Siamo tutti tossicodipendenti (da dopamina)
Andare in vacanza per molti significa anche "disintossicarsi" dallo smartphone e dalle notifiche. Perché quella da smartphone è una vera dipendenza e come uscirne (o almeno provarci).
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La parola di oggi: Variable Reward Schedule, la programmazione delle ricompense variabili, una tecnica utilizzata dai social network (e non solo) per aumentare la permanenza sulle app.
IL MENÚ DI OGGI
Quella da smartphone è una vera dipendenza, lo dimostra la scienza. Una dipendenza che può essere definita tranquillamente “tossica”, visti gli effetti negativi;
Più che di dipendenza da smartphone, dovremmo parlare di dipendenza da social network, che sono i veri responsabili di quel meccanismo di ansia/ricompensa alla base della nostra schiavitù da notifica;
La soluzione c’è già e viene offerta dallo smartphone stesso, basta un po’ di forza di volontà (come per tutte le cattive abitudini).
» VADO IN FERIE PER DISINTOSSICARMI
“Vado in ferie una settimana, terrò il telefono offline perché devo disintossicarmi”.
Questa frase, a ridosso delle ferie estive, l’ho sentita pronunciare più di una volta, tanto da farmi nascere una riflessione sull’argomento. Non che io sia completamente estraneo a questo problema, tutt’altro. In passato ho preso diverse misure per evitare quello che chiamavo, non sbagliando, lo “stress da notifica”. Fino ad arrivare, per esempio, a far defluire una parte dei contatti importanti su alcune app di messaggistica ben precise e a togliere completamente la notifica da altre, come Whatsapp.
Lo smartphone quindi è qualcosa da cui, prima o poi, si sente il bisogno di disintossicarsi. Perché? Ho iniziato da qui il mio ormai settimanale percorso di ricerca, scoprendo tante cose che in fondo sospettavo, ma che non avevo mai messo a fuoco realmente. Alla fine mi sono chiesto: è davvero lo smartphone il problema? O è la deriva social a cui lo smartphone ci ha portati?
Qui si intreccia un’altra storia, che è quella dei social network. Esplosi insieme alla diffusione dello smartphone, sono praticamente sovrapponibili al concetto stesso di uso dello smartphone. Se consideriamo anche le app di messaggistica come app social, si può dire che il 90% del tempo di utilizzo di uno smartphone, è dedicato proprio alle reti sociali (non ho trovato una statistica precisa, ma l’ultimo Global Digital Overview di Datareportal.com parla di 2 ore e 26 minuti in media spesi ogni giorno sui social network).
È una distinzione importante da fare, perché oggi con lo smartphone si possono fare tante cose che non devono per forza ereditare la stessa accezione negativa. Con lo smartphone si può leggere un libro, guardare un film o documentarsi (la stessa puntata di Insalata Mista nasce da lunghe sessioni di lettura sullo smartphone).
Nonostante ciò, è arrivato il momento di riconoscere un fatto che è ormai incontrovertibile: lo smatphone, o l’uso di app sociali, ci ha ridotto in uno stato di tossicodipendenza. E non è sbagliato definirla così, perché fenomeni come le “phantom vibrations” (vedremo poi di cosa si tratta, anche se si intuisce) sono per forza di cose da collegare a una forte dipendenza e alla relativa “crisi d’astinenza”. Tossica, infine, perché tutto ciò deriva da un ormone, il cortisolo, che è fortemente legato agli stati d’ansia.
In pratica, l’uso dello smartphone ci tiene in un costante equilibrio tra cortisolo, l’ansia generata da una notifica, e la dopamina, che invece ci da la dose temporanea di benessere. Uno stato di dipendenza che ci porta a sbloccare il telefono addirittura più volte al minuto, anche se l’abbiamo appena controllato e sappiamo con certezza che non c’è nessuna novità o notifica da controllare.
