I divieti funzionano davvero? Probabilmente no
Molti pensano che la soluzione per molti problemi sia semplice come una negazione: vietare, punire, proibire. Ma se ci fermiamo a guardare i dati, la realtà ci racconta una storia diversa.
Fare il genitore è complesso. Forse è la cosa più complessa al mondo e chi c’è passato non ha bisogno di altre parole, starà già annuendo con la testa ripensando alla sua esperienza e a quanto sia stato complicato gestire la crescita e l’educazione dei propri figli.
Tendiamo anche a dare troppa importanza al legame che c’è tra un episodio e la sua causalità. Tendiamo a pensare troppo facilmente “se faccio questo allora succederà quest’altro”, senza considerare la variabile insondabile e imprevedibile che è rappresentata dal fatto che - sempre parlando di figli - davanti abbiamo un individuo indipendente, diverso da noi. Un essere umano che non è derivato da noi in quanto nostro figlio o figlia. Non è che siccome condivide con noi una parte del patrimonio genetico allora per questo sarà una versione evoluta di noi stessi o comunque e per forza con delle similitudini. Non per forza farà o dovrà fare quello che abbiamo fatto noi solo per il fatto che porta il nostro cognome o è il frutto dell’unione tra genitori.
Vi aggiungo anche un fatto personale, come spesso capita su Insalata Mista: ho passato i mesi precedenti la nascita del mio primo figlio a pensare cosa avrei fatto e cosa no. Mia moglie ha letto molti libri, io altro materiale con cui mi sono convinto che facendo determinate cose avrei ottenuto determinati risultati.
Uno poi si mette in testa anche un sacco di assurdità che deve far rispettare a tutti i costi perché ti senti un genitore diverso, consapevole, informato. E allora fai quelle cose come vietare di mangiare zuccheri fino ai tre anni, oppure non usare gli schermi fino ai cinque e cose del genere che ovviamente non hanno alcun senso.
Non ce l’hanno già di per sé perché, come vedremo, divieti e regole rigide servono sicuramente a poco - forse addirittura provocano il risultato opposto -, ma non ce l’hanno anche perché non tengono conto delle innumerevoli variabili che andiamo ad affrontare: la prima è l’individuo che abbiamo davanti che, seppur ancora non formato completamente, ha un suo carattere e una sua individualità e quel giorno che ci dirà semplicemente «no!» in modo chiaro e risoluto, tutto il nostro sistema di certezze crollerà come un castello che sembrava costruito sulla roccia e che invece scopriremo essere fatto di carta assorbente.
In seconda analisi, trascuriamo la variabile del tempo, che muta abitudini e condizioni molto velocemente, pertanto quello che poteva essere comprensibile e saggio quando è nato nostro figlio, non lo sarà più quando avrà compiuto 5 anni e figuriamoci quando ne avrà compiuti 15.
Lì poi interviene anche la difficoltà data dalla distanza generazionale, di capire il loro mondo che - ve lo posso assicurare - per quanto vogliamo sforzarci di rimanere giovani e al passo con i tempi, non saremo mai veramente in grado di capire al 100% ed è anche giusto così, altrimenti non crescerebbero mai.
Dunque, alla fine, fare il genitore si riduce spesso a una serie di divieti: non usare lo smartphone dopo una certa ora; non giocare più di x ore (o minuti per alcuni, follia) al giorno ai videogiochi; non uscire se non hai fatto i compiti, ecc ecc. I divieti farebbero la buona educazione. L’educazione rigida, fatta di regole precise da rispettare a ogni costo, crescerebbe ragazzi sani, con le idee chiare e di sicuro successo.
A parte il fatto che non si capisce il perché di questa ossessione per il successo - a me basterebbe sapere di avere immesso in società degli adulti responsabili e civili -, ma siamo davvero sicuri che tutto ciò rappresenti una buona educazione? Che le regole, i divieti e le punizioni, portino a risultati certi? Cosa dice la scienza a questo riguardo?
