E se fossimo noi uomini il problema dell’umanità?
Le donne vincono su tutto: scuola, legalità, leadership, longevità. Eppure comandano poco. I dati lo dicono chiaro: forse il problema dell’umanità siamo noi uomini?
A prima vista potrebbe sembrare una di quelle newsletter scritte per lusingare l’altro sesso. A volte noi uomini lo facciamo ed esiste pure un termine per descrivere quel tipico atteggiamento paternalistico degli uomini che spiegano le cose alle donne. Mansplaining, si dice, che è ancora più fastidioso quando un uomo — che nel caso in oggetto sarei io — cerca di fare quello che rispetta le donne parlandone bene. Oppure parlando male degli uomini, che è più o meno la stessa cosa.
Ma no, non lo farò. Non farò mansplaining, né tantomeno mi prenderò colpe che io, personalmente, credo di non avere. Non chiederò nemmeno scusa per l’intera categoria, anche se spesso me ne vergogno profondamente. Quello che farò, come sempre, sarà analizzare dei dati che stupiscono me per primo e che mi fanno pensare che forse, dietro quei tanti “gap” che imponiamo tra noi (uomini) e le donne, ci sia un profondo senso di invidia e di sconfitta.
Questa Insalata nasce dall’ascolto di statistiche date molto velocemente da un podcast che non ricordo esattamente quale fosse, in cui si decretava la superiorità statistica delle donne praticamente in qualsiasi campo. Ho deciso allora di approfondire l’argomento e cercare questi dati. E poi, mentre ci lavoravo, mi è tornata in mente una domanda che mi ponevo da giovane, quando studiavo storia della musica. Mi chiedevo:«Ma come mai i compositori sono tutti uomini?». E poi mi rispondevo «probabilmente perché è un’attitudine maschile». Questa è la tipica risposta passe-partout, un evergreen tutto maschile che ci permette di giustificare qualsiasi cosa. Ma, al tempo, cosa volete che ne sapessi? Potevo mai andare a pensare che forse, se fai studiare musica soltanto agli uomini, poi succede che (guarda il caso) solo questi diventano grandi compositori ed esecutori?
Oggi le donne occupano ruoli a volte molto importanti, in Italia persino la prima ministra è donna (finalmente). Quindi, anche se con lentezza, alcuni passi in avanti si stanno facendo. Eppure, nella sostanza, tutto è rimasto com’era. Nella vita di tutti i giorni, nelle famiglie, nella società, nella scuola, nelle istituzioni e nelle aziende private, essere donna significa vivere ancora delle discriminazioni insensate e anacronistiche. Si parla di gender gap o di pay gap proprio perché le donne, anche quando arrivano a ricoprire ruoli importanti, guadagnano ancora meno (a volte molto meno) degli uomini. E quando un componente della coppia deve decidere di lasciare il lavoro o di ridurne l’orario per accudire i figli, quasi mai capita che sia l’uomo.
Non è questo il contesto per indagare su quali e quante siano le costruzioni culturali e sociali che fanno sì che ancora oggi la donna viva una situazione di subalternità rispetto all’uomo. Piuttosto mi interessa indagare i numeri e ciò che ci dicono, che è qualcosa di stupefacente. Un fatto talmente grosso che non può essere ignorato. Sì, perché le donne — lo dice un report Unesco, staccano gli uomini praticamente su tutto: età media, istruzione, cultura, leadership. E allora perché non viviamo in un mondo a guida femminile?
I numeri della devianza
Cominciamo dal fatto più grosso: i reati vengono commessi dagli uomini. Tutti. Se il mondo, per assurdo, fosse abitato soltanto da donne, non esisterebbe la violenza. E non è un fatto da poco. In tutto il mondo, il 95% degli omicidi è commesso da uomini. In Italia, l’82% degli arrestati sono uomini (secondo dati statistici del Ministero degli Interni relativi al 2021). I detenuti uomini sono il 95% della popolazione carceraria. Maschio è in generale il crimine, specie quello violento e recidivo.
La situazione delle denunce e della presenza nelle carceri è ancora più eclatante. Secondo uno studio di Antigone, dal 2019 al 2021 la suddivisione delle denunce è sempre stata più o meno stabile: più dell’80% denunce verso uomini e più o meno il 18% verso donne. Se poi andiamo a guardare la presenza nelle carceri, il divario è ancora più ampio: la presenza femminile si attesta attorno al 4%, anche questo dato stabile nel tempo. Stiamo parlando di poco più di 2.000 donne su una popolazione carceraria di più di 150.000 detenuti.