Spero che questo argomento, in questo caldo agosto, vi sia utile per tentare di focalizzare quali di questi comportamenti vi sono familiari, così da mettere in pratica le azioni necessarie a vivere meglio il rapporto col vostro smartphone che, ci tengo a precisarlo, è uno strumento eccezionale e di cui dobbiamo essere grati tutti i giorni. Lo smartphone ha decisamente migliorato la nostra vita quotidiana così come l’ha fatto internet. Se ci sono delle derive negative, possiamo fare qualcosa per correggerle, senza necessità di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Di queste “cure” possibili, vi proporrò quelle che hanno funzionato con me. Per il resto, mi scuso fin da ora se userò termini medici a sproposito. Ho cercato di documentarmi nel miglior modo possibile, con tutti i limiti del caso.
Buona lettura,
Franco A.
» IL NOSTRO BISOGNO DI SOCIALITÁ, MOLTIPLICATO 100.000
L’uomo, si sa, ha bisogno di relazioni sociali. Ma se nel contesto di vita reale si può arrivare a costruirsi una rete sociale di qualche centinaio di persone, nel mondo dei social network questa rete non ha praticamente limiti. Si potrebbe dire che, volendo, una persona può potenzialmente ambire a una rete di 3 miliardi di persone, che sono le persone che utilizzano attivamente Facebook (o quasi 5 miliardi, se consideriamo tutti i social network).
La relazione che si instaura con questa rete di persone ci porta ovviamente a provare delle soddisfazioni. La condivisione di qualcosa che abbiamo scritto, il like, il commento, sono tutte piccole “ricompense”, così le chiamano gli studi scientifici, che hanno un impatto chimico sul nostro cervello, prima che sul nostro umore.
D’altronde, l’avrete provato tutti, quando pubblichiamo qualcosa su un social network, viviamo i minuti successivi nell’attesa che qualcosa accada. E quel qualcosa è la notifica, che vi avviserà se qualcuno avrà apprezzato o commentato quello che avete pubblicato.
Quella è la ricompensa, che ha una traduzione chimica nella dopamina. Che cos’è la dopamina? Prendo in prestito una spiegazione efficace da Wikipedia (ok, non è un testo scientifico, ma qui siamo alla stregua di una definizione da vocabolario e per il nostro scopo va più che bene):
“Stimoli che producono motivazione e ricompensa (fisiologici quali il sesso, cibo buono, acqua, o artificiali come sostanze stupefacenti, o elettrici ma anche l'ascolto della musica, in particolare alcuni tipi di suoni o timbri vocali), stimolano parallelamente il rilascio di dopamina nel nucleus accumbens. Al contrario il piacere prodotto da questi stimoli è soppresso da lesioni dei neuroni dopaminergici o dal blocco dei recettori alla dopamina in questa stessa area. Si è visto che bloccando il recettore D2, si ottiene ancora la liberazione di dopamina e la trasmissione del piacere incrementa. Su questo principio si basa la cura della depressione, che consiste nel bloccare il recettore D2 e fare liberare quanta più dopamina possibile, per risollevare il tono dell'umore in modo farmacologico”
L’innato bisogno di ricompense
Il concetto di ricompensa è dunque strettamente legato a quello di rilascio di dopamina e quindi alla sensazione di benessere che ne consegue. Non state a interrogarvi se provate o no una sensazione di benessere o di gratificazione quando ricevete degli apprezzamenti sui social, magari voi non ne siete coscienti, ma il vostro cervello si. È pura chimica.
Su questa logica della ricompensa e di benessere hanno lavorato molte startup, alcune delle quali al servizio di grandi tech companies che si occupano di app popolari. Vi lascio qui un servizio di 60 minutes del 2017 intitolata “What is Brain Hacking?” che parlava proprio di questo tema, intervistando persone esperte in questo campo. Una di queste Startup si chiamava proprio Dopamine Labs e aveva come scopo quello di aiutare le aziende a tenere attaccati gli utenti alle proprie app o servizi.
Stranamente però, dopo un round di finanziamento da un milione di dollari, Dopamine Labs è scomparsa del tutto. Sui profili LinkedIn dei due fondatori, andando a scorrere le esperienze passate, la startup è completamente scomparsa.
