Perché Facebook e Instagram ci stanno chiedendo dei soldi? 💶
Sarà comparsa a tutti la richiesta di scegliere se abbonarsi o meno ai social network di Meta. In molti si sono chiesti il motivo, che è semplice: niente è realmente gratuito.
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La parola di oggi: targettizzazione, ovvero la possibilità che offrono piattaforme pubblicitarie digitali di individuare un target molto preciso negli interessi e nelle caratteristiche anagrafiche.
» Soldi o dati, pagare le piattaforme social è etico?
Dietro la scelta di dare o meno dei soldi a una società come Meta, Google, Twitter (si, ho deciso che continuerò a chiamarlo così, in onore della piattaforma che era e di cui oggi è soltanto l’ombra) o TikTok, c’è sempre anche un aspetto morale che non può non essere considerato.
A chi sto dando i miei soldi, cosa ci farà con questi soldi la persona o il gruppo che prende le decisioni strategiche per conto di questi colossi globali? Partiamo proprio da Twitter: una volta era un social network sufficientemente democratico. Per esempio non potevi pagare per la spunta di “account verificato”, te la concedeva il social stesso dopo aver fatto delle verifiche. Non si poteva pagare per avere quella spunta, che con soli 8$ al mese può rendere autorevole e verificato un account qualsiasi.
Ho usato le campagne pubblicitarie di Twitter per dare visibilità a questa newsletter - molti di voi lettori arriveranno proprio da lì - e proprio a voi confesso di aver affrontato quotidianamente i miei dilemmi morali legati al fatto che stavo dando per questo soldi a quella persona che stava facendo di Twitter carne da macello, tanto che oggi Twitter vale la metà di quanto valeva quando l’ha rilevato (e per chi non l’avesse capito, sto parlando di Elon Musk).
Oggi la questione non riguarda soltanto chi fa pubblicità sulle piattaforme, ma anche chi semplicemente le usa, perché la richiesta di pagare un abbonamento è arrivata a tutti, come conseguenza dell’obbligo per le piattaforme social di adeguarsi alla regolamentazione Europea sul trattamento dei dati. Per ora l’abbonamento è attivo soltanto in Europa, e non è da escludersi che presto riguarderà tutti i social network, compreso TikTok.
Di colpo tutti vengono messi davanti a una scelta: pagare o continuare a fornire libero accesso ai propri dati, che poi è una diversa forma di pagamento, che frutta anche più soldi ma che a noi costa niente. E allora la vera domanda è: quanto vale il nostro privato e le nostre abitudini digitali?
Buona lettura.
Franco A.
» PAGARE IN DENARO O REGALARE UN PEZZO DI PRIVATO
Nessuno ci obbliga a usare i social network, questa è la prima premessa importante. Non ci stanno togliendo l’acqua in cambio di un ricatto morale. Quello si che avrebbe meritato un moto di ribellione. Per fortuna no. Stiamo parlando di qualcosa che, seppure diventato importante e centrale nella vita delle persone, persino dei popoli in guerra o di quelli che lottano per la propria libertà, non è un bene primario per l’uomo.
Nonostante ciò, il modello base di qualsiasi nuova startup tecnologica americana ha colpito ancora: prima ti regalo un servizio, ti abituo a utilizzarlo, lo rendo fondamentale per quello che fai per piacere e/o per lavoro, e poi lo metto a pagamento.
E poi alzo il prezzo, anno dopo anno. Abbiamo visto reiterare questa strategia un po’ per tutto quello che utilizziamo tutti i giorni, da Gmail all’abbonamento Amazon Prime, che partito da 19,90€ l’anno è arrivato presto ai 49,90€ e si avvia a raggiungere, se seguirà le orme della versione statunitense, i 100€ l’anno. Ma lo stesso si potrebbe dire per Netflix e per moltissimi altri servizi che utilizziamo quotidianamente.
