Smettiamola di lavorare così tanto
Fioccano gli strumenti che ci aiutano a lavorare ovunque, persino in auto. I dati però ci dicono una cosa insospettabile: lavorando di più si produce di meno.
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In sintesi:
Google ha lanciato la possibilità di fare video conferenze anche in auto. Si aumenterebbe la produttività, secondo l’azienda;
Lavorare tanto non sembrerebbe andare d’accordo con l’aumento della produttività. I dati ci dicono che dove si lavora più ore, si produce meno;
La dipendenza da lavoro sta diventando un fenomeno diffuso e la possibilità di fare video conferenze anche in auto, di certo, non aiuta.
La parola di oggi: Workaholic
A volte mi domando cosa sia questa newsletter e perché debba essere interessante per chi la legge. Poi mi rispondo che dovrebbe esserlo perché do dei dati, commento delle notizie. Altre volte, come probabilmente sarà questa, metto solo in fila dei fatti. Non sono un commentatore esperto, né tanto meno un editorialista. Non ho la presunzione di commentare una notizia accendendo una qualche riflessione originale in chi mi legge. Però a volte mi accorgo che in quello che ci succede attorno c’è come un filo conduttore e allora, mi perdonerà chi ha pensato potessi offrire di più, mi limito a segnalarlo.
Mi ha spinto a scrivere questa volta una notizia di tecnologia, perché Insalata Mista nasce in primo luogo dal mondo della tecnologia e dell’intrattenimento. Google ha infatti annunciato che presto non potremmo più usare “sto guidando” come scusa per non partecipare a una video conferenza. Ovvero quelle che mi ostino a cercare di non chiamare video-call, ma che di fatto ormai sono entrate nel lessico comune con questo nome.
Nella prossima versione di Android Auto - il sistema che permette di utilizzare Android sul display dell’auto - ci sarà la possibilità di utilizzare le app più comuni per le video-call come Microsoft Teams, Webex, Zoom e ovviamente Google Meet. Se leggete l’articolo pubblicato da pcmag.com, è tutta un’esplosione di entusiasmo per l’aumento di produttività, per l’azzeramento dei momenti morti, di quegli attimi della giornata in cui perdiamo produttività perché non possiamo essere al computer e allora grazie Google, che ci vieni incontro e ci permetti di fare una riunione di lavoro anche quando dal lavoro siamo usciti. Quanto sarebbe stato noioso il tragitto lavoro-casa senza una bella call? Tantissimo.
L’influencer che parla di diritto al riposo e il popolo dei social che la insulta
Una decina di giorni fa ha fatto discutere il post su Instagram di Giorgia Soleri - modella, influencer, scrittrice ma soprattutto, checché ne dica lei, fidanzata di Damiano dei Maneskin - in cui rivendica il diritto al riposo.
C’è un che di fastidioso quando a parlare di una cosa del genere non è l’operaio che lavora 40 ore a settimana in fabbrica, ma una modella che fa un post su Instagram durante una vacanza a Ibiza, bisogna ammetterlo. Ma quando ho letto il post, io che non seguo la Soleri su Instagram (anzi, lo confesso pubblicamente, non sopporto proprio Instagram in generale), non sapevo da chi fosse stato scritto e ho pensato da subito che fosse giustissimo.
Pubblico qualche stralcio significativo:”In una società che ritiene la performance, l’iperproduttività e il sacrificio dei propri desideri per aderire a standard inumani dei valori da sfoggiare, il riposo è un atto politico. Ancor di più quando a praticarlo sono corpi non conformi, disabili, queer. Il privilegio necessario a potersi permettere di provare a vivere, anche solo ogni tanto, seguendo i ritmi di cui il proprio sé ha bisogno, continua ad essere un’ingiustizia che dovremmo combattere. Per un mondo più a misura di essere umano”.
Certo, lo so, non è facile combattere contro l’istinto di pensare “si brava, la ragazzina viziata stressata dai troppi impegni va a riposarsi a Ibiza”. Però provate a separare il messaggio da chi l’ha scritto e provate a chiedervi se in fondo non abbia ragione, se non stiamo perdendo di vista quali sono le priorità della vita, ma soprattutto se quella dell’iper-produttività non stia diventando un’ossessione tutta occidentale. E soprattutto: quand’è che il lavorare tanto, l’essere sempre connessi e pronti a rispondere a una video-call, persino quando si è in macchina, è diventato un atteggiamento socialmente ammirevole?