Sappiamo comunque che gli algoritmi dei più noti social network calibrano attentamente queste ricompense, sviluppando anche dei meccanismi per cui le notifiche dei like vengono, a volte, temporaneamente sospese per poi riprendere quando questi like si sono accumulati, creando una sorta di effetto bomba.
Esiste anche un termine che sintetizza questo comportamento, ed è il “Variable Reward Schedule” (la programmazione delle ricompense variabili), che fu teorizzato da B.F. Skinner negli anni ’50. Secondo questa teoria, l’uso di ricompense variabili aumenta la dipendenza da un certo comportamento. Nei test realizzati da Skinner con la Skinner Box, un topo è stato messo in grado di ricevere una ricompensa premendo un bottone. In un caso però, il topo ha ricevuto sempre la stessa ricompensa. Nell’altro, una ricompensa diversa ogni volta che premeva il bottone. La variabilità della ricompensa ha portato il topo a premere il bottone con frequenza molto maggiore rispetto all’altro topo.
È un po’ il meccanismo delle slot machine: la sensazione che il tentativo successivo potrebbe essere quello vincente, ci porta a provare e a riprovare, anche se razionalmente sappiamo che le probabilità non giocano a nostro favore. In qualche modo, è come se la ricompensa stessa diventasse più il gesto di tirare la leva che l’eventuale vincita.
E infatti, in molti articoli e video sull’argomento, si fa un parallelo stretto tra le slot machine e il bisogno di consultare lo smartphone per vedere se è successo qualcosa che ci dia quella sensazione di benessere. Tanto da arrivare alla fatidica “vibrazione fantasma”.
Alzi la mano chi non ha mai avuto la sensazione che il proprio telefono vibrasse in tasca, pur non trovando nessuna notifica a giustificare la vibrazione. Si chiama così, “phantom vibrations”, è Sciencedirect.com la analizzava addirittura nel 2012, notando come l’89% degli studenti sottoposti a indagine, avesse provato almeno una volta questa sensazione.
Il cortisolo e lo stress
A fare da contraltare per il rilascio di dopamina è il cortisolo, chiamato in molti casi “l’ormone dello stress”. La definizione, al di là di quello che potrebbe sembrare, deve essere letta come positiva. In casi di forte stress il cortisolo ci mette a disposizione l’energia di cui abbiamo bisogno per reagire a un possibile pericolo.
Il cortisolo però non deve abbondare, perché un’abbondanza può portare a effetti negativi, come ipertensione, problemi cardiovascolari, ma anche iperglicemia e sviluppo di diabete di tipo 2 (esistono un quintale di studi sull’argomento).
In un articolo del New York Times ho trovato un interessante esempio di rilascio di cortisolo quando riceviamo un’email arrabbiata proveniente dal nostro capo. Nello stesso articolo si dice che se capita occasionalmente, il picco di cortisolo non è un problema, ma se lo smartphone viene usato in media 4 ore al giorno, come nel caso degli americani (ahimè, forse non siamo molto lontani dalle 4 ore anche dalle nostre parti), allora può essere un grosso problema.
Viene addirittura citato un report di Google in cui si dice che un dispositivo con a bordo app di social network, email e news, “crea un costante senso di obbligo, generando uno stress personale non intenzionale”.
Ed è proprio questo il problema, a volte ci si sente quasi obbligati a guardare la notifica, perché dentro di noi scattano pensieri ansiogeni e angoscianti: “sarà il mio capo?”, “mio figlio avrà bisogno di me?”, “avrò sbagliato qualcosa nel lavoro appena consegnato?”.
Paure che possono essere scacciate soltanto con un semplice, rapido gesto, da cui poi scaturisce quello di cui abbiamo più bisogno in quel momento: la nostra dose di dopamina.
Le tech companies e le neuroscienze: il perfetto equilibrio tra stress e ricompensa
Ora fate questo percorso logico con me: avete mai pagato Facebook, Instagram o Twitter (o X, fate voi)? Se togliamo la recente follia delle spunte blu a pagamento, possiamo rispondere tranquillamente “no”. Da dove guadagnano quindi queste aziende miliardarie? Dalla pubblicità, lo sappiamo tutti.