Facebook e Instagram, però, fosse stato per loro, di soldi non ce ne avrebbero mai chiesti. Uno slogan di Facebook diceva qualche tempo fa “È gratis e lo sarà sempre”. E quella era l’intenzione prima che l’Europa si mettesse in mezzo con una regolamentazione sul trattamento dei dati personali che, seppure abbiamo tutti un po’ odiato, ha cercato di svegliare le nostre coscienze su un fatto che in molti ignoravano o volevano ignorare: se un servizio è gratuito, significa che la fonte di guadagno siamo noi stessi. O meglio, i nostri dati.
«CHE USINO PURE I MIEI DATI, NON HO NIENTE DA NASCONDERE»
Una delle risposte più comuni all’uso dei dati personali da parte della grandi piattaforme social è proprio questa. «Cosa vuoi che me ne importi se Facebook usa i miei dati? Non ho niente da nascondere». Un po’ quello che in molti hanno pensato quando Facebook e Instagram, in questi giorni, hanno costretto gli utenti a scegliere se sottoscrivere un abbonamento da 12,99€ al mese oppure continuare a utilizzare l’applicazione gratuitamente.
Oggi però voglio rispondere a una domanda che in pochi si stanno ponendo e a cui posso rispondere perché, per questioni professionali, siedo anche dall’altra parte del tavolo. Mi occupo infatti di campagne pubblicitarie sulle piattaforme, dunque conosco quali dati Facebook raccoglie sugli utenti e quali permette agli inserzionisti di utilizzare (poi c’è una parte che invece nessuno conosce, che Meta non permette agli inserzionisti di utilizzare e forse dovremmo proprio concentrarci su quelli, ma questa è un’altra storia).
Ogni tanto, qualcuno qualche domanda se la fa. Ho sentito spesso dire «ieri sono andato su un sito di piscine per vedere qualche modello e oggi mi ritrovo Facebook pieno di pubblicità di piscine!». Si, ma non ti stanno spiando, è un meccanismo banale, che vale per qualsiasi piattaforma, che ora andrò a spiegarti nel dettaglio.
OGNI CLIC É UN DATO CHE METTIAMO A DISPOSIZIONE DI TUTTI
Ogni gesto “digitale” che facciamo, persino i gesti che non facciamo, vengono tracciati. Ogni clic su un link, ogni pagina web che visitiamo, lascia una traccia da qualche parte, sul nostro computer o su un server in internet. Pensate che persino l’uso di uno specifico font può creare una relazione personale con quello che facciamo. Non ci credete? Vi faccio un esempio.
Oggi quasi tutti i siti nel web utilizzano Google Font, che sono font messi a disposizione gratuitamente da Google. Quando nacquero, contribuirono a creare il mito di un’azienda che sembrava voler davvero contribuire a un web più libero, accessibile e alla portata di chiunque. Una sorta di Onlus impegnata in un mecenatismo di altri tempi. Quello che non vedevamo, invece, erano i piani a lungo termine che soltanto le multinazionali più organizzate riescono a fare.
Di nuovo, il meccanismo di abituarci a utilizzare qualcosa di gratuito ha mietuto le sue vittime. Oggi nessuno può fare a meno di utilizzare la vastissima libreria di font Google, ma l’altro lato della medaglia è che Google, ogni qualvolta visitate una pagina web che li utilizza, raccoglie dei dati. Questo al di là di come il sito è stato fatto e di quali dati raccoglie per suo conto.
Anche il semplice indirizzo IP, che è l’indirizzo che il provider internet vi assegna quando vi connettete, insieme ad altri dati tecnici come il browser che state utilizzando e il sistema operativo del vostro dispositivo, permettono a Google di ricostruire un profilo digitale che corrisponde proprio a voi. Ed ecco quindi che Google arriva a sapere esattamente quando siete andati su quel sito, quali pagine avete visitato e quanto tempo ci siete stati.
