Ma davvero stiamo assistendo al declino di Apple?
Prima la "stanchezza" creativa, poi la scarsa capacità di rimanere al passo con l'intelligenza artificiale e infine l'amministrazione Trump e i dazi. Per Apple, cominciano i tempi bui
Si dice che quando arriva un vero cambiamento epocale, le più grandi aziende del settore coinvolto tendano a scomparire, o comunque a essere fortemente ridimensionate. Se questo fenomeno comincia già a manifestarsi nello storico mercato europeo dell’automobile — travolto dallo tsunami asiatico delle auto elettriche a basso costo — qualcosa di simile sta accadendo anche nel settore tecnologico.
La tempesta perfetta, in questo settore, ha un nome ormai noto a tutti: intelligenza artificiale. Da quando OpenAI pubblicò quel famoso tweet nel novembre 2023, nessuna big tech americana ha più dormito sonni tranquilli. Persino Google, che ha posto le fondamenta delle tecnologie su cui si basano questi strumenti straordinari, ha pesantemente vacillato e ancora oggi, pur con un’offerta solida e strutturata, fatica a imporsi sul mercato e, soprattutto, a integrare l’IA in modo efficace nei suoi strumenti più diffusi, quelli che costituiscono tuttora la principale fonte dei suoi ricavi.
Tuttavia, quasi tutte le grandi aziende si sono mosse per tempo cercando di recuperare il terreno perso. Tutte tranne una, Apple, che sembra essere più in difficoltà del solito, soprattutto oggi che, a poche ore dal suo evento più significativo, dove si presentano le novità più importanti su cui l’azienda sta lavorando, deve rendere conto delle promesse fatte l’anno scorso e che poi sono state disattese.
Può sembrare un’eresia parlare di declino riferendosi a un’azienda che è quasi sempre tra le prime tre aziende al mondo per capitalizzazione e che ha infilato un dispositivo tecnologico e costosissimo nelle tasche di un miliardo di esseri umani, creando intere economie che prima semplicemente non c’erano e continuando a monetizzarle senza particolare sforzo. E tuttavia, se si mettono insieme i pezzi del puzzle, viene fuori un quadro complesso che comincia a mostrare tutte le difficoltà in cui l’azienda ormai indugia senza avere una vera soluzione per risollevarsi, o almeno così pare dall’esterno.
Questo lo scrivo oggi, domenica, cioè il giorno prima della WWDC (World Wide Developer Conference), la conferenza annuale dove Apple presenterà le novità tecnologiche in ambito software, sistemi operativi e servizi, rischiando quindi di essere smentito nel giro di poche ore. E tuttavia, pure se Apple dovesse sbancare tutto e presentare qualcosa di realmente sorprendente, sono sicuro che qualcuno rimarrebbe giustamente scettico. Questo perché un anno fa, allo stesso evento, Apple ci parlò di una grandissima rivoluzione che doveva riguardare Siri, l’assistente vocale presente su tutti i suoi dispositivi. Una rivoluzione che però ancora oggi gli utenti — in particolare quelli che hanno acquistato un iPhone 16 confidando nell’arrivo di una Siri più intelligente e “umana” — stanno ancora aspettando.
Tim Cook, CEO di Apple, è l’uomo dalle uova d’oro. È colui che ha saputo far grande Apple permettendo all’azienda di produrre in milioni di pezzi un oggetto complessissimo e prezioso. E tuttavia, all’epoca, c’era una mente illuminata e visionaria ad alimentare il genio produttivo di Cook. Oggi, invece, Apple comincia a mostrare il fianco proprio da quel punto di vista lì: l’innovazione.
Vision Pro: il visore che non decolla
Personalmente non sopporto chi ripete continuamente “ah, quando c’era lui…” — inteso come Steve Jobs — “…era tutto diverso”. È vero, Jobs aveva la visione, l’intraprendenza e la strafottenza per pretendere che i suoi ingegneri e designers progettassero quello che fino a quel momento erano sicuri non si potesse fare.