Come fanno dunque ad aumentare gli introiti pubblicitari anno dopo anno? Aumentando la permanenza (leggasi dipendenza) degli utenti sulle loro app, ovvio: più tempo rimangono le persone all’interno dell’app, più pubblicità vedranno, più aumenteranno i guadagni.
Siccome sappiamo che gli introiti di queste aziende sono molto alti (Meta nel 2022 ha totalizzato 161 miliardi di dollari con le sole pubblicità), quanto sarà difficile per la stessa Meta (ma potrei citare anche Google, Twitter e via dicendo) assumere centinaia, se non migliaia di neuro-scienziati le cui giornate verranno trascorse cercando il modo più scientifico possibile per tenere le persone attaccate alle proprie app? Ecco, probabilmente vi siete risposti da soli.
Questo stato di equilibrio delicatissimo tra ansia e ricompensa è la materia prima dalla quale si ricava il prodotto che queste aziende vendono. È come il legno per il falegname: più dipendenza creo nei miei utenti, più prodotto (ads, pubblicità) venderò.
Ora, lungi da me voler apparire come un santone che predica la disconnessione e che si scaglia contro il mondo moderno, la tecnologia e la pubblicità digitale. Figuriamoci, mi occupo e scrivo di tecnologia da sempre, così come mi occupo di internet e pubblicità digitale professionalmente da un decennio. Tuttavia, è sempre bene tracciare dei confini. Lo smartphone è un grandissimo strumento, così come lo sono i social, basta trovare un equilibrio, che non è quello di rimanere in un costante stato di ansia->ricompensa→ansia. Una soluzione c’è e personalmente penso di aver trovato questo equilibrio. Prima però un’ultima preoccupazione: i nostri figli.
La scuola come l’azienda: stiamo avviando i nostri figli alla tossicodipendenza cronica?
Parliamo tutti i giorni dei rischi che corrono i più giovani con l’uso dello smartphone, così come parliamo della probabilità di sviluppare una vera e propria dipendenza. La scuola è apparentemente molto sensibile all’argomento, ma spesso si fanno anche delle grosse stupidaggini, proprio perché è sempre più facile demonizzare uno strumento, specie se poco conosciuto, piuttosto che andare a scovare i reali problemi che si nascondono dietro. Vi invito a leggere l’Insalata che scrissi sui videogiochi, definiti troppo spesso come una droga delle nuove generazioni.
Mi ha invece allarmato molto il notare come troppo spesso vengano replicate a scuola alcune dinamiche proprie degli ambienti lavorativi o più in generale dell’azienda. Mi riferisco all’uso di app di messaggistica e collaborazione, come Microsoft Teams, oppure ambienti di lavoro condivisi come Google Workspace.
Tutto è esploso con la pandemia, che ha reso l’uso di questi strumenti fortemente necessario per poter usufruire della didattica a distanza. Poi, però, questi strumenti sono entrati nell’uso comune, sia nelle scuole superiori che alle medie, perché è indubbio che possano essere molto utili.
I professori possono assegnare i compiti e correggerli. I ragazzi possono rimanere aggiornati su quanto fatto in classe anche se assenti, oppure possono fare i compiti e consegnarli a distanza. Tutto ciò però li porta ad avere configurata sul proprio smartphone l’email, non usata più per svago, ma al contrario per la scuola.
Così come Teams, che diventa lo strumento attraverso cui dialogare con la scuola. Ecco che le notifiche diventano quindi fondamentali, guai perdersene una, si rischia di perdersi un compito importante da consegnare il giorno dopo. E da qui l’ansia da notifica, che stiamo innestando già sui nostri figli, in un’età in cui sicuramente è più difficile per loro gestirla.
