Cos'è la Revenge Bedtime Procrastination
È una brutta abitudine legata ai ritmi frenetici con i quali dobbiamo fare i conti, nonché con l'ossessione del lavoro e per le performance. Ma quali sono le vere cause dietro questi comportamenti?
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La parola di oggi: TABP, o Type A Behavior Pattern, tipicamente caratterizzato da individui altamente competitivi, ambiziosi, orientati al lavoro, attenti al tempo e aggressivi, è stato oggetto di ricerca per più di 50 anni. Il concetto è stato sviluppato alla fine degli anni '50 dai cardiologi americani Meyer Friedman e Ray Rosenman, che sostenevano che TABP era un fattore di rischio per la malattia coronarica (CHD), in particolare tra gli uomini bianchi della classe media (da National Library of Medicine)
» PENSIERI FRANCHI: Non può essere un capolavoro se sei donna
Nei giorni di Pasqua, complice l’arrivo su diverse piattaforme di streaming, sono riuscito finalmente a guardare “C’è ancora domani”, il film di Paola Cortellesi che è diventato un caso cinematografico, piazzandosi nel primo weekend al primo post dei film più visti nel 2023 (e poi ci è rimasto).
Il film della Cortellesi è prima di tutto un film che è stato capace di innescare una spirale di viralità che ha portato al cinema più persone di quelle che normalmente sarebbero state attratte da una pellicola che, in ogni caso, tratta una tematica seria, drammatica, non certo adatta a passare un paio d’ore spensierate. Il film è diventato un vero fenomeno, andando addirittura in controtendenza col passare delle settimane e ha riscosso un successo inaspettato anche all’estero.
Il linguaggio utilizzato dalla Cortellesi ha permesso alla pellicola di non risultare mai eccessivamente pesante, ma al contrario leggera, a volte divertente e dolcemente amara. Il film, come tutte le grandi opere di grandi artisti, è stato capace di fare quello che pochissime opere sanno fare: arrivare a tutti, non soltanto agli esperti del settore.
Non sono però qui a fare la mia recensione positiva del film, tutt’altro. Quello che ho notato - e che mi ha portato a ragionare sulla cosa - è un livello di critiche anomalo sui social network. Il film è stato accolto generalmente in maniera positiva dalla critica1, seppur con qualche appunto su alcuni aspetti. Per carità, ci sta, è pur sempre un’opera prima. Tuttavia, il tono della parte di popolo che non ha apprezzato il film non si è limitato al semplice sottolineare quello che non andava nel montaggio, nella sceneggiatura o in certe scelte narrative che hanno evidenziato anche le recensioni. Si è andati oltre, si è arrivati al “la Magnani si sta rivoltando nella tomba”, “film sopravvalutato, la solita cricca dei salotti romani”, “la sinistra radical-chic che si incensa da sola” (quanto tempo che non sentivo il termine radical chic).
Commenti che hanno abbassato notevolmente il livello dopo la notizia della candidatura del film a ben 19 David di Donatello. Sapete chi c’è al secondo posto come numero di candidature? Matteo Garrone, autore del meraviglioso “Io, capitano”. Garrone, romano anche lui, ha realizzato un film che racconta in maniera cruda e asciutta la devastante odissea che vivono i giovani africani per arrivare sulle nostre coste. Un tema “de sinistra”, come direbbe qualcuno. Eppure, pur ottenendo “Io, capitano” un enorme successo - tanto che si sperava potesse vincere l’Oscar come miglior film straniero - non ho notato la stessa ondata di commenti negativi che ho letto a proposito di “C’è ancora domani”.
Mentre guardavo il film della Cortellesi ci sono stati molti momenti in cui la mia mente ha divagato. Mi sono venute in mente scene, persone, amici di famiglia. Vecchie storie (ma nemmeno tanto vecchie) di cui ho sentito parlare. Di mogli picchiate dal marito, di lividi nascosti, di frasi come “ma lasciala stare poverina, a quella il marito je mena”. Storie di dieci, vent’anni fa, non di settanta, come quella raccontata dal film. E allora ho pensato che, a spingere l’esercito degli odiatori social, quasi sempre maschi adulti, deve essere stato qualche retropensiero, qualche scheletro nell’armadio o qualche ricordo spiacevole.
Perché in fondo, lo dimostrano anche le reazioni a questo film, col patriarcato in Italia dobbiamo ancora farci bene i conti. E quando arriva un bel film - che obiettivamente lo è al di là dell’essere capolavoro o meno - fatto da una donna, che racconta la resistenza delle donne a quel continuo e costante tentativo di repressione che da secoli adottiamo nei loro confronti, qualcosa ci fa male. Qualcosa di va di traverso. “Bello sì, però…”. “La Magnani era un’altra cosa”. Certo, è morta, per forza.