Se si va ad indagare il dettaglio delle denunce, viene fuori un quadro chiaro: nella maggior parte dei casi, quando si parla di denunce verso le donne, si tratta di reati contro il patrimonio: truffe, furti, reati informatici. Reati gravi, per carità, ma non il massimo della pericolosità per il resto della società.
Le donne, oltretutto, hanno una percentuale di recidiva molto inferiore a quella degli uomini: In Italia, solo il 5,9 % delle donne imputate ha precedenti penali, contro il 19,7 % degli uomini (Ministero della Giustizia – Relazione sull’amministrazione della giustizia 2021).
A scuola, i ragazzi possono soltanto imparare (dalle ragazze)
Cosa ci dicono invece i dati sulla scuola e i titoli di studio? Anche in questo caso, per gli uomini, è un disastro su tutta la linea. Nella scuola italiana, infatti, il tasso di abbandono scolastico è quasi doppio nei ragazzi (13,1%) rispetto alle ragazze (7,6%). Tra i 25 e i 64 anni, gli uomini con almeno un diploma sono il 62,9%, mentre le donne sono il 68%. Lo stesso vale per la laurea, che vede le donne staccare gli uomini di oltre 6 punti percentuali.
Nei test PISA del 2022, i ragazzi cedono il passo alle ragazze nella lettura, ottenendo risultati inferiori in 87 casi su 100. E come la mettiamo con le materie scientifiche, le cosiddette STEM? In questo caso c’è ancora un leggero vantaggio a favore dei ragazzi, ma il divario si riduce sempre di più, anno dopo anno.
Le donne, in ogni caso, rappresentano circa il 60% dei laureati totali, anche se solo il 16,6% delle laureate ha scelto un percorso STEM. Tra gli uomini, al contrario, il 34,5% ha una laurea STEM. Questo dato però non deve ingannarci, perché potrebbe essere esso stesso l’ennesimo caso di discriminazione legata al sesso. O quantomeno, un’altra di quelle pesantissime eredità culturali di cui non riusciamo a liberarci.
“Le donne sono fatte per le materie letterarie, gli uomini per quelle scientifiche”. Quante volte l’abbiamo sentito? E i numeri sembrerebbero appoggiare questa tesi, visto che anche tra chi si iscrive, le donne abbandonano i corsi STEM più frequentemente, per mancanza di modelli, discriminazioni implicite, ostacoli ambientali. Secondo l’OCSE, le ragazze con voti altissimi in matematica sono comunque meno propense a scegliere percorsi STEM rispetto ai ragazzi con voti medi.
Anzi, molto spesso (e qui ci metto un commento personale), sono proprio i professori e le professoresse ad indicare alle ragazze percorsi di studi umanistici seppure portate evidentemente per le materie scientifiche.
E se parlassimo di arte? Mi ricollego al mio pensiero giovanile sui compositori nella storia della musica. Ebbene, negli USA, il 70 % dei laureati in Belle Arti e il 65–75 % dei master in Belle Arti sono conseguiti da donne. Eppure solo il 46 % degli artisti attivi sono donne.
Nonostante la formazione predominante femminile in materie artistiche, le donne generano meno del 2 % delle vendite alle aste globali (2008‑2019) . In Australia, le artiste vincono il 53 % dei premi ma incassano in media 44.947 $, contro i 51.818 $ degli uomini.
Di nuovo un ostacolo artificiale creato ad arte (mai termine fu più azzeccato) dagli uomini: le donne dominano la formazione artistica, ma poi a vendere e a essere rappresentati sono sempre e solo gli uomini. E in ogni caso, anche quando le donne riescono a vincere dei premi, incassano meno.
Le donne al potere favoriscono la disciplina, l’istruzione e il welfare
Quando si parla di rapporto col potere, il gap tra uomini e donne è ancora più evidente. Qualche esempio: nel mondo dell’istruzione, le donne sono la maggioranza tra gli insegnanti, ma una minoranza tra i dirigenti. Nei paesi OCSE, solo il 30% dei leader nell’istruzione superiore sono donne. In 40 paesi analizzati dal report UNESCO 2025, ci sono in media 80 uomini iscritti all’università per ogni 100 donne, ma solo una donna ogni tre tra i rettori o presidenti universitari.