Sull’articolo del New York Times di cui sopra, il dr. Robert Lustig, professore emerito di endocrinologia pediatrica dell’University of California, autore di “The hacking of the American Mind”, dice che “livelli elevati di cortisolo compromettono la corteccia prefrontale, un’area del cervello critica per il processo decisionale e per il pensiero razionale. La corteccia prefrontale ci impedisce di fare cose stupide e diminuisce l’autocontrollo. Se abbinato a un potente desiderio di alleviare la nostra ansia, può portarci a fare cose che possono alleviare lo stress al momento, ma sono potenzialmente fatali, come mandare messaggi durante la guida”.
Mandare messaggi alla guida, quanti di voi/noi lo fanno pur sapendo che può essere fatale? Vi siete mai chiesti perché a volte è così forte il desiderio di rispondere a un messaggio tanto da mettere consapevolmente a rischio la vostra/nostra vita e quella di altri? Ecco qui la risposta, e se non siamo in grado di autocontrollarci noi adulti, figuriamoci i ragazzi più giovani.
Ecco, ho paura che questo modello scolare e sociale, iper-produttivo e basato in larga parte sulle performance, stia spingendo i ragazzi ad adeguarsi a questo stato cronico di dipendenza da cortisolo/dopamina più di quanto lo facciano altre loro abitudini che spesso additiamo come responsabili di una gran parte dei loro problemi (videogiochi, app di streaming video, etc.). Ma quale può essere la soluzione?
Una soluzione c’è: full immersion e app alternative
Ho personalmente sviluppato un metodo per far fronte a questo problema. Non ve lo venderò come LA SOLUZIONE al problema, ma con me ha funzionato. Non l’ho inventato io, sia chiaro, si tratta soltanto di utilizzare sistemi che già esistono.
Il primo è basato su una funzionalità che hanno tutti i vostri smartphone. Apple ha implementato già da qualche anno Full Immersion e Google ha dotato Android della Focus Mode, che sono entrambe delle funzioni che consentono di creare dei profili, attivabili in un determinato giorno/ora o luogo, che spengono le notifiche di determinate applicazioni.
Sono funzioni che vengono spesso pubblicizzate per aumentare la produttività, di nuovo, ma sono molto utili anche per concedersi un periodo che potremmo definire “detox”. Non c’è bisogno di spegnere lo smartphone per una settimana l’anno, anzi, fatemi dire che è più controproducente che altro. No, quello che è fondamentale è non alimentare quotidianamente l’altalena cortisolo/dopamina. Spegnendo le notifiche si può fare.
Full Immersion e Focus Mode consentono infatti di spegnere le notifiche pur lasciando attive le chiamate o i messaggi provenienti da una stretta cerchia di famigliari. Se vostro figlio/a esce e avete bisogno di ricevere chiamate e messaggi, niente paura: potrete configurare lo strumento per lasciar passare chiamate e messaggi di alcuni contatti specifici.
Full Immersion consente anche di creare diversi scenari (non ho potuto testare la controparte Google, perdonatemi se parlo soltanto della versione Apple), in modo da creare la ricetta più adatta alle varie situazioni. Io per esempio ne ho due: dalle 19 in avanti spengo le notifiche delle app di lavoro, dalle 22 in avanti le spengo tutte. Rimangono sempre attive, ovviamente, chiamate e messaggi provenienti dai membri della mia famiglia.
Apple inoltre ha un’altra funzionalità preziosa (non me ne vogliate, non vengo pagato da Apple, magari…), che è la possibilità di impostare le notifiche “raggruppate”. Se durante il giorno avete bisogno di concentrarvi o semplicemente volete prendervi una pausa, senza tuttavia trascurare il lavoro, potete impostare le notifiche raggruppate a intervalli che potrete stabilire. Per esempio, potete impostare le notifiche Whatsapp ogni 2 ore, o 3 volte al giorno. In quel momento le riceverete tutte insieme, così da poter rispondere entro un lasso di tempo comunque ragionevole, ma interrompendo la nevrosi da notifica.