Buona lettura.
Franco A.
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» LA VENDETTA DI NON DORMIRE MAI
Tempo fa scrissi due Insalate sul fatto che lavoriamo troppo (vi metto il link più avanti). Questa cultura del lavorare tanto è bello porta inevitabilmente ad avere poco tempo per sé stessi e quando si è giovani, non avere tempo per sé stessi, giustamente, pesa. Anche quando si è meno giovani in effetti.
Un sondaggio riportato dalla testata cinese Caixin Global, ha rivelato che in Cina le persone hanno mediamente 2,42 ore di tempo libero al giorno, che è più o meno il tempo che serve per mangiare ed espletare le proprie funzioni fisiologiche. Dunque, di fatto, si lavora e si dorme. In Cina poi è molto diffuso il modello 996, osannato dai grandi imprenditori locali come Jack Ma e Richard Liu: si lavora dalle 9 di mattina alle 9 di sera, 6 giorni a settimana.
Da tutto ciò, si capisce come di tempo per fare qualcosa che abbia a che fare con lo svago ce ne sia ben poco. Il tempo per leggere un libro, per guardare un film, per fare una partita con un videogioco o semplicemente per stare in compagnia con la propria metà o con gli amici. Ci si priva della socialità e dello svago, in due parole.
Lavorare, mangiare e dormire. Un ciclo chiuso che trasforma la vita in un unico tunnel senza alcun spiraglio di luce, di socialità. Ovvio che poi uno comincia a vivere scandendo il countdown per il weekend e trasforma la propria vita in un continuo salto tra un fine settimana e l’altro, cercando di cancellare completamente quello che c’è in mezzo. Oppure, come fanno in molti, cerca di ricavarsi del tempo lì dove tempo non c’è. E dove lo vai a prendere il tempo se non ce l’hai? Togliendolo ad altre attività, chiaramente. E qual è l’unica attività a cui puoi togliere del tempo senza che nessuno ti licenzi? Il sonno, ovvio.
Revenge Bedtime Procrastination, ovvero fregarsi da soli
Gli americani hanno una definizione e un acronimo per tutto. Quando ho sentito parlare per la prima volta di RBP, Revenge Bedtime Procrastination (ovvero la vendetta del rimandare il momento in cui si va a dormire), ho cercato di capire di cosa si trattasse e ho scoperto un marea di articoli sull’argomento, anche sulla stampa italiana. Il che mi ha lasciato perplesso, perché di solito sono piuttosto aggiornato sulle tendenze del momento.
La bedtime procrastination poi è un concetto che si capisce facilmente: andiamo a dormire sempre più tardi, è un dato di fatto. Ma cosa c’entra la vendetta? La vendetta c’entra perché andare a dormire tardi è una presa di posizione contro il fatto che il lavoro e gli altri impegni ti tolgono il tempo da dedicare ai tuoi passatempo e dunque ti ribelli e ti prendi la tua vendetta. Non dormendo.
Messa giù così sembra una cosa da scemi, perché poi le conseguenze della privazione del sonno le conosciamo tutti e sono tutte molto preoccupanti (problemi cardiovascolari, ipertensione, diabete di tipo 2, depressione, ansia, etc.). Ciononostante il sottoscritto è uno di quelli che rientrerebbe perfettamente in questa definizione. Quando finisco di lavorare al computer alle 23 e non ho fatto altro tutto il giorno, so che dovrei andare a dormire. Eppure mi dico “ma posso concludere questa giornata senza nemmeno aver letto una pagina di libro o un articolo?”. E così mi faccio forza e rimango sveglio ancora un’ora o più. Mi prendo la mia vendetta, ma contro chi sto lottando veramente?
Le vere ragioni dello scarso tempo a disposizione
La verità è che non ci si dovrebbe mai ridurre a lavorare una quantità di ore senza senso. In Italia poi, per fortuna, il 996 cinese non si può fare. Nemmeno lì a dirla tutta, ma diciamo che forse in occidente è più difficile che un’azienda te lo faccia fare senza subire conseguenze. O almeno mi piace pensarlo.
Poi però c’è un folto gruppo di cittadini che lavora in proprio, o che fa due lavori, o che lavora e studia. Ecco, per tutti questi l’orario lavorativo salta completamente. Il weekend con due giorni liberi diventa un miraggio.