Eppure, quando una scuola è guidata da una donna, gli studenti imparano di più. In Benin, Senegal, Madagascar e Togo, le scuole con presidi donne offrono risultati equivalenti a un anno in più di apprendimento. Sempre secondo il Gender Report 2025 dell’UNESCO, durante crisi globali come la pandemia COVID-19, i paesi con una quota più alta di donne nei ministeri dell’istruzione hanno adottato politiche meno drastiche e più attente alle conseguenze sociali delle chiusure scolastiche.
Questo non significa che tutte le ministre siano “migliori”, ma che una maggiore rappresentanza femminile porta a una leadership più sensibile agli effetti delle chiusure scolastiche, soprattutto sulle fasce vulnerabili. Questo perché, quando le donne assumono ruoli di leadership, tendono in media a consultare più stakeholder; bilanciare esigenze sanitarie con quelle educative e sociali; valutare con attenzione gli effetti sulle famiglie, sulle bambine, e sui contesti più fragili.
Un altro dato: quando le donne sono in parlamento, aumentano le spese pubbliche per la scuola. È un’affermazione che si basa sui dati raccolti in oltre 190 paesi tra il 1990 e il 2020. Un aumento dell’1% nella percentuale di donne in parlamento è associato a: +0,04 punti percentuali di spesa per l’istruzione sul PIL; +0,03 punti percentuali per la spesa in istruzione primaria; migliorano anche gli indici di parità di genere nella scuola.
Qualcuno potrà contestare le percentuali veramente risicatissime, ma stiamo parlando di medie tra 190 paesi in un lasso di tempo di trent’anni, ci sta che le oscillazioni siano minime (oltretutto rapportate all’aumento della presenza femminile dell’1%). È comunque un fatto che siano positive. Anche uno studio OCSE lo conferma: nei paesi dove le donne hanno un ruolo più forte nei processi decisionali, crescono gli investimenti in istruzione e welfare, rispetto alla difesa o alle infrastrutture.
Torniamo un attimo all’”UNESCO GEM Report 2025”. In paesi africani e asiatici analizzati dall’UNESCO, le scuole dirette da donne mostrano risultati migliori in lettura e matematica (fino all’equivalente di un anno scolastico in media guadagnato); minor assenteismo dei docenti; maggiore collaborazione tra insegnanti; più attenzione a inclusione, sicurezza e benessere degli studenti.
Tuttavia, le donne faticano molto di più per arrivare a ricoprire questo ruolo. Infatti, le donne diventano dirigenti scolastiche o ministre con più anni di esperienza alle spalle rispetto agli uomini, hanno meno accesso a reti informali di potere o mentoring, subiscono bias di selezione nei concorsi e nei comitati di nomina e spesso sono chiamate a ricoprire ruoli di guida solo in situazioni critiche o fallimentari (il cosiddetto “glass cliff”, ma ci arriviamo tra poco).
Il potere, quando declinato al femminile, tende a essere più equo, più inclusivo, più utile. Però continua ad avere il volto e la voce di chi è più propenso all’autoritarismo, alla competizione sterile e alla conservazione dello status quo: l’uomo.
Soffitti e scogliere di vetro, ecco dove le donne spopolano
Il concetto del “glass cliff” rappresenta alla perfezione la condizione che vivono le donne quando riescono a raggiungere posizioni di potere. Letteralmente significa scogliera di vetro ed è un concetto assimilabile al “glass ceiling”, ovvero il soffitto di vetro. Si tratta, in entrambi i casi, di concetti sociologici che descrivono fenomeni di discriminazione di genere.
Il termine “glass cliff” rappresenta la tendenza a nominare donne (o altre minoranze) in ruoli di leadership solo in situazioni di crisi o alto rischio di fallimento, cioè quando il “baratro” è vicino. Il principio è: «Ok, facciamola provare ora che tutto sta andando a rotoli». E quindi, in una larghissima parte dei casi, una donna viene nominata CEO di un’azienda in forte crisi, dove tutti gli uomini si sono già bruciati. Se riesce, è l’eccezione che conferma la regola. Se invece fallisce (più probabile, data la situazione), si rafforza lo stereotipo: «Vedi? Le donne non sono portate per comandare».
D’altronde, il termine venne coniato nel 2004 proprio da due studiose britanniche, Michelle Ryan e Alex Haslam, che notarono come le donne vengono scelte più spesso per ruoli dirigenziali in aziende con performance negative; in politica quando il partito è in perdita e in scuole o istituzioni a rischio.