Imporsi l’uso di app alternative a quelle più ansiogene
C’è poi la dipendenza più difficile da eliminare, che è quella del prendere in mano lo smartphone e consultarlo in ogni momento libero, persino quando si cammina da un punto all’altro. È quasi un riflesso incondizionato ormai, il gesto di sbloccare lo smartphone e scrollare infinite pagine col pollice (anche della strategia di creare pagine a scroll infinito ne potremmo parlare per ore).
Esiste una soluzione a questa dipendenza? Si, ma richiede sforzo. Dalle app che, al tentativo di aprire un social network, si aprono automaticamente chiedendoti se lo vuoi aprire veramente (e innescando un timer di 30 secondi) fino alla più radicale disinstallazione dell’app stessa, ridurre questo riflesso richiede veramente molta forza di volontà.
Personalmente ho adottato un sistema che trovo efficace: ho sostituito le app social che utilizzavo più spesso con alternative che ritengo essere più sane. A Facebook (che continuo a utilizzare, sia chiaro) ho preferito Artifact, il social creato da alcuni fondatori di Instagram, basato sulle notizie. Gli effetti positivi sono due: quando apro lo smartphone, se proprio devo, almeno mi informo su cose che mi sono utili; non si innesca quella logica malata della ricompensa, perché l’aspetto social di questa app è davvero molto limitato.
La seconda app che uso è Substack, attraverso cui ho creato Insalata Mista. Sono iscritto a molte newsletter e quando prendo lo smartphone cerco sempre di leggerne almeno una (o quantomeno un pezzo). Anche in questo caso, pur essendo Substack un social network analogo a Twitter, viene meno quell'aspetto patologico delle ricompense. La apro, leggo, mi informo e la richiudo.
Come sempre, l’unica soluzione è la razionalità
Dicevo prima: voglio fare tutto tranne che terrorismo contro la tecnologia e i social network. Io stesso ci lavoro. Va però utilizzata razionalità: riconoscere per prima cosa il problema e poi agire di conseguenza. Gli strumenti ci sono tutti, spesso creati proprio da chi realizza gli smartphone, basta un minimo di autocontrollo (per noi adulti) e un po’ di vigilanza sui più giovani. Possibilmente con l’aiuto della scuola, che in questo caso, come spesso accade, reagisce con una lentezza esagerata ai problemi più attuali, proponendo soluzioni che in molti casi creano più danni del problema stesso.
Ora, quindi, spegnete lo smartphone e fate qualcos’altro che non sia sbirciare Instagram. Prima però, se vi va, datemi un vostro parere sull’argomento. Grazie.
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
Mark Zuckerberg, CEO di Meta e dunque proprietario di Whatsapp, ha annunciato l’arrivo di una funzionalità che sicuramente farà la felicità di molti utenti: la condivisione dello schermo. Si potrà quindi condividere il proprio schermo presentando agli altri partecipanti alla videochiamata, oppure ottenere assistenza da remoto mostrando le immagini del proprio schermo. Una funzionalità comune a molte altre app, che però può fare la differenza, vista l’enorme diffusione di Whatsapp. E via di videocall pure in macchina (giusto per rimanere sul tema)!
Parliamo ancora di Zuckerberg e del folle incontro/scontro con il suo acerrimo nemico (quantomeno stando alla narrazione che ne stanno facendo i due protagosti sui social): Elon Musk. Secondo quest’ultimo, lo scontro si farà, d’accordo con il Primo Ministro e con il Ministro della Cultura italiani, in una location “epica”. Sull’internet impazzano i meme che sfottono la questione italiana, ma la notizia fa ridere già così, non c’è bisogno di mettere in mezzo l’Italia.
Netflix ha lanciato un’app (per ora solo su iOS) che fa intuire qualcosa di importante sul futuro della piattaforma. L’app è un joypad virtuale e permetterà, da quanto si intuisce, di giocare ai giochi di Netflix anche sulla TV. Il che viene letto nella prospettiva di quello che Netflix già annunciò tempo fa, ovvero il piano per sposare il cloud gaming. Netflix diventerà una piattaforma per giocare a tutti gli effetti? Non è certo un mistero che ci stia lavorando e a giudicare da come si sta muovendo, potrebbe anche farcela.
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.