È pur vero che queste persone - e sto parlando anche a me stesso - si tirano addosso gli impegni come fosse miele per gli orsi. Altrimenti, se sei così pieno di lavoro, non ti vai a cercare anche una newsletter da scrivere durante il weekend, giusto? Ma questa la facciamo rientrare negli hobby da fare nel tempo libero, dai.
Dovremmo quindi tornare a parlare di workaholism - sempre per tornare al fatto che gli americani hanno un termine per tutto - ovvero alla dipendenza da troppo lavoro. Vi racconterò un fatto personale: quando ero ventenne, in uno dei primi lavori che feci, mi trovai a pensare che mai avrei potuto lavorare più di così. Lavoravo in un negozio e dunque facevo le classiche 8 ore.
Da lì in avanti c’è sempre stata una progressione: inizi a sacrificare il sabato mattina, poi tutto il sabato, poi ti metti al computer dopo cena una volta, poi due, infine tutti i giorni, finché non rifletti che forse anche un pezzetto della domenica, in fondo, potresti passarla a guardare le email velocemente, così ti eviti di dover passare il lunedì mattina a rispondere a tutti.
È una vera e propria dipendenza quella da lavoro, soprattutto quando lavori in proprio e il legame lavoro = soldi è più forte che non quando lavori con un contratto da dipendente. Nonostante ciò mi capita spessissimo che persone che lavorano come dipendenti mi rispondano alle email in orario extra lavorativo. Così come mi capita spesso di incrociare persone che, pur potendo fare le classiche 40 ore settimanali, si trovino altri impegni lavorativi extra, come seguire la vita politica del comune dove abitano, oppure un’associazione di quartiere, oppure un’associazione di volontariato o altro ancora. Sembra quasi che ci sia un’urgenza, quasi un’ossessione per il fatto di doversi sentire impegnati a tutti i costi.
E qui torniamo alla considerazione sociale del lavoro come fatto nobilitante. Se fai tante cose e sei tanto impegnato allora è bene, se passi tanto tempo con la famiglia, con gli amici o semplicemente rilassandoti, è male.
Se non hai tempo, forse hai la TABP
Spesso mi ripeto che, a meno che tu non faccia il chirurgo o qualche altro mestiere analogo, nessuna vita dipende da te e da quello che fai. Dunque se quello che stai facendo non sarà pronto per tempo, in realtà non succederà nulla. È pieno il mondo di lavori o eventi che vengono rimandati senza che succeda nulla di grave. Persino le produzioni mondiali da centinaia di milioni di dollari (film, giochi, eventi) vengono rimandate di interi anni senza che nessuna persona perda la vita per questo (di solito).
Bisognerebbe ripeterselo un po’ più spesso per calibrare in maniera più saggia il rapporto tra lavoro e vita personale, senza arrivare per questo a togliere ore al sonno che poi, lo sappiamo, ci porterà ad avere ripercussioni sulla salute e addio super prestazioni. Cioè se muori, per dircelo chiaramente, poi non lavori più.
Scrive Guido Sarchielli, professore emerito di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna, su psicologiacontemporanea.it:
«[…] in generale, i maniaci del lavoro tendono ad essere più coscienziosi e nevrotici, ma tali relazioni sono relativamente deboli e con una forte variabilità tra gli studi. Connessioni più sistematiche sono emerse con caratteristiche disposizionali orientate al raggiungimento dei risultati, quali: il bisogno di riuscita, l’auto-efficacia e la personalità di tipo A (iper-competitività, impazienza, eccessiva autocritica, ostilità verso gli altri). Ci sono correlazioni anche con il perfezionismo, il narcisismo (egocentrismo e senso di superiorità), la paura del fallimento, la bassa stima di sé, e in particolare la centratura su un’immagine di sé costruita quasi esclusivamente sul proprio livello di rendimento».
Ora, non so voi, ma la descrizione del prof. Sarchielli a me torna tantissimo e anche se è sempre imbarazzante riconoscere di avere un disturbo di qualche tipo, è pur sempre un buon inizio per uscirne fuori.
Non vi sarà sfuggito infatti quel personalità di tipo A, che non è una segmentazione buttata lì. Come sempre, l’Insalata è anche una scusa per andare a fondo nelle cose e farmi anche un po’ di analisi personale a basso costo. Ho scoperto quindi che le persone con Type A Behaviour Pattern (TABP) vivono in una costante competizione contro sé stessi e contro il tempo.
Negli anni '60, due cardiologi della California, Rosenman e Friedman, notarono che alcuni dei loro pazienti esibivano un insieme specifico di comportamenti ed emozioni, tra cui ostilità, eccessiva competitività, impazienza e una costante sensazione di mancanza di tempo.