Questo tipo di discriminazione è il peggiore in assoluto e di gran lunga il più subdolo e malvagio rispetto al “soffitto di vetro”. Con il soffitto di vetro, ovvero il soffitto invisibile, si impedisce alle donne (o ai soggetti discriminati) di arrivare a ricoprire certi ruoli. Più in su di un certo punto non si va. Nel caso del “Glass Cliff”, al contrario, non si esclude a priori l’accesso a certe posizioni, ma si fa in modo che quando capita, il risultato sia un fallimento, così da rafforzare la teoria secondo cui le donne non sono capaci a svolgere determinati compiti.
Badate però: l’origine di questi fenomeni non è organizzata. Non esiste un consiglio di uomini malvagi che si mettono a tavolino e studiano questo tipo di “trabocchetti”. Il Glass ceiling o il Glass Cliff derivano dai ben peggiori bias impliciti: «non è adatta per comandare», «è troppo emotiva», «poi fa figli…», dalla mancanza di sponsor e reti di potere maschili, dai modelli di leadership maschili dominanti, in cui le donne devono “imitare” per farsi accettare e dai criteri di valutazione opachi: promozioni basate non tanto sulle competenze, quanto sul “cultural fit”, ovvero sull’attinenza ai valori culturali di una determinata cerchia sociale. Tipo: «È una persona che si integra bene con noi», «ci fidiamo di lui», «ha lo stile giusto» e via dicendo.
Per concludere, ancora due numeri: a livello globale, solo il 29% dei top manager nelle aziende è donna. Nei consigli di amministrazione delle aziende italiane quotate in Borsa: le donne sono il 40% (grazie a leggi come la Golfo-Mosca del 2012, che obbliga le società quotate in Borsa e le società a controllo pubblico a riservare almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione e collegi sindacali al genere meno rappresentato), ma solo l’11% sono amministratrici delegate (CEO). In politica, su 193 Stati membri ONU, solo 30 (ovvero il 15%) hanno una donna a capo del governo (UN Women, 2024).
Ma che fai, parteggi per le donne?
Si, perché non dovrei? I numeri dimostrano che quando le donne ricoprono posizioni di leadership o di potere, le cose vanno meglio. Le donne compiono meno crimini, vivono mediamente di più e sono più istruite. Però non riescono ad accedere a certe posizioni, quando ci riescono c’è dietro il trabocchetto e comunque guadagneranno meno, spesso molto meno.
In questa Insalata ho toccato tanti punti, ma ho volutamente tenuto fuori quello puramente culturale, legato all’occidente cattolico, dove le donne subiscono la discriminazione più vigliacca di tutte: le donne, ancora oggi, non possono vivere liberamente il sesso. Le cose sono molto cambiate negli ultimi anni, è vero, ma ancora si sentono discorsi molto differenti quando si parla di figli maschi e figlie femmine.
Vedo ancora papà orgogliosi che, arrivati a una certa età, fanno trovare pacchetti di preservativi ai figli maschi facendogli l’occhiolino. La stessa cosa però non l’ho mai vista o sentita nei confronti delle figlie. D’altronde, lo dicevamo in un paio di Insalate fa, in Italia si cambia il nome di un lungometraggio animato perché ricorda quello di una donna che per un periodo della sua vita si dedicò al porno. Guai a ricordarla.
Devo essere onesto: non so se avrei fatto queste riflessioni se non avessi avuto una figlia. Non so quanto sarebbe cresciuto in me il fastidio nei confronti di queste discriminazioni se non avessero già iniziato a toccare, seppure ancora in forma lieve, la mia famiglia. Però i fatti sono talmente grossi ed evidenti, i dati sono così eclatanti, che viene da pensare che se ci fosse una presenza femminile più forte nei ruoli di comando, di gestione, di potere, forse davvero il mondo funzionerebbe meglio. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio né cadere nei soliti luoghi comuni. Non si può dire che “tutte le donne sono migliori degli uomini”, non è sicuramente questo. Certo è che oggi vengono fortemente limitate, discriminate, escluse.
Spesso si parla anche di quanto sia poco giusto imporre delle “quote rosa”, così come il fatto dalla legge Golfo-Mosca citata nel paragrafo precedente. Per un lungo periodo anche io ho pensato che queste leggi fossero assurde: le persone dovrebbero essere scelte in base ai meriti, non in base alle leggi (che poi, da quanto abbiamo visto, magari fosse davvero così). Ma poi ho riflettuto sul fatto che quando lo status quo è così radicato, quando i costrutti culturali sono così antichi e inscalfibili, soltanto l’obbligo può aiutarci a superarli. Soltanto una legge può scardinare un meccanismo sociale che altrimenti, da solo, non cambierebbe mai.
