La P101 e il giorno in cui rubammo la scena agli Stati Uniti
La storia del computer per come lo conosciamo oggi subì una svolta importante quando venne presentata a New York la Olivetti P101, realizzata quasi di nascosto da un gruppo di ingegneri "sovversivi".
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La parola di oggi: Personal computer o PC, è un computer per l’uso personale che si contrappone ai grandi mainframe della prima epoca dell’informatica. Viene spesso utilizzato anche il termine home computer, principalmente alla fine degli anni '70 e '80. L'avvento dei personal computer e la contemporanea rivoluzione digitale hanno influenzato in modo significativo la vita delle persone in tutti i paesi.
» PENSIERI FRANCHI: Il Sacro Ordine dei Custodi Dimenticati di Prato
È una storia tipicamente italiana quella del Museo del Calcolatore di Prato. Una storia eccezionale, che vive quasi nell’ombra, ignorata dai più e screditata dalle istituzioni, che però vive e prospera grazie all’inossidabile volontà di un gruppo di sparuti eroi che non conosce fatica.
Eroi, sì, perché non trovo altro modo per definire persone che sacrificano il proprio tempo libero, la propria vita sociale e anche un bel po’ di soldi per recuperare le macchine del nostro passato, restaurarle e infine esporle in un piccolo museo che è una perla di tesori nascosti. E che poi su questi tesori ci lavora perché, dopo averli restaurati, devono anche capire come funzionano a forza di pagine e pagine da studiare. Tutto questo solo per raccontare, a chi ha la voglia di ascoltarli, la meravigliosa storia che ci ha portati ad avere sotto le mani una tastiera come quella che sto utilizzando per scrivendo questo pezzo.
La verità è che bisognerebbe scrivere la storia del Museo del Calcolatore di Prato, perché il Museo stesso è parte di quella storia che viene raccontata a chi lo visita. Una stanzetta grande poco più di trenta metri quadrati, ma col materiale che c’è dentro potresti riempirci i più grandi musei del mondo.
Mi piace immaginare la faccia che farebbe il manager di un importante museo americano se scoprisse i gioielli che contengono quei 30 metri quadrati. Tornerebbe negli Stati Uniti e otterrebbe in tempo zero un finanziamento di decine di milioni di dollari per dare risalto a un Museo che ha raccolto la storia delle più grandi innovazioni degli ultimi due secoli. Ma invece il Museo di Prato, per sua sfortuna, si trova in Italia e in Italia professiamo la religione del “piccolo è bello”, del “se non hai un amico assessore o consigliere nessuno ti considererà”.
Così lasciamo che sia quel piccolo gruppo di eroi di cui sopra, che vengono visti dai più come nerd senza una vita sociale, ad occuparsi di conservare dall’erosione del tempo e della memoria, quei piccoli tesori nascosti. Come se fosse una confraternita di custodi millenari di un oggetto dal quale dipende l’umanità, che però l’umanità stessa ignora. Io, per l’occasione, ho deciso di chiamarlo Il Sacro Ordine dei Custodi Dimenticati di Prato.
Viene da chiedersi quando questo paese, in cui tutto funziona male e però funziona per puro miracolo, si deciderà ad alzare la testa e a fare l’unica cosa che dovrebbe: dare importanza a quello che conta, rendendo il merito l’unico metro di giudizio per cose e persone che si sforzano ogni giorno di portare avanti una missione, un’idea, uno scopo; per il solo fatto di credere in qualcosa di più alto e di interesse collettivo.
Voi, nel frattempo, se non volete essere complici di questa Italia che butta nel cestino i propri tesori e premia invece l’immondizia, fatevi un favore: passate da Prato e chiedete a Massimo Belardi e Riccardo Aliani di raccontarvi la storia del calcolatore. Nulla sarà come prima.
Buona lettura.
Franco A.