Questi tratti furono osservati inizialmente in un gruppo denominato Gruppo A, scelto dai leader aziendali della Baia di San Francisco per queste caratteristiche. Al contrario, il Gruppo B era composto da individui dal comportamento accogliente e disteso. I tratti del Gruppo A, denominati in seguito comportamenti di Tipo A (TABP), furono collegati a un'alta incidenza di malattie coronariche e ai loro fattori di rischio convenzionali come l'ipertensione, l'alto colesterolo e il fumo.
Nel 1974, Friedman e Rosenman descrissero il comportamento di Tipo A come un "sistema emozione-azione" caratterizzato da un'incessante lotta contro il tempo e da un'aggressività sottile, non ritenendo questi tratti legati alla personalità per evitare temi al di fuori della loro competenza e per enfatizzare la possibilità di reversibilità e di interventi terapeutici o preventivi.
Secondo il sito psicoterapiascientifica.it, le caratteristiche della TABP sono composte da più aspetti che possono essere manifesti o latenti, come per esempio:
Insicurezza e scarsa autostima. Gli individui con comportamento di tipo A nascondono la loro bassa autostima dietro un'apparenza di sicurezza, percependo le critiche come attacchi personali e impegnandosi eccessivamente nelle attività per compensare.
Iper-Competitività. Le persone di tipo A usano la competizione per rafforzare la propria autostima, cercando di dimostrare la propria superiorità sugli altri.
Senso dell’incalzare del tempo. Manifestano impazienza e un costante senso di urgenza, fissando scadenze irrealistiche e non gestendo bene gli imprevisti, il che può ridurre la qualità del loro lavoro e ulteriormente abbassare la loro autostima.
Ostilità liberamente fluttuante. Esprimono un'ostilità pervasiva per stimoli minori, suddivisa in potenziale ostilità e rabbia trattenuta, mostrando difficoltà nell'esprimere costruttivamente la rabbia.
Determinazione e Decisione apparente. Apparentemente decisi e determinati, ideali per ruoli di leadership, in realtà possono avere problemi nella delega e nell'accettare richieste a causa della loro scarsa opinione degli altri.
La soluzione è sempre l’equilibrio. Ma va?
Alla fine la soluzione è sempre e solo una: l’equilibrio. Certo, lo so che se fosse facile vivremmo tutti delle vite perfette, senza la necessità di coniare nuovi termini che ci spiegano il perché forse soffriamo di un disturbo della personalità.
Il prof. Sarchielli però, tra i trattamenti che possono essere utili contro la dipendenza da lavoro (ed evitare poi di vendicarsi privandosi del sonno), ne suggerisce due che voglio condividere con voi:
Il primo riguarda la riflessione sui fattori personali più profondi alla base dello stato di dipendenza. Lo abbiamo appena fatto, poi non dite che l’Insalata non vi è utile.
Il secondo invece riguarda le “forme di rilassamento antistress e di meditazione (come la mindfulness)”. La Mindfulness è un qualcosa che ho sempre bistrattato troppo, persino quando lo smartphone, da qualche aggiornamento a questa parte, mi propone di riflettere sulla giornata trascorsa.
Ho sempre invidiato i fumatori per questo. Sapete quelli che, nel mentre di una discussione importante, si allontanano per fumare una sigaretta in solitudine e poi tornano con la soluzione? Ecco, sotto sotto ho sempre invidiato quei due minuti di riflessione personale. Se volete - adesso la sparo - la sigaretta è la mindfulness ante litteram, ma non prendetelo come il tentativo maldestro di riabilitare il tabagismo come forma di consapevolezza interiore, sia chiaro.
Che sia per fumare o per soddisfare le richieste del proprio smartphone, forse prendersi qualche minuto per riflettere sulla giornata e su quello che facciamo è importante più di qualsiasi momento sociale o scadenza da rispettare. Anzi, forse vale la pena di imporselo.
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L’articolo parla di come quelli che dovevano essere dei social network, ovvero delle piazze virtuali, si sono ridotti a essere semplicemente spazi per l’intrattenimento e per gli affari di chi si occupa di marketing. E poi è pieno di dati e considerazioni interessanti. Ve lo consiglio.
» CONSIGLI PER L’ASCOLTO 🎧
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Visto che la rete sta parlando molto della serie Netflix “Il problema dei 3 corpi”, vale la pena ascoltare la spiegazione scientifica del problema, data dai sempre perfetti e chiarissimi Emanuele Menietti e Beatrice Mautino.
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Un elenco di recensioni autorevoli è possibile trovarlo nelle fonti della pagina Wikipedia dedicato al film.
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
ah si, la mia vita