Ma non solo. Visto che molti di noi hanno anche uno smartphone che in una gran parte di casi monta un sistema operativo Google; che utilizziamo quasi quotidianamente un sistema di navigazione satellitare che è di Google e che in una buona percentuale di casi utilizziamo anche una casella di posta Gmail, sempre di Google, è molto più semplice ricostruire con precisione i nostri profili digitali.
Non solo Google saprà che ho visitato un sito di piscine (anche se il sito non c’entrava niente, l’ha capito dai font impiegati), ma sa anche se ho visitato negozi fisici di piscine nelle ultime settimane. Sa anche se mi sono scambiato email sull’argomento e persino, se ho utilizzato Google Pay, se ho comprato qualcosa inerente negli ultimi 30 giorni.
Insomma, Google (ma lo stesso vale per Facebook, Instagram, TikTok, Twitter e via dicendo) riesce a ricostruire con esattezza quello che forse anche a noi stessi non è chiaro: magari non siamo coscienti del nostro desiderio inconscio di desiderare una piscina, ma loro lo sanno. Perché studiano i nostri comportamenti e le nostre abitudini e alla fine, anche se non ne eravamo convinti al 100%, possono spingerci a compiere un’azione: l’acquisto.
LA PUBBLICITÁ É SEMPRE LA STESSA, MA SFRUTTA PROFILI CHE NON AVEVA
Come fanno le piattaforme social a spingerci a fare qualcosa che non avevamo intenzione di fare? Non lo fanno loro direttamente, ovviamente. Le piattaforme mettono a disposizione di chi fa pubblicità profili digitali precisi. Ovviamente non possono dirti che Franco Aquini ha cercato online delle piscine, sia chiaro. Però, se vendi piscine, possono permettere alla tua pubblicità di raggiungere soltanto gli utenti che sono in cerca di piscine. Capito qual è la potenza di questi strumenti?
Il resto lo fa la comunicazione, che da decenni ha affilato le proprie armi su mezzi molto più rudimentali. Trent’anni fa era impossibile mirare a un target così preciso. Al massimo, con la pubblicità in TV, potevi scegliere un’emittente al posto di un’altra perché il target era “giovani fino a 30 anni” piuttosto che “casalinghe con figli”. Allora era facile piazzare la pubblicità di un giocattolo in mezzo ai cartoni animati su Italia Uno in orario pomeridiano. Oggi invece, se vendi giocattoli, puoi selezionare un target che è formato da ragazzi dell’età che preferisci, oppure selezionare “Genitori con figli dai 6 ai 14 anni”.
E oltre al target, ci sono le armi della comunicazione di cui parlavamo prima. Armi che sanno agire su parti del cervello che sono primordiali e che rispondono a stimoli molto precisi ed efficaci. C’è tutta una scienza che si occupa di questo. Una scienza che studia colori, disposizione dei soggetti, dei colori e delle immagini per portarti a desiderare qualcosa il cui desiderio era soltanto latente. E magari, dopo aver visto una pubblicità fatta in un certo modo, ti decidi e acquisti.
Ecco perché le piattaforme pubblicitarie dei social network, grazie ai dati che raccolgono, fanno gola a un sacco di aziende. Ecco perché guadagnano un sacco di soldi pur offrendo un servizio gratuito. Ed ecco perché, se non possono più utilizzare questi dati allo stesso modo, devono chiederti un abbonamento mensile.
I SOCIAL NETWORK MI ASCOLTANO?
Ma quindi i social network ci spiano anche quando non lo sappiamo? No, ed è qui che dobbiamo fare un’importante distinzione tra quello che tecnicamente è fattibile ed è anche noto, e quelle che sono leggende metropolitane.
Non conto più le volte in cui ho sentito qualcuno dire che ha visto pubblicità su qualcosa che non ha mai cercato sullo smartphone, ma di cui aveva pronunciato il nome poche ore prima. Vi dico questo: sono leggende metropolitane e ve lo dimostro.