Molti pensano che la soluzione a un problema sia semplice come una negazione: vietare, punire, proibire. È un riflesso istintivo, umano, quasi primitivo. Ma se ci fermiamo a guardare i dati, la realtà ci racconta una storia diversa, fatta di paradossi, ribellioni e – soprattutto – inefficacia.
Prendiamo ad esempio l’adolescente medio. Cresce in un mondo iperconnesso, tra social network, videogiochi e un uso dello smartphone che non è solo passatempo, ma parte integrante della socialità, dell’identità. Eppure, di fronte a un problema, la risposta più comune è ancora il divieto: «Niente telefono!», «Basta videogiochi!», «Non esci finché non hai studiato!».
Ma siamo sicuri che funzioni davvero?
I divieti e i dati: quello che ci dice la scienza
Ora citerò uno studio. Lo so, esistono studi che dicono tutto e il contrario di tutto. Esistono studi che utilizzano metodi ridicoli, al limite del criminale, per sostenere le tesi più assurde. Spesso poi questi studi sono pure finanziati da aziende che li sostengono proprio per avere una fonte a cui appoggiarsi per portare acqua al proprio mulino.
Questo è indubbiamente vero e infatti, quando arrivo a un determinato studio, normalmente ne valuto almeno tre aspetti: dove è stato pubblicato, quali e quanti sono i firmatari (e che curriculum hanno) e soprattutto qual è il metodo scientifico. Qual è il campione, se è abbastanza vasto ed eterogeneo e come sono stati raccolti i dati.
Poi uno può anche decidere che lo studio non sia una fonte certa e prendere quel dato e metterlo lì, in attesa di un’eventuale smentita e questo è proprio quello che faremo con questa ricerca pubblicata nel 2023 su The Lancet dall’Università di Birmingham - riportata tra l’altro da un articolo di The Economist - che ha analizzato gli effetti del divieto di smartphone nelle scuole. I risultati? Nessun miglioramento misurabile nel rendimento scolastico, nel comportamento in classe o nel benessere psicologico degli studenti. In alcuni casi, addirittura, l’uso dello smartphone aumentava fuori dall’orario scolastico, in una sorta di “compensazione” istintiva.
La ricerca è stata condotta su 1227 partecipanti con età comprese tra 12 e 15 anni in 30 scuole, di cui 20 con politiche restrittive sull’uso dello smartphone e 10 con politiche più permissive.
Il risultato, cito e traduco dallo studio stesso, è questo:”Non ci sono prove che le politiche scolastiche restrittive siano associate all’uso complessivo del telefono e dei social media o a un migliore benessere mentale negli adolescenti. I risultati non forniscono prove a sostegno dell'uso delle politiche scolastiche che vietano l'uso del telefono durante la giornata scolastica nella loro forma attuale e indicano che queste politiche richiedono un ulteriore sviluppo”.
Tutto questo all’indomani della decisione della Francia di inasprire i divieti dell’uso dello smartphone nella suole (ma noi facciamo di più: lo vietiamo anche per gli usi didattici). La ministra dell’istruzione Élisabeth Borne ha dichiarato:«In un momento in cui l'uso degli schermi è ampiamente messo in discussione a causa dei suoi numerosi effetti dannosi, questa misura è essenziale per il benessere e il successo dei nostri figli a scuola».
Quali siano questi “numerosi effetti dannosi” e quali siano gli studi che lo provano è tutto da vedere e ovviamente non se ne trova traccia. Ma si sa, se dai la colpa alla smartphone vinci facile e fai molta meno fatica che non a indagare su quali siano i veri problemi che vivono gli adolescenti e quale sia il modo migliore per educarli, no?
Perché il divieto è un’arma spuntata
Il cervello adolescente è, in poche parole, programmato per esplorare. Non per obbedire. La corteccia prefrontale, quella che ci aiuta a controllare impulsi e pianificare le azioni, non è ancora completamente sviluppata. E quando un ragazzo sente che qualcosa gli viene negato senza comprenderne il motivo, l’effetto è spesso quello contrario: sfida, opposizione, trasgressione.