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» QUELLA VOLTA IN CUI RUBAMMO IL PRIMATO TECNOLOGICO AGLI STATI UNITI
Se ora vi chiedessi qual è la più grande invenzione di Steve Jobs, qualcuno mi risponderebbe l’iPhone, qualcun altro l’iPod, altri ancora il Mac. Se lo chiedessero a me, risponderei senza esitazioni che è iOS, il sistema operativo di iPhone e iPad. Il motivo è semplice, a contraddistinguere un vero visionario da un uomo di marketing è solo una caratteristica: la capacità di vedere e immaginare qualcosa che ancora non esiste.
È molto semplice pensare a qualcosa che già esiste e che semplicemente può funzionare meglio. Gli ingegneri che hanno costruito le auto elettriche hanno sicuramente fatto un lavoro di altissima ingegneria, ma non hanno immaginato un nuovo modo di muoversi e di spostarsi. Hanno reingegnerizzato qualcosa che esiste già.
Il sistema operativo di iPhone fu invece una grandissima rivoluzione perché implementava una nuova forma di interazione con la macchina che ancora non esisteva, ed era il touch. Il touch esisteva, chiaramente, ma non in quella forma che iPhone rese popolare e ormai scontata ai giorni nostri. Pensate al solo pinch-to-zoom, il gesto che facciamo con indice e pollice per ingrandire o ruotare foto e oggetti sullo schermo del nostro smartphone e provate a pensare a cosa potesse rappresentare una funzione del genere in un mondo in cui gli schermi touch, banalmente, non permettevano di riconoscere il tocco in due punti differenti di uno schermo contemporaneamente.
Oggi l’interfaccia touch è diventata comune in tantissimi dispositivi, da quelli industriali ai display delle auto e tutto ciò deriva proprio da quell’intuizione visionaria di un uomo che seppe vedere oltre, che seppe mettere insieme tecnologie note e altre nuovissime in un dispositivo che rivoluzionò interi settori, creando nuove economie.
Se ora vi chiedessi chi è il più grande visionario italiano di questo genere, probabilmente vi dilunghereste in una lunga lista di personaggi noti che, per fortuna nostra (e per una peculiare caratteristica del nostro paese, di cui magari un giorno scriverò) hanno abbondato nella storia italiana. Tranne uno. Ce n’è uno che ha cambiato il mondo per come lo conosciamo, ma è sconosciuto dai più. Si chiama Pier Giorgio Perotto ed è sua la più grande invenzione che ha cambiato per sempre il mondo: il personal computer.
Il primo, vero personal computer
Qualcuno avrà storto un po’ il naso di fronte a questa affermazione, ma non c’è nessun errore. Il primo, vero personal computer nacque in Italia ad opera di uno sparuto gruppo di ingegneri che non soltanto lavorava quasi di nascosto e senza budget, ma che era addirittura osteggiato dalla stessa azienda per la quale lavorava, troppo impegnata a dedicare tutte le proprie forza sull’unico ramo d’azienda nel quale credeva. Un ramo produttivo che era inevitabilmente rivolto al passato piuttosto che al futuro, un futuro che la Olivetti stessa stava creando e che si ostinava a non vedere.
La gloriosa Olivetti di Adriano non esisteva più agli inizi degli anni ’60. Morto colui che la fece grande e la rese la più incredibile storia industriale del ‘900, l’azienda prese un corso che la portò alla completa dissoluzione. Negli anni ’60 il management di Olivetti era dedicato esclusivamente al risanamento dei conti, compromessi da alcune operazioni finanziarie condotte male, come l’acquisizione di una grandissima azienda americana che si scoprì versare in condizioni pessime. Stiamo parlando della Underwood, che compare sulla P101 accanto al nome Olivetti nella versione americana.
Così, il nuovo management pensò di concentrare la produzione aziendale nel fare esclusivamente quello che sapeva fare bene: le macchine meccaniche, ovvero addizionatrici, calcolatrici, macchine da scrivere e contabili. Badate bene: fino a una settimana fa ignoravo completamente la differenza tra una calcolatrice e una macchina contabile. Anzi, non sapevo proprio dell’esistenza di macchine dette “addizionatrici”. Tutto ciò l’ho scoperto, come in una tardiva epifania, grazie agli eroi di cui vi parlavo nei Pensieri Franchi al Museo di Prato.