Però è altrettanto vero che, dalla sua dipartita, Apple ha prodotto diversi nuovi dispositivi che hanno avuto grande successo. Tra questi, forse, le AirPods sono quelle che meritano più di tutti di essere menzionate. Ma hanno funzionato bene anche Apple Watch e i Mac di oggi, che sono senz’altro molto avanti rispetto a quelli dell’epoca Jobs. E poi, occorre ricordarlo, alcuni modelli voluti da Jobs stesso, come il MacBook in plastica bianca del 2009, non fecero una grandissima riuscita.

Allo stesso modo, la Apple di Tim Cook è stata capace di scelte strategiche davvero vincenti, che hanno saputo anticipare il mercato con anni di vantaggio. Mi riferisco in particolare ai processori Apple Silicon, con cui Apple ha davvero sbaragliato il mercato, conquistando una posizione di assoluta indipendenza e vantaggio rispetto agli altri produttori di personal computer e di chip — i quali ancora oggi cercano in tutti i modi di colmare il gap.
Va anche ricordato il disastroso passaggio dei Mac, avvenuto proprio in epoca Jobs, ai processori Intel. Il confronto con la successiva transizione da Intel ad Apple Silicon — avvenuta soltanto pochi anni fa e completata con una fluidità tale da passare quasi inosservata agli utenti — risulta quasi impietoso.
Tuttavia, due segnali precisi, soprattutto per il fatto che siano giunti in rapida successione, rappresentano un allarme da non trascurare. Sto parlando di un prodotto importante, Vision Pro, capostipite di una nuova generazione di dispositivi che doveva rivoluzionare il modo di intendere il computer e che oggi invece sta prendendo polvere non solo sugli scaffali dei negozi, ma probabilmente anche nelle case degli utenti più entusiasti che hanno speso 3.500 dollari (o più) per acquistarlo non appena disponibile.
I numeri raccontano una storia molto diversa dai precedenti lanci di prodotto: tagli alla produzione annunciati da fornitori e analisti, vendite inferiori alle attese e un proliferare di sconti che suggeriscono una domanda molto più debole del previsto. Il visore, inoltre, non è ancora disponibile in tutti i mercati — Italia compresa. Si attendeva anche l’annuncio di una versione “non pro” dello stesso visore, magari a un prezzo più abbordabile, per convincere anche gli utenti con un portafoglio meno generoso dei primi, ma anche in questo caso, nulla si è visto ancora.
Vision Pro è il primo dei due segnali: un dispositivo tecnologicamente avanzatissimo, a cui però è mancato quel racconto capace di creare un desiderio irresistibile, indipendentemente dal costo. E qui sì che si sente la mancanza di Steve Jobs, cioè di quel grandissimo ammaliatore e incantatore di serpenti, che sapeva farti sentire l’urgenza di possedere qualcosa di cui fino a un secondo prima non conoscevi nemmeno l’esistenza.
Apple Intelligence: troppi annunci, poche certezze
Il secondo segnale è arrivato dalla scarsa reattività di Apple di fronte a un fenomeno così importante come l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa. Tutte le grandi aziende hanno reagito in qualche modo: Microsoft ha investito in OpenAI e ha integrato da subito GPT nei suoi prodotti di punta; Meta ha sviluppato e addestrato il proprio modello, rendendolo inoltre open source e liberamente utilizzabile; Google ha accelerato progetti che evidentemente aveva già in programma. L’unica a mancare all’appello è Apple, arrivata con i suoi tempi a presentare qualcosa di obiettivamente potente, quantomeno per rilanciare e stimolare la vendita di Mac e iPhone. Tuttavia, per la prima volta nella sua storia (o quasi), ha rimandato tutto a data da destinarsi.
A dirla tutta non è la primissima volta che Apple fa un errore del genere. Lo fece già con AirPower, il tappetino capace di caricare più dispositivi semplicemente appoggiandoceli sopra, in qualsiasi posizione. Lo presentò senza ancora avere la certezza di poterlo produrre e infatti fu costretta, dopo poco, a chiudere il progetto.