In Italia non si lavora poco, ma forse si lavora male
Anche qui ci sarà qualcuno che reagirà in modo scomposto, lo capisco, ma in Italia non lavoriamo poco, tutt’altro. L’ho scoperto leggendo i dati di Open Polis, ma soprattutto ho scoperto che esiste una convenzione del 1919 della OIL, Organizzazione Internazionale del Lavoro, che ha stabilito in 48 il massimo di ore lavorative settimanali che non bisognerebbe oltrepassare.
Ebbene, come siamo messi in Europa? L’Italia è all’ottavo posto con 37 ore in media a settimana. Non siamo messi malissimo, ma la cosa curiosa è un’altra: se è vero che tanto lavoro uguale tanta produttività, come mai in cima alla classifica (ovvero con più ore lavorate) troviamo i paesi che sono anche messi peggio sul fronte del PIL procapite? Vediamole:
La Grecia, ultima in classifica con 41,70 ore di lavoro settimanale, ha 18.200 € di PIL procapite;
La Bulgaria, penultima con 40,40 ore settimanali, è ultima nella classifica del PIL procapite con 6.800 €;
La Polonia, terzultima con 40,30 ore settimanali, ha un PIL procapite di 13.000 €.
Ora proviamo a ribaltare la classifica, guardiamo le prime tre che lavorano meno ore a settimana:
La Germania, terza in classifica con 35,10 ore lavorative settimanali, ha un PIL procapite di 36.000 €;
La Danimarca, seconda in classifica con 33,60 ore, ha un PIL procapite di 49.200 €;
I Paesi Bassi, con 30,60 ore, hanno un PIL procapite di 41.900 €.
Ora, non so se questo basti a determinare un fatto che sembra inequivocabile, però se non fosse così sarebbe davvero una coincidenza curiosa: dove si lavora meno ore si produce di più e dunque verrebbe da dire che non è vero che chi lavora di più produce di più. Forse, e sembra quasi banale dirlo, bisognerebbe indagare sulla qualità del lavoro, sui mezzi tecnologici e sugli strumenti che vengono utilizzati sul posto di lavoro.
Non facciamo che parlare di intelligenza artificiale, ma è evidente che chi ha dimestichezza con gli strumenti informatici e magari ha a disposizione strumenti tecnologici può rendere molto di più in meno tempo.
Dunque questo risponde a diverse domande: innanzi tutto lo stigma sociale verso chi lavora poco o parla di diritto al risposo non ha senso: lavorare tanto non significa produrre tanto.
In secondo luogo è vero, o quantomeno così sembra, che al migliorare degli strumenti tecnologici aumenta in effetti il benessere individuale. Sempre che più tempo libero corrisponda a un più alto benessere personale, ma d’istinto mi verrebbe da dire di si.
La pandemia e la dipendenza da lavoro
Di base però c’è il grande problema di chi non riesce a mettere un confine tra il lavoro e il tempo libero. Stiamo parlando di una vasta platea, che però è composta al 99% (statistica del tutto personale) dai lavoratori indipendenti e dagli imprenditori.
Il famoso mito del “ma tu puoi stabilire gli orari, gestirti le giornate e lavorare quando vuoi” è crollato di colpo quando siamo diventati un po’ tutti liberi professionisti, ovvero durante la pandemia.
L’abbiamo chiamato tutti smart-working, in realtà era remote working, ma quale che fosse la definizione corretta, ci siamo subito resi conti che a lavorare da casa e a non dover quindi sottostare più a un rigido orario 8-17, non ha corrisposto un aumento della libertà né più tempo per sé stessi.
Al contrario, in molti hanno scoperto che a portarsi il lavoro a casa, finisce che non si distingue più tra lavoro e tempo libero. E dunque si lavora sempre, o quasi.
La dipendenza dal lavoro, quella che all’estero (ma anche in Italia) è definita col termine “Workaholic”, non è qualcosa che abbiamo conosciuto durante la pandemia, arriva da molto tempo addietro. È qualcosa che spesso facciamo coincidere con l’arrivo degli strumenti tecnologici ed è innegabile, anche se la teoria della dipendenza da lavoro è degli anni ’70, che una grande responsabilità ce l’abbiano quei maledetti strumenti che ci portiamo sempre dietro e che ci permettono di lavorare ovunque.