Dicevamo: l’azienda vedeva nel suo futuro soltanto la meccanica, in un’epoca in cui l’elettronica cominciava a fare capolino, ma con dei risultati non entusiasmanti. Oltre ai grandissimi calcolatori IBM, che occupavano stanzoni e costavano cifre da capogiro, l’elettronica provò a replicare, senza successo, quello che la meccanica faceva già benissimo da anni. Veniva quindi vista come il vezzo modernista di qualche ingegnere che voleva a tutti i costi utilizzare la novità tecnologica con scarso ritorno economico e senso pratico.
Tanto l’elettronica veniva vista di cattivo occhio che la Olivetti cedette la propria divisione alla General Electric. O meglio, alla Olivetti General Electric, che era una joint venture tra le due aziende. Una mossa che nascondeva in realtà un’operazione che fu chiara fin da subito a tutti: smembrare un pezzo della Olivetti che non rendeva e che dava quasi fastidio all’azienda americana, che in realtà voleva soltanto entrare nel mercato italiano.
Olivetti vendette quindi la sua divisione elettronica. Tutta tranne un piccolo gruppetto di ingegneri capitanati da Pier Giorgio Perotto, che si pose in aperto contrasto con il management americano. Quello fu il primo colpo di genio di Perotto: fare in modo che gli americani facessero a meno di quella divisione, che lavorava nella periferia dell’azienda, nella sede di Pregnana che era quasi un confino per i soggetti “strani”, quegli ingegneri fissati con l’elettronica che all’azienda non servivano.
Il gruppo di Perotto aveva infatti la quasi totale libertà di operare, proprio perché l’azienda era impegnata nel portare avanti quello che ancora rendeva: la meccanica. Fu in questo contesto di assoluta libertà e in cui più niente aveva da perdere, che Perotto provò a dare vita a qualcosa che ancora non esisteva e che aveva soltanto immaginato nei suoi sogni. Voleva realizzare una macchina che automatizzasse le operazioni e i calcoli, ma che avesse peso e dimensioni simili alle macchine da ufficio (calcolatrici e macchine da scrivere, appunto). In più, a elevare ancora di più la difficoltà del progetto, si era messo in testa che la macchina doveva essere programmabile non già da tecnici e ingegneri in camice bianco che traducevano le operazioni in un complesso linguaggio macchina, ma dalla gente comune.
Perotto dunque immaginò il personal computer come lo intendiamo oggi insieme al primo linguaggio di programmazione. Il tutto a un costo abbordabile e alla portata, se non degli utenti domestici, quantomeno di tutte le aziende (si parla di 3200$ negli Stati Uniti e di 2 milioni di lire in Italia). La macchina divenne realtà e sconvolse il mondo proprio a partire dagli stessi Stati Uniti che soltanto 9 anni dopo produssero un personal computer che oggi ritengono essere stato il primo della storia, Altair 8800.
Non è così, Altair 8800 fu sicuramente uno step evolutivo importante (che diede lo spunto ai giovani Paul Allen e Bill Gates per crearci una semplice versione di BASIC e costituire la Microsoft), ma fu in estrema sintesi il miglioramento e l’evoluzione di qualcosa che era già stato inventato da un grandissimo visionario, che seppe non solo immaginare qualcosa che non esisteva, ma che lo fece diventare realtà a buon mercato.
La verità sul primo personal computer che non piace agli americani
Mi sono divertito a chiedere a ChatGPT quale fosse stato il primo personal computer della storia. GPT è stata istruita su grandissime quantità di testi e dunque risponde con quello che è il sentire comune su un determinato argomento. In più è prodotta da un’azienda americana e infatti, come prevedibile, alla domanda “qual è stato il primo home computer della storia?” mi ha riposto quello che vedete qui sotto, ovvero l’Altair 8800 nel 1974.
Quando le ho chiesto però “non pensi che il primo home computer sia stata l’Olivetti P101?”, mi ha risposto in un modo che mi piace immaginare imbarazzato, quasi balbettante. Mi ha infatti detto che la P101 è considerata il primo personal computer della storia “da molti esperti”. Come dire: è un’opinione. No, non lo è. A inventare la ruota non è stato chi l’ha resa più liscia e scorrevole, ma chi ha saputo immaginare qualcosa che non esisteva come la ruota, appunto.