In psicologia si parla di “reattanza”: una risposta emotiva a una limitazione percepita della propria libertà. Ecco perché dire “no” a un adolescente, senza una cornice di senso, senza una spiegazione adeguata, spesso equivale ad accendere la miccia.
La reattanza psicologica è quel meccanismo mentale che ci fa scattare quando qualcuno ci dice che non possiamo fare qualcosa. E non è solo una questione adolescenziale: ce l’abbiamo tutti, anche se ci illudiamo di essere maturi, razionali e autocontrollati. Qualcosa che in tarda età etichettiamo come “voler essere dei bastian contrari”, ma che in realtà nasconde una precisa ragione dietro.
Il termine è stato coniato dallo psicologo Jack Brehm nel 1966. Secondo la sua teoria, quando qualcuno ci impedisce (o minaccia di impedirci) qualcosa, proviamo una tensione interna che ci spinge a voler fare proprio quella cosa. È come se il cervello dicesse: «Questa libertà è mia, non me la togli». Più la restrizione è percepita come ingiusta, immotivata o arbitraria, più forte sarà la reazione. (Fonte: Brehm, J. W. (1966). A Theory of Psychological Reactance. Academic Press. VeryWellMind – Psychological Reactance, https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC4675534/).

Negli adolescenti la reattanza è ancora più marcata, perché la loro identità è in costruzione, e ogni divieto viene vissuto come un attacco diretto alla propria autonomia. Quando gli dici «non puoi uscire stasera», il loro cervello registra «Non mi consideri abbastanza grande per decidere da solo». Ed è così che esplode la reattanza.
Volendo, ci potremmo anche inerpicare in quel terreno molto scivoloso e pericolosissimo che sono gli obblighi che riguardano la nostra persona, come quelli sanitari. Si, mi sto riferendo proprio agli obblighi vaccinali, tanto per capire come la reattanza esista anche negli adulti.
Durante la pandemia, alcuni studi (tra cui Van Bavel et al., Nature Human Behaviour, 2020) hanno mostrato che le imposizioni troppo rigide sulle restrizioni sanitarie hanno attivato forti forme di reattanza, soprattutto in gruppi già diffidenti verso l’autorità. Il risultato è quello che oggi conosciamo tutti: disobbedienza sistematica, anche a costo di andare contro il proprio interesse (e la propria salute). Quel movimento novax che ne è scaturito è vivo e vegeto ancora oggi e occupa anche preoccupanti posizioni di comando.
Insomma, il sunto è che i divieti, da soli, non funzionano mai, se non per polarizzare. Per ridurre la reattanza non serve aumentare la forza, al contrario serve aumentare la trasparenza, il dialogo e la percezione di equità. Insomma, non voglio trasformarmi in uno psicologo da quattro soldi che va in TV a spiegare agli spettatori come si educano i figli, ci mancherebbe, ma la sintesi è che non basta dire “no”, bisogna spiegare “perché” e soprattutto ascoltare le risposte.
L’alternativa al divieto: costruire consapevolezza
Da quello che ho letto, credo di aver imparato una cosa molto semplice, che poi mi rendo conto di aver applicato inconsciamente anche direttamente: evitare i divieti e utilizzare invece il dialogo, la responsabilizzazione, la co-costruzione delle regole.
Sembrano frasi fatte, lo so, io stesso mentre lo scrivo mi sento spuntare gli occhiali di Morelli sulla testa, ma mi rendo conto di non aver quasi mai detto «no», se non arrivandoci dopo aver spiegato dettagliatamente i motivi del divieto. Tutto questo è straordinariamente più difficile e faticoso, ma mi rendo conto di aver cresciuto due ragazzi maturi e responsabili e non degli automi che obbediscono a dei comandi e che alla prima occasionare, appena riescono a nascondersi dalla vista del grande fratello, fanno tutto il contrario di quello che gli è stato detto e vietato. Questo perché è nella natura stessa del divieto far desiderare fortemente di fare il contrario.