Ma allora la tecnologia ci aiuta a lavorare meno o a lavorare di più? Non esiste una risposta, chiaramente. Non ho trovato dati sulla dipendenza da lavoro in Italia, purtroppo, ma in un articolo de Il Sole 24 ore del 13 marzo 2019, Francesca Milano scriveva: “i giovani soffrono di “workaholism”, la sindrome da dipendenza dal lavoro. Colpisce il 66% dei millennials, tanto che il 32% dei ragazzi americani ha infatti ammesso di lavorare anche quando è seduto sul water. E non è tutto: dalla ricerca è emerso che il 63% dei giovani ha rivelato di essere produttivo anche in malattia, il 70% di rimanere attivo nel weekend, e il 39% si dice disposto a lavorare perfino in vacanza”.
Ora, tornando all’argomento con cui ho iniziato questa newsletter, converrete con me che no, non abbiamo bisogno di fare video-call anche in macchina. Se proprio sentite che al volante state buttando via il vostro tempo, potete fare molte altre cose. Per esempio ascoltare un podcast o un audio-libro. Oppure pensare, che è una cosa che purtroppo non siamo più abituati a fare.
È pensando che si cresce, si risolvono problemi, si trovano soluzioni. Anzi, forse è il caso di dire che non lavoriamo troppo poco, ma sicuramente pensiamo troppo poco. E questo si che fa male.
SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
La prima notizia di questa rubrica si collega, guarda un po’, al tema principale della newsletter. Secondo un (bellissimo) studio di Microsoft, infatti, il maggiore ostacolo alla produttività sono proprio le riunioni. Quindi (anche) le video-call. Si, proprio quelle che Google vorrebbe farci fare anche in auto per aumentare la produttività.
“Have inefficient meetings” è al primo posto tra gli ostacoli alla produttività. Il 68% degli intervistati infatti ha detto che non ha abbastanza tempo libero da interruzioni (quindi tempo in cui può dedicarsi a un compito con la giusta concentrazione) durante l’orario lavorativo.Tra le attività che occupano più ore ci sono proprio le riunioni su Teams (23%) e le chat di Teams (19%).
Che ne dite se cominciassimo a fare meno riunioni e a lavorare di più? Oppure a lavorare lo stesso tempo e a passare il resto del tempo a fare attività ricreative come pensare (si, oggi va così).Alla fine Elon Musk ha mollato il comando di Twitter. Avrebbe dovuto farlo già molto tempo fa, più o meno da dicembre, quando lanciò un sondaggio chiedendo agli utenti Twitter se dovesse dimettersi da amministratore delegato. Il 57,5% votò per le dimissioni (che soddisfazioni), ma evidentemente il voto popolare non ha trovato d’accordo lo stesso Musk, che infatti ha continuato indisturbato a guidare l’azienda, prendendo tra l’altro decisioni che sono… beh, diciamo poco condivisibili.
La nuova CEO sarà Linda Yaccarino, italoamericana che lavora da oltre 30 anni nel mondo della comunicazione, arrivando a ricoprire il ruolo di capo della divisione global advertising & partnerships. Insomma, dovrebbe essere la persona giusta per riportare un po’ di investimenti pubblicitari in Twitter. Musk però non ha intenzione di mollare. Ha infatti twittato che “Linda Yaccarino si concentrerà principalmente sulle operazioni commerciali, mentre io mi concentrerò sul product design e le nuove tecnologie”. Bene ma non benissimo.
È successa una cosa molto grave in Abruzzo, dove il gruppo di hacker “Monti” ha attaccato l’ASL1, sottraendo e poi diffondendo un’enorme quantità di dati sanitari dei cittadini abruzzesi. Il gruppo poi ha pubblicato una lettera molto dura indirizzata al presidente della Regione Abruzzo e al direttore della ASL1. Ne pubblico un pezzo:
“Cari Marco Marsilio e Ferdinando Romano.
Siamo solidali con voi per i problemi che l’attacco informatico alla ASL1 sta causando alla Regione Abruzzo, ma questo incidente apre gli occhi su molti problemi. I pazienti si renderanno conto della corruzione, dell'avidità e della stupidità di quelle persone a cui hanno affidato la cosa più preziosa della vita, la salute.
Avete speso le tasse versate dai vostri cittadini per costruire strutture debolissime nelle quali conservare i dati sulla loro salute. Voi non aiutate i contribuenti, li imbrogliate, spendete i loro soldi ma non li proteggete in alcun modo”.
Trovate tutto su dday.it
TI SEI PERSO LE PRECEDENTI PUNTATE?
N.15 La vera informazione, senza intelligenza artificiale, è spacciata
N.6 L’incredibile storia di un tweet che ha cambiato la vita a 7 milioni di americani
N.4 Apple TV+ è probabilmente il miglior servizio di streaming video
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.