Apple Intelligence è stata la risposta tardiva all’ondata di innovazione innescata dall’AI generativa. Non solo i già citati concorrenti Google, Microsoft e Meta hanno integrato funzionalità AI avanzate nei loro prodotti, ma sono spuntati attori nuovi. Anthropic, per citarne una, è un’azienda che si sta facendo spazio tra i giganti del settore, con modelli evolutissimi come il recente Claude Sonnet 4. Di fronte a questo nuovo scenario commerciale, Apple ha finora offerto solo annunci e roadmap vaghe.
Soprattutto l’integrazione con Siri — che doveva essere il cuore di questa strategia — non è ancora arrivata. E quel che è peggio, non esistono date certe. Oggi Siri, con cui Apple fu pioniera nel campo degli assistenti vocali, appare di gran lunga superata da Google Assistant, Alexa e dai nuovi chatbot generativi. Chi ha provato a dialogare con la versione audio di ChatGPT si rende conto dell’enorme distanza tecnologica rispetto a Siri. Per un’azienda che non solo è stata pioniera nello sviluppo di un’assistente vocale, ma che detiene nelle proprie casse l’equivalente del prodotto interno lordo di uno Paese mediamente sviluppato, è difficilmente giustificabile.
Geopolitica e catena di fornitura: la tempesta perfetta
Come se non bastasse, sulle prospettive di Apple incombono anche fattori esterni, a partire dal contesto geopolitico. Negli ultimi anni l’azienda ha cercato di diversificare la propria catena di fornitura, storicamente molto legata alla Cina. È noto che oltre il 90% dei componenti di iPhone e altri dispositivi passa ancora attraverso fabbriche cinesi o fornitori con sede in Cina continentale e a Taiwan. Ma la crescente tensione commerciale tra Washington e Pechino — riaccesa da quando Trump è tornato alla Casa Bianca — sta tornando a rappresentare un problema serio per Apple.
Da quando Trump ha introdotto e più volte modificato i dazi contro la Cina, la situazione è diventata fonte di forte incertezza per Tim Cook e il management di Apple. In particolare da quando, in modo molto esplicito, il neoeletto presidente degli Stati Uniti ha scritto sul suo social Truth che gli iPhone venduti negli USA dovranno essere prodotti sul territorio statunitense, e non in Cina o in India — un Paese che Apple stava considerando proprio per diversificare la produzione e ridurre l’impatto dei dazi.
Apple sta tentando da tempo un difficile “reshoring” di parte della produzione: negli Stati Uniti, con impianti di partner come TSMC per la fabbricazione di chip, e in India, dove Foxconn e altri assemblatori stanno potenziando i volumi produttivi. Ma il processo, oltre a non essere rapido, rischia di incontrare ostacoli quasi insormontabili. Negli Stati Uniti, così come in buona parte dell’Occidente, mancano sia le materie prime sia l’infrastruttura produttiva e il know-how necessario per questo tipo di produzioni.
Questo è anche uno degli errori di fondo dell’approccio che l’amministrazione Trump sta adottando con i dazi: si richiama a una visione autarchica dell’economia, senza essersi prima assicurata di disporre delle risorse necessarie per sostenerla. E non solo queste risorse mancano oggi, ma difficilmente potranno essere sviluppate nei prossimi dieci anni, considerato che da decenni gli Stati Uniti hanno delegato alla Cina gran parte della manifattura, in particolare quella dei prodotti tecnologici di uso quotidiano.
In ogni caso, all’indomani del post di Trump su Truth, Apple ha perso in apertura di borsa il 2,86%, bruciando oltre 100 miliardi di dollari di valore di mercato. Un segnale che non sarà certo sfuggito alla dirigenza di Cupertino.
Lunedì sera: attesa o rassegnazione?
In questo scenario complesso, il keynote della WWDC di stasera — lunedì 9 giugno, per chi leggerà dopo — assume un’importanza ancora maggiore. Tradizionalmente, l’appuntamento per gli sviluppatori Apple è un momento di aggiornamento sul software e sull’ecosistema, ma negli ultimi anni ha spesso offerto anche spunti per intuire le strategie future di Cupertino.
Questa volta, però, il clima appare più incerto. C’è chi spera che sia l’occasione per un rilancio deciso: che Apple sorprenda con un’implementazione concreta e potente della sua Apple Intelligence, che finalmente aggiorni Siri a standard competitivi, o che presenti nuove piattaforme software capaci di aprire strade originali.
Ma c’è anche chi teme che la conferenza finisca per confermare l’impressione di questi ultimi anni: quella di un’Apple sempre più cauta, più impegnata a rincorrere i trend imposti da altri — in particolare nel campo dell’AI — piuttosto che a guidarli, come avveniva in passato.
La base di utenti più fedele, così come gli sviluppatori storici, continua ad aspettarsi il classico colpo di teatro in stile Apple: una “one more thing” capace di ridare slancio alla narrazione. Ma è anche vero che, dopo un biennio segnato da prodotti poco rivoluzionari e da una certa stanchezza strategica, un sano scetticismo è più che legittimo.
Lunedì sera potrebbe essere un bivio: capiremo se Apple è ancora in grado di dettare il ritmo del settore tecnologico — o se dovrà accontentarsi di seguirlo.
» PENSIERI FRANCHI: Quando la politica si arrabbia e porta via il pallone
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Questa storia del referendum, e del governo che consiglia di non andare a votare, o di andare a godersi la domenica al mare, mi ha ricordato quando, da bambini, ci si offendeva e ci si portava via il pallone, impedendo al resto della combriccola di continuare a giocare.
È un paragone un po’ forzato, me ne rendo conto. Però secondo me ci sta. Perché tentare di annullare l’efficacia del referendum, chiesto a suon di (tante) centinaia di migliaia di firme, consigliando di non recarsi alle urne — e così invalidando il referendum, che non raggiungerebbe il quorum — è un po’ una vigliaccata.
E lo so, lo so: l’hanno fatto, a parti inverse, tutti i partiti. Infatti non è una questione che riguarda solo l’attuale governo o la destra. È proprio la strategia — trasversale — di non andare a votare per affossare un’iniziativa popolare.
E dire che da decenni l’elettorato italiano mostra una forte inclinazione al populismo. Abbiamo vissuto anche noi la stagione in cui si inneggiava a un partito che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, promuovendo la democrazia ‘dal basso’. E non dimentichiamoci dei tanti movimenti di iniziativa popolare nati successivamente, come quelli dei forconi (o dei gilet arancioni in Francia).
Ecco, proprio non riesco a capire il motivo per cui, quando il cittadino è chiamato a esprimere il suo voto per cambiare direttamente una legge — che è forse l’esempio più alto di democrazia diretta — una parte di questo stesso elettorato preferisca seguire le indicazioni dei politici e restare a casa. Ma come, non volevate ribaltarlo, questo Parlamento?
Qualcuno dice: ‘Eh ma non andare a votare è come votare No.’ No, non è così. Così come è evidente che andare a votare — anche per dire No — rischia comunque di favorire l’altra parte. Il meccanismo è questo: immaginiamo che il 30% degli aventi diritto sia favorevole al referendum e vada a votare Sì. I contrari, i No, siano il 21%. Se anche loro andassero a votare, il quorum sarebbe raggiunto (51% totale) e, siccome i Sì sarebbero più numerosi, il referendum passerebbe. Se invece quel 21% restasse a casa, il quorum non verrebbe raggiunto e il referendum decadrebbe. Ecco perché si invita a non andare a votare: è un calcolo strategico, non un’affermazione politica.
E poi ci sono anche alcune storture insite nel meccanismo stesso del referendum. Quel 30% ipotetico di votanti per il Sì potrebbe perfino superare, in termini assoluti, il numero di elettori che hanno votato per i partiti oggi al governo. Oppure c’è il fatto — paradossale — che circa un decimo degli aventi diritto, cioè 5,9 milioni di persone, siano elettori residenti all’estero. Persone che magari in Italia non ci hanno nemmeno mai messo piede. Eppure, nel calcolo del quorum, il loro peso è superiore a un quinto.