Alla fine, c'è una lezione più grande che vale per gli adolescenti, per i cittadini, per i popoli interi: la libertà si impara solo esercitandola. E l’educazione alla responsabilità è molto più potente di qualsiasi punizione. Un sistema educativo o giuridico fondato esclusivamente sul divieto e sulla punizione rischia di perdere il suo obiettivo più importante, che è quello di far crescere esseri umani capaci di scegliere, non solo di obbedire. Perché ogni volta che diciamo «non puoi», rischiamo di spegnere un’occasione per dire: “Puoi, se sei convinto di farlo”.
Se metti una legge per controllare e vietare qualsiasi cosa, troverai sempre chi è in grado di aggirarla. Se cresci persone responsabili e civili, viceversa, non avrai mai bisogno di creare delle leggi troppo stringenti. Che poi è il problema dell’Italia, imbalsamata da una burocrazia ormai senza senso, dai clic day e dai modelli da richiedere, presentare, rinnovare, certificare senza mai vedere una fine.
Questo perché - è vero - siamo un popolo molto creativo quando si tratta di ingannare il sistema. Ma allora mi chiedo: a cosa serve complicare sempre di più il sistema fino ad arrivare a ingessarlo completamente nella speranza di impedire qualsiasi forma di raggiro quando sappiamo benissimo che chi intende raggiralo sarà sempre un passo più avanti?
Viceversa, crescere una nuova generazione di ragazzi che si rendano conto del perché è giusto seguire le regole, sarà sicuramente più faticoso, richiederà di sicuro molto più tempo, ma eliminerà il problema alla radice. Di nuovo: non usi il banale divieto, ma affronti tutto col dialogo, con la cultura e la consapevolezza.
Mi risuonano ancora in testa le parole della storia pubblicata da Piero Marco Pizzi su Facebook (non si sa se vera, ma all’epoca in cui la postò ebbe molta risonanza multimediale), in cui un turista italiano sarebbe entrato in una stazione della metro di Stoccolma, capitale della Svezia, notando che tra i normali tornelli per l’accesso, ce n’era uno che dava il libero passaggio. Allora chiede alla venditrice di biglietti perché questo tornello è a passaggio libero senza guardia giurata nelle vicinanze. La signora allora gli spiega che era destinato a persone meno abbienti o semplicemente che, per qualche motivo, non avevano soldi per pagare il biglietto. Allora questo signore pronuncia la domanda scontata:«E se la persona avesse i soldi ma semplicemente non volesse pagare?».
La bigliettaia, con una naturalezza disarmante, allora avrebbe risposto «Ma perché dovrebbe farlo?». Ecco, quello è il goal a cui dobbiamo puntare, non costruire sistemi sempre più sofisticati per controllare, vietare, imporre. Niente di tutto questo è sano per una società civile e per la crescita e la maturazione di cittadini consapevoli.
Di mezzo c’è anche la libertà, che è il bene più caro che i nostri antenati hanno conquistato per noi a costo della vita. Sarebbe assurdo pensare di difenderla negandola o limitandola.
Quando l’obbligo invece serve, anzi è necessario
Se fino a qui abbiamo detto che si educa con l’esempio, con il dialogo e con la consapevolezza, è anche vero che quando l’esempio non è possibile darlo, allora ci va qualcosa di più.
E infatti esiste un caso specifico in cui invece è necessario utilizzare l’obbligo proprio per fare cultura e costruire la consapevolezza. È il caso del divieto di fumare nei locali pubblici o sui treni, per esempio. In quel caso non si sarebbe potuto far leva sull’esempio, perché come fai a darlo a un’intera popolazione? In quel caso il divieto imposto è necessario per far sì che si diffonda la consapevolezza invece che il fumo è una limitazione della libertà di chi non fuma. È un passaggio obbligato attraverso cui stimolare la cultura del rispetto verso il prossimo.
Il risultato, in questo caso, è evidente a tutti: oggi farebbe strano vedere una persona fumare in un ristorante, ci colpirebbe subito perché inusuale. Si è diffusa in pochi anni la cultura del rispetto verso chi non fuma, quantomeno se limitato a questo aspetto circoscritto.
