è un fatto su cui andavo pensando da tempo. Mi riferisco al fatto che in Italia, negli ultimi decenni, gli unici passi in avanti sul piano dei diritti civili non sono stati fatti grazie a leggi del parlamento, bensì grazie ai giudici. Eppure i due poteri, quello esecutivo e quello giudiziario, dovrebbero essere ben distinti. Ma allora, come mai è toccato ai giudici pronunciarsi su tematiche di carattere etico e morale?
La risposta, in realtà, è molto semplice e si ricollega in parte a quanto scritto nell’Insalata Mista di oggi: perché mai un partito politico dovrebbe prendersi la briga di legiferare su una questione così scomoda che non solo non porta voti, ma forse ne fa perdere addirittura?
Una volta, per questi temi scomodi come l’eutanasia e il carcere, esistevano partiti che avevano fatto dei diritti civili il proprio vessillo. Non solo la sinistra in generale, ma anche e soprattutto il Partito Radicale di Marco Pannella, a cui dobbiamo le più importanti battaglie di civiltà fatte in parlamento (e non solo), come quella per l’obiezione di coscienza, per il diritto all’aborto, per la laicità dello Stato e via dicendo.
Oggi i Radicali Italiani, che ancora sostengono battaglie scomode e coraggiose, non figurano nemmeno più nei sondaggi sul gradimento politico e i partiti della sinistra, che dovrebbero ergersi ad alfieri di questo tipo di battaglie, si guardano bene dallo sposare temi “scomodi”, essendo saliti anche loro sul carro di quelli che, anziché farsi portavoce dei temi importanti sui quali raccogliere consenso popolare, preferiscono inseguire i temi popolari sui social, andando dietro al consenso facile come farebbe una Lega qualsiasi.
E così, se la realtà è quella di una politica ridotta ad occuparsi più dei social che del futuro del Paese, a chi tocca occuparsi delle riforme importanti, dei diritti civili e di dare un futuro migliore a una società ormai smarrita da anni nel buio del qualunquismo? Alla magistratura e ai giudici, evidentemente.
La storia della magistratura attiva politicamente, del resto, è piuttosto lunga e inizia nel 1975, quando una sentenza della Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità del reato di aborto di donne consenzienti, come dichiara Irene Pellizzone, professoressa associata di Diritto costituzionale all’Università di Milano. Il Parlamento — quello degli anni 70, che certamente non era il Parlamento di oggi — ci mise tre anni per legiferare su un tema che era già stato affrontato dalla magistratura.
Lo stesso accade oggi, con la legge sul fine vita che tarda ad arrivare, pur essendo stata legalizzata la pratica già dal 2019, quando la Corte Costituzionale si pronunciò sul suicidio di Fabiano “DJ Fabo” Antoniani, assistito da Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni. Oggi, a sei anni di distanza, il Parlamento non è riuscito ancora a legiferare su un tema così fondamentale per il quadro normativo sui diritti civili. Si noti che dal 2019 ad oggi in Parlamento sono passati al Governo praticamente tutti i partiti dell’emisfero politico, dal PD al Movimento 5 Stelle, passando dalla Lega, Forza Italia e oggi FdI.
I fatti dimostrano una cosa ben precisa: la politica, da anni, insegue. Insegue il consenso popolare, quello facile che si guadagna sollevando lo spauracchio di un’invasione che non esiste. E così aumenta i reati, aumenta le pene, gonfia le carceri di gente che non dovrebbe starci, condannando gli occupanti a vivere in condizioni incompatibili con la dignità umana. Nel frattempo però il Paese reale, le persone, ha bisogno che vengano prese decisioni che hanno un impatto sulla propria vita e su quella dei propri figli. E le decisioni vanno prese oggi, non domani. Per questo motivo, alla fine, deve pensarci la magistratura.
Un Paese in cui la politica ha completamente abdicato al ruolo di decisore su vita, leggi e diritti, che Paese è? E soprattutto, possiamo ancora dire di essere in grado di esercitare il nostro diritto alla democrazia se chi è costretto a decidere sulle questioni fondamentali, nei fatti, non è stato eletto?
Franco Aquini
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Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini