L'Europa azzopperà le vendite di iPhone 16?
Apple Intelligence, la più grande innovazione degli ultimi anni, per il momento non arriverà in Europa per via del DMA. A rischio c'è quindi la funzionalità più interessante del prossimo iPhone 16.
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» PENSIERI FRANCHI: Ma quale intelligenza artificiale, senza l’uomo è solo un giocattolo tecnologico
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale, i miei pensieri in libertà. Se stai cercando l’approfondimento che dà il titolo a questa Insalata, prosegui un po’ più in giù.
Uso ChatGPT da parecchio, soprattutto per lavorare. Per chi non lo sapesse, ChatGPT è la chat basata su un modello di linguaggio particolarmente evoluto, a cui si può chiedere qualsiasi cosa. Non solo capisce tutto, ma risponde su qualsiasi argomento con un italiano perfetto. Non sempre dice la verità, ma di questo abbiamo parlato già diverse altre volte.
L’utilizzo questi strumenti richiede una certa abilità, questo è evidente, nonostante in passato abbia criticato fortemente chi ci marcia un po’ sopra professandosi esperto o ingegnere di questa o quell’altra capacità di fare domande. Ma le abilità richieste non sono appunto quelle di saper porre bene le domande. O meglio, anche quelle, certamente, ma non soltanto quelle.
Me ne sono accorto bene quando in settimana, per pure diletto, mi sono voluto cimentare con una sfida personale. Era sera e aspettavo uno dei miei figli nella mia auto, trasformata per l’occasione nel mio bat-ufficio mobile. E così, con Tintoria a farmi compagnia sullo smartphone, ho aperto il notebook e ho cominciato a fare domande a ChatGPT.
Dopo un’ora, avevo realizzato un piccolo gestionale di produzione. Non sto scherzando, un piccolo gestionale web, scritto in PHP e MySQL, che permette la creazione di anagrafiche di prodotto, ubicazioni di magazzino e ordini di produzione e che poi permette anche di fare dei versamenti di produzione in determinati depositi (se non capite nulla di quello che ho scritto e non conoscete il linguaggio della produzione, non preoccupatevi, non è importante per arrivare al nocciolo della questione).
Sono tornato a casa eccitato come un bambino a cui viene regalato il giocattolo che sogna da tempo. Il mattino dopo, appena sveglio, ho continuato a lavorarci su, correggendo gli errori e dandogli un’interfaccia grafica più facile da usare e attraente. Quando ho terminato, ne ho parlato con qualche collega, raccogliendo per lo più commenti spaventati, tipo “per noi sviluppatori ora è davvero tutto finito”.
Ho ragionato quindi su quest’ultimo fatto e sulla possibilità che realmente ChatGPT potesse distruggere una delle figure professionali più richieste in tutto il mondo, soprattutto negli ultimi anni. Sono arrivato anche a pensare al futuro dei miei figli, che ho energicamente spinto in questa direzione. Ci sarà un futuro per i programmatori e gli sviluppatori tra cinque anni, quando con ChatGPT si potrà addirittura parlare come si parla con un essere umano? (spoiler: si può già fare, la funzionalità è in beta e funziona già molto bene).
Alla fine mi sono risposto di no. Ho analizzato infatti il processo che mi ha portato al risultato che ho ottenuto e ho capito una cosa fondamentale: pur non essendo sviluppatore, ho dei rudimenti di programmazione e conosco abbastanza bene i meta linguaggi più comuni. Queste conoscenze, seppur scarse, unite a una buona capacità personale di saper porre domande in modo puntuale e circostanziato, mi hanno permesso di fare le richieste giuste e di saper valutare, leggendo il codice, se la risposta era pertinente alla domanda.
In tutto il processo, la parte di competenze personali ha avuto un peso centrale, seppur non abbia creato direttamente il codice che poi ho utilizzato. Mi sono quindi paragonato, con un po’ di presunzione, al mestiere del produttore di dischi, che seppure non saprebbe comporre il disco dell’anno o il tormentone estivo, di sicuro sa riconoscere un probabile successo e può contribuire a renderlo tale mettendoci una competenza che nel processo produttivo di un brano di successo è fondamentale.
Ecco quindi cosa diventeremo grazie all’aiuto delle intelligenze artificiali: un po’ meno artigiani e un po’ più produttori. Magari perderemo per questo la capacità pratica di saper scrivere codice, ma potremmo dedicare il nostro impegno e il nostro lavoro a pensare strumenti realmente efficaci, senza essere costretti a perdere tempo prezioso sulla grammatica del codice. Pensate soltanto quante più persone avranno così accesso alla possibilità di creare software e applicazioni. Pensate dunque quanti più strumenti avremo nei prossimi anni grazie al fatto che molte più persone potranno sviluppare senza più i limiti delle conoscenze di questo o quel linguaggio di programmazione.
Ecco, le intelligenze artificiali cambieranno per sempre il mondo e l’umanità, ma solo grazie all’aiuto dell’uomo stesso, non al suo posto.
Buona lettura.
Franco A.
» APPLE INTELLIGENCE NON ARRIVERÀ IN EUROPA, PER ORA
Il 10 giugno appena trascorso, si è svolta una delle conferenze più importanti dell’anno nell’ambito tecnologico. Si tratta della WWDC di Apple, la conferenza dedicata agli sviluppatori in cui l’azienda mostra i nuovi sistemi operativi e le nuove funzionalità software con cui evolverà i propri dispositivi.
Quest’anno la conferenza era un po’ più attesa del solito, perché in un mondo che ci parla tutti i giorni delle novità portate dall’intelligenza artificiale, Apple non aveva ancora detto la sua. Come sempre, l’azienda che fu capitanata da Steve Jobs, ha dei tempi più lunghi rispetto ai competitor. Quando si tratta di abbracciare una tecnologia già presente sul mercato, arriva sempre con dei tempi piuttosto comodi, perché cerca di farlo dando un’impronta personale che la distingua dal resto del mercato.
Così è stato e difatti quella che chiamiamo con l’acronimo AI, che sta per Artificial Intelligence, in Apple è diventata (ovviamente) Apple Intelligence. Che poi è un meccanismo simile a quello di Forza Italia, il partito politico: prendi un termine comune e fallo tuo. Quale miglior modo di appropriarsi di una cosa comune?
Cos’ha combinato Apple questa volta?
Al di là delle polemiche - perché in fondo da Apple te lo aspetti - Apple Intelligence è davvero qualcosa di nuovo e capace di segnare un passo avanti importante sia nel mondo dei dispositivi connessi, sia nel modo di usare le intelligenze artificiali.
Questo perché Apple è meglio di tutti gli altri? No, semplicemente perché può contare, unico caso nel mondo dei dispositivi tecnologici, su un ecosistema molto interconnesso. Apple produce uno smartphone (computer, smartwatch e tutto quello che sapete), il processore e altro hardware con cui sono fatti, il sistema operativo che gli permette di funzionare e una buona parte dei software che ci girano sopra. È chiaro che nessuno come Apple, oggi come oggi, può permettersi di innovare in un certo modo. O quantomeno di imporre le proprie innovazioni a un pubblico piuttosto ampio. Perché se hai un dispositivo Apple, la novità del momento te la becchi un po’ per forza e questo, alla fine, è al centro del problema di cui parliamo, il cosiddetto monopolio.
E difatti, lo vedremo tra poco, questo enorme predominio che ha costruito le si è ritorta un po’ contro. Per l’Europa tutto ciò non si può fare, perché bisogna sottostare alle regole del mercato e quindi aprire tutte le funzionalità più importanti anche alle aziende terze parti. Cosa che Apple non vuole fare, perché alla base di Apple Intelligence c’è il discorso della privacy, di cui Apple ha fatto da anni il suo cavallo di battaglia a livello di comunicazione e marketing.
In che cosa consiste Apple Intelligence e perché è differente dagli altri
Il primo punto che distingue Apple Intelligence da tutte le altre intelligence artificiali (Copilot di Microsoft, GPT di OpenAI, etc.) è che è contestualizzata con i dati presenti sul telefono. Il modello quindi non conosce soltanto quello che ha letto in giro per internet o chissà dove, ma conosce molto bene quello che abbiamo dentro lo smartphone e può utilizzarlo per darci informazioni o aiutarci in quello che dobbiamo fare.
Questo fatto rappresenta un grandissimo passo in avanti, perché possiamo chiederle tante cose senza dover fare prima mille premesse a riguardo. Apple Intelligence, per esempio, saprà dove abito, dove mi sposto di solito la mattina, che ho due figli e una moglie e dove sono stato in vacanza.
Pensate ai suggerimenti che (con non poca fatica) ogni tanto vi dà Siri. Vi suggerisce dove andare prima che impostiate il navigatore o quale app aprire. Ecco, tutto questo diventerà preistoria con l’innesto di un modello di apprendimento di questo genere.
Ecco qui dunque che si apre la questione della privacy. Non saprà troppe cose di me? Dove vanno a finire questi dati? Apple dunque ci rassicura subito: i dati vengono elaborati quasi esclusivamente in locale, grazie alla potenza del Neural Engine da lei stessa studiato. E per tutto ciò che ha necessità di essere inviato a dei server in cloud, ha studiato un sistema proprietario con cui i dati che vengono inviati vengono ripuliti dai dati personali. Il server nel cloud che elabora queste informazioni, tra cui quelli di OpenAI (Apple ha stabilito una partnership con OpenAI per l’uso di GPT), in altre parole, viene messo a conoscenza delle informazioni da elaborare, ma non dei riferimenti personali.
Bene, ben fatto Apple. Hai evoluto il concetto di intelligenza generativa e dell’assistente personale preservando anche la privacy dei miei dati. Peccato solo che, come fai di solito, hai reso tutto questo non accessibile anche ad altri produttori e quindi, stando al Digital Markets Act Europeo (DMA), non puoi farlo.
I grattacapi di Apple in Europa
I problemi di Apple con l’Europa, del resto, non iniziano qui. Già lo scorso marzo, Apple aveva dovuto rilasciare un aggiornamento del proprio sistema operativo mobile iOS (quello di iPhone) per permettere l’installazione di app store alternativi al suo. Faccio un minimo di contesto: su iPhone potevi installare le applicazioni soltanto utilizzando l’AppStore di Apple, che in questo rappresentava un monopolista totale.
Il problema è che questo controllo centralizzato di tutto quello che viene (veniva) pubblicato su iPhone è anche una delle ragioni per cui gli utenti Apple scelgono quel prodotto: le app infatti vengono selezionate e validate da un processo “umano”, che in qualche modo cerca di filtrarle e di controllare che non facciano cose che non devono. Poi ok, questo controllo non è sempre efficace al 100%, però il principio è questo.
Permettere l’installazione di app da fonti sconosciute o da app store alternativi, oltre che far perdere dei soldi ad Apple stessa, permetterebbe l’ingresso anche di app malevole, il cui comportamento esce fuori dai radar di Apple e quindi, in qualche modo, potrebbe rappresentare un problema per la privacy e la sicurezza.
Da marzo, quindi, per aderire al DMA europeo, anche su iPhone è possibile installare app store alternativi. A oggi se ne contano 4 (per chi fosse interessato, ne ha parlato sempre theverge.com). Solo 4? Certo, perché Apple ha accettato si la decisione dell’Europa, ma ha anche reso la vita piuttosto difficile a chi vuole aprire uno store alternativo, non pensiate che sia facile come pubblicare un’app.
Perché potrebbe essere il prossimo grande fallimento di Apple
Quando si parla di Apple, ci viene in mente un’azienda solida, che porta a casa esclusivamente grandi successi e che tutto quello che lancia viene venduto in milioni di pezzi. Non è ovviamente così. Non lo è stato nell’era pre-Jobs, quando l’azienda ha rischiato di chiudere; non lo è stato durante l’epoca in cui a guidarla c’era Steve Jobs, quella ritenuta più fortunata, quando il caso Antennagate mise in crisi seriamente la validità del suo prodotto di punta, ormai già divenuto una gallina dalle uova d’oro (caso poi gestito talmente bene che si fa fatica a ricordarsene); non lo sarà nemmeno con l’epoca più razionale e misurata, ma mai così miliardaria, dell’attuale gestione Cook.
È stata proprio la testata MacWorld.com, non certo una testata faziosa e ostile per sua natura, a raccogliere alcuni dei grandi fallimenti di Apple. Nel suo non lunghissimo elenco, Jason Snell elenca per esempio Apple Pay Later, il servizio di rateizzazione breve mai arrivato da noi (qualcosa che doveva somigliare a Klarna o PayPal 3 rate); seguono altri due servizi finanziari che non sono mai usciti fuori dagli Stati Uniti, segno che non hanno avuto il successo sperato: Apple Card, la carta di credito di Apple, e Apple Cash, che serve a inviare o ricevere denaro a chiunque (sulla scia di Satispay o altri servizi simili). Alcuni di questi servizi hanno compiuto ormai cinque anni senza tuttavia uscire mai da una specie di fase beta. Segno che non se la passano benissimo.

Accanto a tutto ciò, c’è proprio l’enorme questione DMA. Si calcola infatti che gran parte degli sforzi di Apple dell’ultimo anno, siano stati impiegati per realizzare quello che l’Europa ha chiesto: la possibilità di aprire il sistema operativo ad altri operatori. Ora che tutto ciò è possibile, ecco arrivare anche il Giappone, che ha seguito l’esempio europeo varando una legge che segue pari pari il DMA e che vuole quindi rompere il duopolio di Apple e Google permettendo l’installazione dei app store alternativi e gestori di pagamento differenti da quelli predefiniti.
Se a tutto ciò dovesse aggiungersi anche una versione personalizzata per il mercato europeo di tutte le novità annunciate all’ultimo WWDC, tra cui quello che dovrà essere il futuro driver di vendite dei nuovi iPhone, ovvero Apple Intelligence, beh per Apple potrebbe essere un grattacapo non da poco.
Privacy vs funzionalità: da che parte stiamo?
Provate però a parlare con un possessore di iPhone, un possessore consapevole di quello che ha acquistato, non un utente che l’ha comprato perché “figo”. Con tutta probabilità vi dirà - e velo dico anche io - che l’ha acquistato proprio perché è stato creato con i limiti che oggi l’Europa vuole scardinare.
Il fatto che app store di terze parti non possano entrare su un dispositivo blindato, c’è da poco da star lì, ha dei vantaggi enormi. Il primo tra tutti è la sicurezza, difficilmente un’app potrà fare quello che Apple non ha preventivamente previsto, perché non solo tutto quello che gira su iPhone è stato realizzato con gli strumenti che ha creato Apple stessa e ha accesso soltanto a porzioni molto precise della memoria del telefono, ma deve poi anche passare i controlli dell’azienda quando viene pubblicato.
Se manca questo pezzo del controllo, ovvero Apple che verifica, viene meno uno dei principi di sicurezza per i quali una certa fetta di utenti scelgono iPhone. Ora, mettiamo però i famigerati puntini sulle “i”: anche cedendo alle richieste dell’Europa, Apple ha comunque permesso a chi volesse continuare ad avere il proprio iPhone libero da store alternativi la possibilità di farlo. Anzi, di base l’utente non dovrà fare proprio niente. Se si desidera installare uno store di terze parti, bisognerà farlo coscientemente: andare sul sito dello store e accettare diversi avvisi. Si legge sulla documentazione ufficiale a questo proposito:
Le app installate tramite piattaforme alternative vengono sottoposte a un processo di autenticazione per garantire che ciascuna di esse soddisfi gli standard di base per l'integrità della piattaforma, ma spetta a ogni distributore di app alternativo esaminare le app in conformità ai propri processi e policy.
iPhone, iOS e l'App Store fanno parte di un sistema integrato progettato per proteggere la sicurezza e la privacy dell'utente e offrire un'esperienza utente semplice e intuitiva. Per le app scaricate utilizzando distribuzioni di app alternative, alcune opzioni potrebbero non funzionare come previsto. Opzioni come le restrizioni sugli acquisti in-app in Tempo di utilizzo, la condivisione degli acquisti con il gruppo In famiglia e Chiedi di acquistare non sono supportate perché l'App Store e il suo sistema di acquisti in-app privato e sicuro non facilitano gli acquisti in distribuzioni di app alternative. Tempo di utilizzo, i controlli parentali e Spotlight continuano a funzionare e a mantenere gli standard di sicurezza e privacy di Apple.
Perché l’Europa se la prende con l’azienda più attenta alla privacy?
Arrivati a questo punto, però, a qualcuno potrebbe venire voglia di chiedere: ma perché l’Europa se la prende con l’azienda più attenta ai dati dei propri utenti, che tra l’altro non fa business con i dati stessi, a differenza di tutti gli altri (Alphabet con Google, Meta con Facebook, Instagram, WhatsApp e Threads, ByteDance con TikTok, etc.) che invece basano tutto il loro business sui dati degli utenti e la vendita di pubblicità targettizzata?
Occorre ricordare innanzitutto che non è così vero che Apple non vende pubblicità. È certamente vero però che non usa intensivamente i dati degli utenti per vendere pubblicità targettizzata, questo no. Dire però che Apple non vende pubblicità non è corretto. Anzi, nei prossimi anni ne venderà sempre di più, ne parlai già in una vecchia Insalata Mista.
Certo, Apple non vende pubblicità basata sui dati degli utenti, questo fa un’enorme differenza rispetto alle altre aziende. I dati personali degli utenti sono criptati sul dispositivo, in locale, e non vengono caricati in chiaro sui server di Apple stessa. Ma quindi, se Apple è così attenta ai dati dei propri utenti tanto da farne la principale arma di comunicazione (e di marketing) degli ultimi anni, come mai viene presa di mira dall’Unione Europea?
C’è di base una caratteristica di Apple che poteva funzionare bene anni fa, quando era una grande azienda che non aveva però ancora toccato le vette delle prime aziende al mondo per capitalizzazione. Poi quel primato l’ha raggiunto e oggi perduto, ma è pur sempre la seconda, schiacciata tra Microsoft e Nvidia, altre due aziende sotto il mirino della Comunità Europea. Se prima tendeva ad avere atteggiamenti monopolistici, che tuttavia avevano un’influenza limitata sul mercato, oggi ogni chiusura verso aziende terze viene analizzata e spesso sanzionata.
Anche perché, al crescere dei numeri, crescono anche gli interessi in ballo. Dobbiamo infatti ricordare come il DMA sia nato proprio sulla scorta di diverse cause intentate contro Apple, proprio in virtù del monopolio esercitato tramite il suo App Store. Ci provò (e ci riuscì) prima Spotify, lamentando il fatto che Apple tratteneva in maniera “ingiustificata” (secondo Spotify) il 30% dei suoi abbonamenti, per arrivare allo scontro con Epic Games per la distribuzione del suo titolo di punta, Fortnite, che infatti venne bannato da App Store (e da Google Play Store). È tutt’oggi un enorme, grande assente, che tornerà sui iPhone nel 2025, anno in cui Epic lancerà il suo app store.
Insomma, il principio europeo sembra chiaro: che siano gli utenti a scegliere se usare lo store ufficiale o meno, ma che abbiano sempre la possibilità di farlo. Prima, gli utenti iPhone non potevano scegliere - anche se la scelta principale l’avevano già fatta acquistando un iPhone - oggi invece possono farlo. Peccato che questa scelta stia drenando risorse e forse anche la capacità innovatrice di Apple.
Vedremo come andrà con le novità di Apple Intelligence, che è strettamente legata al sistema operativo e alle sue funzionalità di base. L’Europa vuole che tutto sia accessibile anche da terze parti, Apple tenterà come sempre di resistere, ma quasi certamente cederà (troppo goloso il nostro mercato da mezzo miliardo di utenti), impegnando ancora altre risorse nel cercare di mediare tra quello che è il proprio DNA e il DMA, ovvero le richieste dell’Europa. A cosa porterà tutto questo? Sarà all’origine di un grande fallimento per l’azienda americana o renderà semplicemente il suo ecosistema più equo e aperto a tutti?
La risposta, come sempre, non ce l’abbiamo, ma dovrebbe comunque arrivare fra non molto. Apple Intelligence è una delle grosse novità dei nuovi iPhone, tolta la quale manca la spinta propulsiva per le vendite dei futuri iPhone 16. Sarà bene quindi che una decisione venga presa in fretta e una soluzione trovata anche prima.
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Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Buongiorno Franco, buongiorno a tutti. Grazie per quanto scrivi e per l'eclettica curiosità che susciti in chi ti legge.
No amo Apple per mille motivi che non sto qui a dettagliare, però un dubbio ce l'ho riguardo DMA. l'Europa ci protegge o ci controlla?
Da un articolo su Wired https://www.wired.it/article/capitalismo-della-sorveglianza-monopoly-doctorow/
"...Apple e la sua capacità di ospitare un unico app store, il suo, all’interno dei propri dispositivi (esclusiva ora in parte negata dal Digital Services Act dell’Unione Europea): “Le decisioni di Apple in materia di posizionamento nelle ricerche hanno un effetto molto più significativo sui comportamenti dei consumatori rispetto alle campagne di influenza dei bot pubblicitari del capitalismo della sorveglianza”, segnala Doctorow, riferendosi alla libertà del colosso di Cupertino di decidere quali applicazioni rifiutare (con ripercussioni anche politiche, come nel caso dell’eliminazione della app che tracciava le uccisioni commesse dai droni statunitensi) e a quali dare visibilità."