Nel caso specifico, viene contestata alla P101 l’incapacità di lavorare con le stringhe, di essere sì programmabile, ma soltanto con i calcoli numerici. Questo è certamente vero e infatti ci vollero ben 9 anni per arrivare a creare un personal computer che permettesse di fare anche questo. Ma la P101 era un dispositivo grande come una macchina da scrivere, con una tastiera di input, una stampante in output, una memoria (geniale, ne parliamo nel prossimo paragrafo), una memoria esterna (le schede magnetiche, altra grandissima innovazione) e un linguaggio di programmazione con 16 comandi che potevano essere utilizzati da chiunque per scrivere veri e proprio programmi. Se non è un computer questo, allora niente lo è.
Quando venne presentata nel 1965 in un angolino del grande stand di Olivetti alla BEMA - la grande esposizione di prodotti per ufficio di New York - la P101 sconvolse tutti i partecipanti. Il pubblico si dimenticò completamente del resto, tanto che dovettero organizzare un servizio d’ordine per regolare l’ingresso sullo stand. Qualcuno sospettò persino che la P101 fosse in realtà soltanto una tastiera collegata a un grande mainframe nascosto chissà dove. Invece era tutto lì, su un tavolino, ed era acquistabile da chiunque volesse fare in pochi minuti i complessi calcoli che normalmente avrebbero richiesto persone, ore di lavoro e grandissima precisione.
Era il 1965 e la P101 divenne qualcosa che aiutò la NASA ad andare sulla luna. Quest’ultima infatti comprò diversi esemplari di P101 con le quali pianificò aspetti fondamentali della missione del 1969, come la compilazione di mappe lunari, il calcolo della traiettoria di viaggio, etc.
La più grande legittimazione della storia dell’informatica nei confronti della creatura di Perotto venne qualche anno più tardi, nel 1968, quando la Hewlett-Packard produsse la 9100A. Una macchina realizzata sostanzialmente imitando la P101, tanto che HP dovette risarcire Olivetti con 900.000$ per violazione dei brevetti.
La vera rivoluzione della P101: una memoria a basso costo
Dicevamo prima che il vero miracolo della Olivetti P101 fu quella di concentrare funzioni da mainframe in una macchina grande quanto una macchina da scrivere, dal costo contenuto. Come fu possibile?
Gran parte del merito fu da attribuire a una delle più grandi intuizioni di Pier Giorgio Perotto, ovvero quello di utilizzare una memoria magnetostrittiva. Ancora una volta, ho avuto l’onore di vedere dal vivo questo tipo di memoria proprio al Museo del Calcolatore di Prato. Si tratta di una memoria che funziona tramite vibrazioni, dove una serie di fili di nichel semplicemente vibra.
Il meccanismo non è semplicissimo da spiegare, ma ci proverò: il bit, ovvero l’informazione, è in questo caso una vibrazione che si propaga attraverso un filo teso, il filo di nichel appunto. A un capo di questo filo c’è una bobina che scatena la vibrazione immettendo l’informazione in circolo; dall’altro capo c’è invece un’altra bobina di lettura. Questa bobina di lettura può infatti leggere il dato oppure mantenerlo in circolo, reimmettendolo opportunamente amplificato.
L’intuizione di utilizzare questo genere di memoria, semplice quanto geniale, ha permesso alla P101 di essere dotata di una memoria di 1920 bit (ovvero circa 2Kb, mica male) che poteva memorizzare circa 240 caratteri.
Le aziende che non sanno leggere il proprio potenziale
Nel libro che ho letto avidamente dopo aver visitato il museo di Prato, scritto dallo stesso Perotto, ho trovato un’interessantissima considerazione sulle aziende che non riescono a “leggere” il loro potenziale quando si avvicina un grande cambiamento epocale. È una riflessione molto acuta, che mette in luce l’incapacità di molte grandissime aziende di capire e intuire il cambiamento in atto e che le ha, quasi sempre, portate tristemente al fallimento.