Il primo motivo è che, per fare pubblicità basandosi sui dati raccolti da chi ha semplicemente “parlato” di un argomento, questa possibilità dovrebbe essere girata anche agli inserzionisti. Entrando sulla piattaforma pubblicitaria di Meta, mi dovrei poter trovare tra le opzioni di targettizzazione “persone che hanno parlato di…”. Ecco questa opzione non c’è mai stata.
Allo stesso modo, chi dice “eh ma magari è un dato che Meta mette insieme al target di persone che hanno mostrato interesse per quell’argomento”. Vero, ma c’è un “ma”. Apple (e tra poco vi dirò perché prendo come esempio proprio Apple), non ha interessi che Facebook venda più o meno pubblicità. Pertanto, visto che l’applicazione Facebook o Instagram, per accedere al microfono di iPhone, il cui sistema operativo è prodotto da Apple, deve richiedere un permesso all’utente, se quest’ultimo il permesso non glielo da, non è possibile che registri un audio.
Oltretutto, le applicazioni vengono analizzate non soltanto da un team di persone apposito che si occupa di verificare le applicazioni Apple che poi vengono pubblicate su AppStore, ma spesso vengono analizzate da soggetti terzi, ed è proprio grazie a queste verifiche che spesso scoppiano dei casi internazionali. Come quando, nel 2021, divenne molto popolare FaceApp, che tramite algoritmi di machine learning, dimostrò come fosse possibile invecchiare il nostro selfie in maniera estremamente credibile. Seguirono molte polemiche dovuta alla registrazione e al trasferimento su suolo russo di gran parte dei dati.
Ecco, se un’app enorme come Instagram ottenesse l’accesso all’uso del microfono del nostro smartphone senza chiederci il permesso, se ne accorgerebbe per prima Apple e in secondo luogo qualche società terza. Scoppierebbe immediatamente uno scandalo di proporzioni enormi. In più, mettiamoci pure che diverse società hanno indagato tecnicamente questa possibilità e il responso è sempre stato soltanto uno: no, le app non ci ascoltano. Fine dei complotti.
Ho parlato fin qui di Apple perché l’altro grosso produttore di un sistema operativo per smartphone (e di smartphone stessi, la serie Pixel), ovvero Google, ha invece un interesse diretto nella targettizzazione, in quanto basa il grosso dei suoi ricavi proprio sulla pubblicità. Ma, in ogni caso, nemmeno Google spia le vostre conversazioni. O meglio, lo fa, esattamente come Apple, ma soltanto per permettere al vostro smartphone di rispondere ai comandi impartiti all’assistente vocale. Insomma, se volete che Siri vi risponda quando la chiamate, in qualche modo dovrà ascoltarvi, no?
QUINDI È PIÚ ETICO DARE DEI SOLDI A META O LASCIARE CHE VENDA I MIEI DATI?
Ognuno agisce secondo la propria coscienza, ma è giusto intanto averla, una coscienza. Giusto per chiudere il cerchio, sono ancora in tanti a domandarsi come mai Meta abbia investito miliardi in Whatsapp, che rimane un servizio gratuito. Dopo aver letto questa Insalata, dovrebbe esservi chiaro come un sistema di messaggistica così utilizzato, possa contribuire a completare quei profili di cui Meta ha così tremendamente bisogno per poter targettizzare al meglio la pubblicità dei propri inserzionisti.
Ecco, se domani vi apparirà il banner su Instagram che vi costringere a scegliere se abbonarvi o meno, sappiate che in ogni caso, l’uso dell’app lo state pagando. Vi sta bene che Meta “venda” i dati sulle vostre abitudini raccogliendo miliardi di dollari in pubblicità? Oppure preferite che non lo faccia (o lo faccia in misura minore) spendendo 12,99€ al mese?