Finché saranno gli uomini a decidere, non potranno che scegliere altri uomini. E quindi ben vengano le leggi che distruggono queste “caste”. Ci vorranno decenni, ma pian piano verranno abbattuti tutti questi soffitti di cristallo che oggi limitano l’accesso delle donne a certi ruoli e quando la distribuzione dei generi all’interno dei posti di comando sarà più equa, allora anche il ricambio sarà spontaneamente più equo. E a quel punto, forse, vivremo in un mondo migliore, con meno guerre, meno dimostrazioni di machismo e maschilismo tossico e più attenzione alle persone deboli e discriminate. In una parola, un mondo più libero.
» PENSIERI FRANCHI: Ammettiamolo, non è la politica il problema, ma la stampa
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Di solito succede mentre guido. Tengo gli occhi sulla strada, ma la mente si stacca da ciò che vedo o ascolto e inizia a vagare. Seguo pensieri che, nove volte su dieci, non portano da nessuna parte. Ma ogni tanto, uno prevale sugli altri. E allora comincio a scavare.
Questa volta è toccato alla stampa e al giornalismo, una professione che amo e a cui attribuisco un’importanza fondamentale per la salvaguardia della libertà e della verità. Senza la stampa, senza giornalisti e operatori coraggiosi, che in molti casi hanno dato la vita a questo scopo, non sapremmo nulla di quello che accade sui campi di battaglia che ancora oggi — anzi oggi più che mai — infettano il pianeta. Quello del giornalista è anche una professione che ho sempre sognato di fare e a cui pian piano mi sono avvicinato con rispetto e devozione, ottenendo un tesserino che spesso mi sento di portare immeritatamente.
Tutta questa lunga premessa per sgombrare il campo da qualsiasi tipo di pregiudizio nei confronti della stampa e dei giornalisti. Anzi, se un pregiudizio c’è, allora è positivo. Tuttavia, bisogna notare che spesso accusiamo la politica dei danni che in realtà sarebbero da attribuire alla stampa. Il dilagare di certi movimenti, il diffondersi di notizie false, di leggende che hanno danneggiato fortemente l’occidente e non solo, sono tutte da attribuire esclusivamente alla stampa.
Ricordo esattamente durante il COVID, soprattutto all’inizio, cosa accadde. Io stesso, pur ritenendo di avere i filtri necessari a leggere le notizie con la dovuta capacità analitica, inconsciamente assorbii l’allarmismo estremo fomentato dai giornali e dalle trasmissioni televisive il cui interesse era tutto lì: tenere alta la paura per rendere lo spettatore dipendente dall’ultimo telegiornale, dall’ultimo titolo, dall’ultima conta dei contagiati dal virus.
Senza accorgermene, sprofondai nel più totale degli stati di ossessione da contatto con l’estraneo. Uscivo una volta a settimana per fare la spesa al supermercato e ricordo molto chiaramente la paura che mi prendeva quando imboccavo una corsia e dall’altro lato spuntava un essere pericoloso che avrebbe potuto mettere a repentaglio la mia vita e quella dei miei cari: un altro essere umano.
A ripensarci oggi, vengo colto da un senso di pena, di commiserazione, persino di vergogna. Quando era penetrata in me l’angoscia e il senso di terrore verso qualcosa di cui nessuno, all’epoca, sapeva ancora niente? Eppure il martellante fuoco incrociato di web, stampa e tv non mi lasciarono scampo. A me come a molti altri, s’intende.
Da questo ragionamento mi è sorta una domanda: cosa ne sarebbe dei tanti movimenti no-qualcosa senza la stampa? Cosa ne sarebbe dei movimenti no-vax, no-5G, no-tav, no-trivelle? Cosa ne sarebbe di tutte quelle leggende che circolano in tutto il mondo, soprattutto nell’occidente cosiddetto sviluppato? Si sarebbe davvero diffusa la leggenda della pizzeria dove illustri personaggi (tra cui Hilary Clinton) sarebbero andati a consumare delitti orribili ai danni di bambini, senza l’aiuto della stampa? E i potenti che comandano il mondo, magari rettiliani, magari seduti alla guida di una banca o della comunità europea? E la storia di Bill Gates che avrebbe finanziato il laboratorio che ha sviluppato il Covid? Si sarebbero diffuse davvero tutte queste storie assurde senza l’aiuto della stampa?