Disse Vittorio Valletta, amministratore delegato della FIAT in un’assemblea del 30 aprile 1964, in cui si profilò l’ipotesi di intervento nel capitale dell’allora economicamente precaria Olivetti:«La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essere inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare».
Perotto, quando cita Valletta, parla di “arretratezza culturale”. Scrive ancora Perotto:«Quasi nessuna delle aziende tedesche o americane che producevano calcolatrici e macchine da scrivere meccaniche è ancora viva oggi: nessuno ricorda nemmeno più i nomi di aziende come Monroe, Friden, Victor, Triumph-Adler e tante altre. Nessuna delle aziende che negli anni Cinquanta producevano tubi elettronici è riuscita a convertirsi e a diventare competitiva nel campo dei componenti sostitutivi, i semiconduttori. Venendo ad anni più vicini a noi, osserviamo che tutte le aziende americane che operavano nel campo dell’elettronica civile - tv, hi-fi, videoregistratori - sono state cancellate e l’industria è migrata quasi al completo sotto le bandiere giapponesi. […] In moltissimi casi le aziende nei cui laboratori di ricerca sono state fatte le scoperte più interessanti, non hanno saputo sfruttarle e trasformarle in prodotti».
Questa è una grande verità sulla quale possiamo riflettere ancora oggi. Tutti ricordano le grandi aziende europee produttrici di telefoni cellulari come Nokia o Ericsson, spazzate via (almeno nella loro divisione legata ai telefoni cellulari) completamente dall’arrivo sul mercato di nuovi soggetti che meglio seppero leggere il cambiamento in atto. Lo stesso, ci potete scommettere, succederà nel mercato dell’auto.
Perotto seppe, in altre parole, avere un’ultima, grande intuizione: alle aziende manca la capacità di saper leggere il presente e il futuro. E questa incapacità è dovuta a quelli che lui stesso, riprendendo una definizione appresa dagli americani, chiama “contafagioli” (cioè gli amministrativi e i contabili) e i “contapiedi” (i responsabili delle risorse umane). Ovvero quelle figure aziendali che sono fondamentali per il corretto funzionamento e amministrazione di un’azienda, ma che diventano pericolosissimi nel momento in cui gli viene affidata la visione futura dell’azienda.
Il complotto sull’Italia degli anni ‘60
Una cosa è certa, l’Italia ebbe, all’inizio degli anni ’60, una grandissima opportunità: quella di ottenere un ruolo di rilevanza mondiale in diversi settori strategici.
L’Italia entrò prepotentemente nel mercato petrolifero con l’ENI di Enrico Mattei, che però morì in un incidente aereo sul quale esistono diversi indizi e teorie che lasciano pensare che non si trattò propriamente di un incidente; nel 1964 fu arrestato Felice Ippolito, la cui promettente ricerca sul nucleare fu bruscamente interrotta. Infine la dismissione e la vendita della divisione elettronica dell’Olivetti, sempre nel 1964.
Una serie di eventi che molti vedono legati da un unico filo che aveva un solo obiettivo: relegare l’Italia a un ruolo di paese subalterno. Una lettura forse un po’ complottista, che però mette in luce quanto l’Italia abbia perso, nel giro di pochissimi anni, un treno importantissimo, che avrebbe potuto condurla ad avere un ruolo internazionale di primo piano (su questi eventi il giornalista Lorenzo Soria scrisse “Informatica: un’occasione perduta”).
Fatto sta che, se non fosse stato per quel piano audace e ribelle del gruppo guidato da Perotto, nessuno ricorderebbero il ruolo da protagonista che Olivetti ebbe nello sviluppo dei computer. Un ruolo che ricoprì senza cercarlo, grazie alla volontà e alla caparbietà di pochissime persone che ebbero il coraggio di operare quasi contro la volontà dell’azienda per cui lavoravano. Una volontà guidata da un sogno, una visione che li ha portati a creare qualcosa che non c’era e che poi ha per sempre cambiato la storia dell’umanità.
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Puntata eccellente e viva Il Sacro Ordine dei Custodi Dimenticati di Prato.