Lo stesso penso delle quote rosa. Sapete quando si dice “è assurdo che debba rischiare di mettere in una posizione importante una donna solo perché tale e per via di una legge quando avrei al suo posto un uomo molto più qualificato”. È vero, le imposizioni possono creare anche queste distorsioni. Io stesso mi sono trovato in una situazione simile in cui rischiavamo di non poter presentare una lista che si candidava alla guida di un piccolo comune per il bassissimo numero di candidate donna in lista.
Tuttavia, se non si passa da un obbligo, da un’imposizione, non si svilupperà mai quella cultura del considerare anche le donne adatte in posizioni apicali o di particolare rilievo. Questo perché oggi siamo abituati a vedere sempre gli uomini occupare determinate posizioni e finché non si romperà quel muro, gli uomini continueranno a scegliere uomini. Soltanto con l’imposizione, forzando il sistema a inserire una certa quantità di donne, si innescherà quel meccanismo per cui a un certo punto sarà strano non vedere donne in un consiglio di amministrazione, nella posizione di amministratore delegato, come Presidente del Consiglio (e ok, almeno lì ci siamo arrivati) e anche come Presidente della Repubblica, no?
In queste situazioni, e soltanto in queste, l’obbligo ha una sua utilità. In tutti gli altri, è una mia opinione a cui tuttavia sono arrivato anche sulla base di dati che mi sembrano abbastanza incontrovertibili e soprattutto sulla base della mia esperienza, il divieto serve a poco. Spesso serve a provocare proprio l’effetto opposto.
Portare le persone, giovani o adulte che siano, a pensare che sia giusto e normale comportarsi in un certo modo sarà sempre il metodo migliore a cui puntare piuttosto che tentare di arrivarci attraverso divieti, leggi e coercizione. Questo perché nel primo caso avremo generato persone mature, consapevoli, civili e capaci di ragionare; nel secondo caso soltanto automi capaci di obbedire - nel migliore dei casi - oppure individui dediti soltanto all’aggirare il sistema per il proprio tornaconto. E guarda un po’, sembra proprio che si vada sempre di più verso questa seconda situazione.
» PENSIERI FRANCHI: Non riconoscere più il proprio figlio
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Ho guardato anche io, come credo molti di voi avranno fatto, la serie Adolescence su Netflix. Una serie dura, complessa, difficile da digerire e con più livelli di lettura. Uno di questi è sicuramente quello del punto di vista del genitore, perché è inevitabile che durante la visione ci si chieda «e se capitasse a me?».
Ora cercherò di introdurvi all’argomento stando alla lontana da possibili spoiler sulla trama della serie che consiglio a tutti di vedere: nel bel mezzo della notte un adolescente di 13 anni viene arrestato in casa davanti alla famiglia incredula. L’accusa è gravissima, l’omicidio particolarmente efferato di una sua coetanea e conoscente. Fine, la trama è tutta qui. Quello che la serie indaga però è ciò che questo fatto scatena nella famiglia e nel vicinato, ma soprattutto indaga da vicino la psicologia del ragazzo e dei suoi genitori, il padre in particolare, che gli sta vicino per la gran parte del tempo.
Tutto ciò viene realizzato magistralmente attraverso una prova attoriale di assoluto livello di padre e figlio e di un espediente tecnico della regia che applica quello che i tecnici chiamano “piano sequenza” per riprendere i fatti senza mai staccare dalla scena, senza mai un taglio o passaggio a nero.
Non starò qui a dirvi altro sulla serie, non vi dirò se il ragazzino alla fine si scopre essere innocente o colpevole (tra l’altro è proprio l’ultimo dei dettagli importanti della serie, tant’è che diventa chiaro quasi a metà della prima puntata, praticamente subito), ma mi focalizzerò semplicemente su una scena in particolare della prima puntata dove padre, figlio e avvocato della difesa si confrontano per la prima volta con gli agenti responsabili dell’arresto per conoscere i capi d’accusa e le prove in mano alla polizia.