In altre parole, oltre un quinto degli elettori che possono decretare il successo o il fallimento di un referendum non vive nemmeno in Italia e, di conseguenza, non subirebbe mai direttamente gli effetti della legge in questione.
A questo punto, vorrei portare un esempio che andrebbe preso come riferimento: la Svizzera. Lì la consultazione popolare è una prassi. Negli ultimi due anni, in Svizzera si sono tenuti 8 referendum su un totale di 16 quesiti. E su cosa sono stati chiamati a votare i cittadini svizzeri? Su qualsiasi cosa: clima, salute, politica energetica, energia rinnovabile, spese sanitarie e vaccinazioni, biodiversità e riforma delle pensioni professionali, autostrade, affitti, subaffitti e finanziamento della sanità.
E per tutti questi quesiti, sapete cosa fa il governo — qualsiasi governo? Stampa un opuscolo informativo e lo recapita a casa di ogni cittadino. Non nasconde i manifesti elettorali, come purtroppo capita vergognosamente a Biella. Non nasconde la testa sotto la sabbia. Perché se 630.000 cittadini hanno firmato per richiedere una consultazione popolare su un argomento, significa che quel quesito merita comunque una risposta da parte della popolazione — che sia positiva o negativa, poco importa. A votare si va, sempre.
Ora, non è che io sia un fanatico della politica che chiama i cittadini a votare su qualsiasi questione — anche su temi che dovrebbero rimanere prerogativa del Parlamento. Voglio dire: io pago te, parlamentare, perché tu ti documenti, ti informi e capisca qual è la scelta migliore, coerentemente con la mia visione della vita e del mondo. In qualche modo ti delego le questioni più grosse, scommetto su di te, ti affido la gestione del Paese perché io purtroppo non ho tutto il giorno a disposizione — e forse nemmeno la preparazione — per capire certi argomenti. Per questo scelgo qualcuno più preparato di me per fare quel mestiere. Questo dovrebbe essere, in teoria. Poi si sa, tra teoria e pratica c’è in mezzo un oceano di delusioni, e vabbè. Però rimane un fatto: anche in Italia, quando con fatica si riesce a ottenere la possibilità di esprimere direttamente la propria opinione su una questione che riguarda tutti, bisogna andare ed esprimersi.
La maturità politica e civica di un popolo, in fondo, si misura anche da queste cose. Se fai di tutto per far fallire un referendum, significa che della politica proprio non hai capito niente. Perché il referendum è la sintesi stessa della discussione, del confronto, del dialogo tra posizioni diverse. In poche parole, è il significato stesso della politica. E se l’unica cosa che sai fare è fare in modo che il referendum non venga reclamizzato, che non se ne parli sui mezzi di informazione; se in maniera infantile nascondi i manifesti, allora vuol dire che non stai amministrando un Paese, stai semplicemente facendo come quei bambini che, quando le cose cominciano a non andare più come volevano, prendono il pallone sotto braccio e se ne tornano a casa. Con l’unica differenza che però, a forza di comportarsi così e portarsi via il pallone, a casa rischi che ti ci mandino gli altri.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Condivido in pieno. Aggiungo che alla disaffezione contribuisce anche la politica quando assume decisioni in aperto contrasto con i risultati delle consultazioni. Esempio lampante (non l'unico): il finanziamento pubblico dei partiti, abolito con referendum e diventato "rimborso elettorale".
Di questa tornata mi è piaciuto poco il tema in sé, soprattutto i quesiti sul lavoro, troppo complessi. Ho apprezzato molto invece il dibattito sullo strumento, il referendum, che sarebbe ora di aggiornare.
Concordo circa la riflessione sul referendum. Unico appunto: quelli che rimangono a casa in genere sono quelli che si sono stancati di giocare con il ragazzino capriccioso. I pessimi politici sono ancora lì, sebbene incapaci.