Ecco, lo so cosa starete pensando ora: a diffondere tutto questo, compresi fenomeni non meno assurdi e gravi come l’odio verso gli stranieri e il dilagare delle destre estreme, non c’è la stampa, bensì i social network. Ne siamo così sicuri? È certamente vero che i social network hanno aumentato la velocità di diffusione e condivisione delle notizie, così come è certamente vero che i social funzionano da acceleratore naturale, da “volano” per la rabbia, l’odio sociale, l’intolleranza e per tutti i sentimenti peggiori che l’umanità può esprimere. E però, se i messaggi condivisi fossero di Franco Aquini da Biella, avrebbero una portata e una credibilità limitata, anzi limitatissima. Quando invece vengono condivisi articoli provenienti da testate giornalistiche o blog di autori rinomati (nella maggior parte dei casi anch’essi giornalisti), allora il messaggio ha un’autorevolezza completamente diversa e ne guadagna in autenticità.
Anche i social network, in altre parole, se non ci fosse niente da condividere, risulterebbero un contenitore sterile, adatto solo a conversare e a scambiarsi commenti tra utenti. In altre parole, quello che era Facebook in origine, prima dell’arrivo del newsfeed e dello sfruttamento di questo strumento da parte di politici senza scrupoli che hanno cavalcato questo fenomeno, rilanciando articoli di testate autorevoli o anche soltanto nate allo scopo di diffondere notizie false.
Però, alla base di tutto questo, non c’è la politica, che fa quello che ha sempre fatto. C’è invece una stampa che ha imparato troppo in fretta a cavalcare anch’essa il clamore, a rimestare nel torbido di una notizia pruriginosa, ad allestire palchi e salotti con plastici per analizzare un delitto che poteva dare scandalo e quindi fare audience.
La stampa e il giornalismo rappresentano un’arma potente, potentissima. Possono al tempo stesso scovare il marcio, denunciare soprusi, ingiustizie e abomini e ergersi a difesa della verità. Al tempo stesso, però, quando arriva nelle mani sbagliate, può fare più male di qualsiasi altro strumento. Può creare notizie false e attorno a queste orientare le decisioni di popolazioni intere. E quindi, più che dalla mala politica, forse dovremo cominciare a guardarci — seriamente — dalla mala stampa.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
Un articolo perfetto! La stampa ( o meglio la comunicazione) è da sempre la principale responsabile dei comportamenti delle persone.
Ma mentre una volta questo era limitato ai giornali, che pochi leggevano, oggi sopratutto con la televisione, l’informazione condiziona sempre più il pensiero di massa, condizionamento poi amplificato in maniera esponenziale dai social, che si limitano a condensare in un’immagine e qualche frase ( quella che più ha colpito) concetti che avrebbero bisogno come minimo di qualche approfondimento.
Ma purtroppo in tutto questo bailamme vedo che che le notizie sono sempre più lanciate e diffuse secondo la “moda” del momento, con un conformismo che a mio parere denota la mancanza di seria professionalità e competenza della maggior parte degli attori di questo grande circo
Alcuni miei amici sostengono che tutto questo e’ “voluto” ( non si sa bene da chi), quasi ci fosse un “grande vecchio” che tira le fila del tutto.
A mio modestissimo avviso ritengo invece che ciò sia dovuto a quanto ho appena sopra accennato, aggiungendo che la generale mediocrità e’ ulteriormente ingigantita dalla smania dell’ audience, in nome della quale si continua a scendere sempre più in basso per solleticare gli istinti meno nobili insiti in ciascun essere umano.
Ma guai a parlarne, per on offendere la “ libertà di espressione”!
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Buongiorno, Franco, ho letto il suo articolo e, pur rispettando la sua posizione, da donna dissento. Io non mi sono mai sentita subalterna a nessuno e non credo che gli uomini debbano invidiarmi qualcosa. Mi sento parte di un progetto ben più ampio, ho incontrato uomini gretti e donne altrettanto meschine. Lei scrive che "Nella vita di tutti i giorni, nelle famiglie, nella società, nella scuola, nelle istituzioni e nelle aziende private, essere donna significa vivere ancora delle discriminazioni insensate e anacronistiche..." bah, io no. Sono fortunata? Non so, forse sono solo fuori dalle narrazioni dominanti. Comunque non voglio dire di più, il mio non è un intento polemico, ma non mi va, da donna, di dire sì, ha ragione, tutto qui.