Il padre mostra ovviamente un atteggiamento protettivo nei confronti del figlio fino a un momento preciso, cioè quello in cui gli viene mostrato un video. Ripeto: non vi dirò se quel video si dimostrerà reale o meno, se inchioderà o meno il sospettato, fatto sta che per il padre dimostrerà in modo inequivocabile la colpevolezza del proprio figlio e in quel momento specifico si intravede un gesto preciso, reso magistralmente da Stephen Graham, l’attore che interpreta il padre del ragazzo, che per un attimo esita nell’abbracciare il figlio in un atteggiamento di rifiuto, di blocco, che poco dopo controlla e vince razionalmente cedendo all’abbraccio.
Mi sono soffermato parecchio su questa scena perché ho provato a immedesimarmi in quella situazione, all’indomani di tanti casi di femminicidio che occupano la nostra cronaca nera ormai quotidianamente. Ho ripensato a Filippo Turetta e alle interviste fatte ai genitori e al padre in particolare. Ma ho ripensato anche al caso esemplare di Erica e Omar. Il padre di Erica, la cui vita è stata sconvolta dal gesto della figlia che senza pietà ha pianificato e eseguito l’omicidio della madre e del fratellino, hanno condannato questo uomo alla solitudine di una famiglia che ormai conta solo un componente, che poi è anche la causa stessa della sua sciagura. Tuttavia, quest’uomo non ha mai abbandonato la figlia. Le è stato vicino durante tutta la detenzione e lo fa ancora oggi che Erica si è ricostruita una vita.
Tralasciando il merito della questione - di cui ovviamente non mi interessa parlare - è sul comportamento del padre che mi sono soffermato a pensare. Cosa deve affrontare un genitore in una situazione del genere? Cosa si può agitare nel petto e nella testa di un uomo che vede un pezzo di sé stesso, sangue del suo sangue, compiere un gesto così assurdo e lontano dalla propria concezione? Un gesto folle se compiuto verso una persona estranea ma ancora più assurdo se invece è rivolto verso un altro caro, addirittura verso un altro figlio.
All’indomani dell’arresto di Filippo Turetta, il padre pronunciò queste parole “Io da padre ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo, neanche una baruffa. Trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui”.
Sono esattamente le parole che potrebbe pronunciare chiunque di noi dovesse un giorno confrontarsi con un fatto così enorme. Cosa avrà provato la prima volta che ha riabbracciato quel figlio che pensava di conoscere e che invece si è macchiato di una mostruosità del genere? Cosa si sarà agitato al suo interno quando ha dovuto cercare di confortarlo perché temeva si facesse del male (e non starò qui a riportare le frasi intercettate e riportate sui quotidiani perché è un fatto che mi fa schifo e che lorda ancora una volta quella categoria di cui comunque faccio parte)?
Questo Pensiero Franco non arriva da nessuna parte, me ne rendo conto, è semplicemente la condivisione di un pensiero, di una paura, di una sensazione che mi è entrata dentro mentre guardavo questa serie e che si è fatta strada anche nei giorni successivi. Una sensazione amara, brutta, fredda, che però nessuno di noi può ignorare. Forse bisognerebbe andare un po’ più a fondo nel rapporto con i nostri figli soprattutto quando sembra andare tutto bene. Proprio quando sembra che nessun problema possa rompere un equilibrio fortunato che ci fa sentire tranquilli e al ripario da qualsiasi problema.
Forse conviene sempre fare un esercizio scomodo quanto complicato, amaro quanto necessario: andare un po’ più a fondo e cercare di leggere quei segnali che non possono non esserci stati. Segnali complicati da leggere ancora di più quando, da genitori, si preferisce abbandonarsi a quella dolce sensazione che è rappresentata dal cullarci col pensiero che tutto va bene e che il proprio sia “un figlio perfetto”, anche se pensare che forse non è così può essere spaventoso e doloroso.
Franco A.