Oppure potremmo valutare una terza possibilità, che Facebook e Instagram non mettono sul piatto, ma che potremmo considerare: lasciare queste piattaforme social e spostarci invece su altre che non guadagnano dalla pubblicità. Substack, per esempio, la piattaforma che ospita Insalata Mista, è anche un social network che ricalca da vicino Twitter (ed è il motivo per cui Twitter la osteggia palesemente) e che guadagna dagli abbonamenti alle newsletter, senza avere niente a che fare con la pubblicità.
A voi la scelta e a me il dovere di spiegarvi il perché qualcosa che prima era gratuito improvvisamente diventa a pagamento. Spero di esserci riuscito e di avervi chiarito un po’ le idee.
In ogni caso, Insalata Mista è gratuita e non raccoglie i vostri dati. Forse. Anzi no, gli indirizzi email li raccoglie (per forza) e un domani potrebbe ospitare pubblicità, ma non targettizzata, sia chiaro.
» COSE MOLTO UTILINK 🔗
Gli articoli più interessanti che ho letto in settimana, insieme ai link utili o semplicemente curiosi che ho trovato in giro per internet.
Un articolo che vi consiglio moltissimo di leggere è questo comparso sul The New York Times, intitolato “Non sono i ragazzi con il problema del cellulare, sono i genitori”. Un’analisi molto acuta sul bisogno dei genitori che i figli abbiano con sé lo smartphone. Che poi critichiamo.
Secondo un ex dirigente di Meta, le alte sfere dell’azienda avrebbero ignorato o sottovalutato le sue preoccupazioni sulle avance sessuali e sulle vessazioni che i più giovani ricevono tutti i giorni su Instagram. Lo dice da protagonista, visto che ha riferito al Congresso degli Stati Uniti l’episodio che ha riguardato sua figlia, vittima di molestie su Instagram.
» CONSIGLI PER L’ASCOLTO 🎧
Ha compiuto 13 anni questa settimana (anzi la scorsa, quando leggerete) il podcast di videogiochi Console Generation, che quindi si candita ufficialmente a diventare il più anziano in Italia. Il podcast, condotto dalla coppia Raffaele Cinquegrana e Andrea Facchinetti, affronta il tema attraverso rubriche ormai diventate mitologiche, come la Resident Evil Curiosity. È un ascolto interessante e molto molto piacevole, consigliato!
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
Tanto per rimanere in argomento, Meta ha annunciato la possibilità di collegare il proprio account Amazon per acquistare i prodotti sponsorizzati tramite le proprie inserzioni, senza lasciare Facebook o Instagram. Così Amazon vende più facilmente e l’utente continua a navigare indisturbato sul suo social network preferito. Quello che si direbbe un win-win. Poi i dati sull’acquisto rimarranno anche a Meta, probabilmente, e così, di nuovo, avremo ceduto un altro pezzetto di quello che facciamo al social network.
Nella grande campagna acquisti di Netflix che riguarda i videogiochi, si aggiungerà nel 2024 un titolo di assoluto peso: Hades. Un titolo di grande successo, che nel 2020 ha persino vinto il premio Game of the Year. Il tutto ci riporta alla strategia di Netflix con i videogiochi. Che voglia creare un’alternativa al Gamepass di Microsoft? E magari domani una sua console portatile?
Secondo Humane, Ai Pin è lo smartphone del futuro. Quello presentato ufficialmente la scorsa settimana è un dispositivo connesso che non ha né tastiera né schermo. Si attacca ai vestiti, è touch e proietta delle immagini sulla mano. Sarà davvero il futuro? Mah…
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Se non avessi messo direttamente tu quella cosa che io ricordo perfettamente del "È gratis e lo sarà per sempre" giuro che ti avrei fatto una telefonata su Messenger, una di quelle che fa squillare una suoneria a te ignota del telefono
Hanno ancora efficacia le campagne pubblicitarie su Twitter?