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
Attacco hacker a Mooney: rubati dati utenti ATM Milano e Tuabruzzo
Un attacco informatico ha colpito Mooney Servizi, coinvolgendo i dati degli utenti delle app di trasporto ATM Milano, Tuabruzzo e altre aziende. I dati sottratti includono nome, contatti e profilo cliente, ma non informazioni finanziarie o credenziali di accesso. L'attacco ha colpito l'infrastruttura cloud del fornitore WIIT SpA. ATM ha rassicurato sulla sicurezza delle transazioni e ha notificato l’incidente al Garante Privacy e all’Agenzia per la Cybersicurezza. Rischi principali: phishing e uso fraudolento dei dati. Indagini in corso per accertare l’estensione del danno e l’identità degli hacker.
Fonte: DDay.it
Trump fa retromarcia: niente dazi USA su smartphone, PC e chip cinesi
Gli Stati Uniti hanno escluso dai nuovi dazi i prodotti tecnologici cinesi come smartphone, computer e chip, con effetto retroattivo dal 5 aprile. La decisione, annunciata dalla dogana americana (CBP), rappresenta una svolta a sorpresa nell’escalation commerciale tra USA e Cina. Tra i prodotti esenti figurano anche router, memorie SSD, moduli per display e apparecchiature per semiconduttori. La mossa è un sollievo per Apple e per l’intero settore tech, risparmiando rincari ai consumatori. Le aziende potranno richiedere rimborsi per i dazi già pagati.
Fonte: DDay.it
La Cina blocca l’export di terre rare: rischio paralisi per auto, chip e difesa
In risposta ai dazi imposti dagli Stati Uniti, la Cina ha sospeso l’export di metalli e magneti rari fondamentali per auto elettriche, chip, missili e droni. Le nuove regole prevedono licenze speciali per l’esportazione, ma il sistema non è ancora operativo, creando allarme globale per le forniture. Aziende americane come Tesla e contractor militari rischiano gravi ritardi nella produzione. Pechino detiene il monopolio su molti di questi materiali strategici, e i controlli alle dogane bloccano le spedizioni anche verso Europa e Giappone. Si teme un impatto critico sulle filiere globali dell’hi-tech e della difesa.
Fonte: Nytimes.com
Volkswagen raddoppia l’elettrico in Europa: +113% nel primo trimestre
Nel primo trimestre del 2025, il Gruppo Volkswagen ha più che raddoppiato le consegne di auto elettriche in Europa (+113%), superando le 150.000 unità e raggiungendo una quota del 19% nel mercato dell’Europa occidentale. A livello globale, la crescita è del 59%, con performance positive anche negli USA, ma in calo in Cina (-37%) per la forte concorrenza locale. In Italia, il mercato elettrico è cresciuto del 75,4% con 23.019 immatricolazioni, ma resta fanalino di coda in Europa con una quota del 5,2%. Tesla Model 3, Dacia Spring e Citroen C3 elettrica guidano le vendite italiane.
Fonte: DMove.it
Northvolt fallita ma ancora contesa: Bosch e Mercedes-Benz in visita segreta allo stabilimento
Nonostante il fallimento dichiarato lo scorso 12 marzo, Northvolt continua ad attirare l’attenzione: secondo il quotidiano svedese Norran, rappresentanti di Mercedes-Benz e Bosch avrebbero visitato la fabbrica di Skellefteå, alimentando voci su possibili acquisizioni. Entrambe le aziende hanno però smentito ufficialmente ogni interesse diretto. Anche Panasonic resta tra i potenziali acquirenti. Northvolt, in difficoltà dopo la rottura con BMW e la mancanza di nuovi fondi, sta tentando di vendere parte delle sue attività per sopravvivere.
Fonte: DMove.it
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Che dici, riprovo a farmi odiare dai miei co-genitori?
Tentar non nuoce 😁
Non ho ancora visto Adolescence, anche se è lì pronto che mi aspetta, e so già che mi colpirà forte.
articolo...interessante, lucido, oggettivo, andrebbe letto nelle scuole dalle medie alle superiori.
ps
una mia campagna personale: Fabiola Giannotti presidente della Repubblica Italiana.
ps2 non conosco la dottoressa Giannotti ma una donna che è riuscita a raggiungere una posizione di vertice in un istituzione internazionale, di carattere scientifico, senza sponsor politici...merita rispetto ed ammirazione.