Stanno caricando i tuoi dati personali su Facebook, senza il tuo consenso
A riportarlo è un'indagine di Consumer Reports, ma chi lavora nel marketing digitale lo sa da tempo: c'è un modo per raccogliere e usare i dati personali senza consenso, a tutto vantaggio di Meta.
Tempo stimato per la lettura: 14 minuti
La parola di oggi: Lookalike, ovvero un pubblico che Facebook è in grado di creare a partire da alcuni dati sui profili. Grazie al suo patrimonio di informazioni su tre miliardi di utenti, può associare profili simili tra loro, permettendo alle aziende di fare pubblicità in modo mirato.
» PENSIERI FRANCHI: Giornalismo o diffamazione?
Sono capitati, di recente, due fatti che mi hanno fatto ripensare alla professione del giornalismo. Non quella che impropriamente esercito, ma quella più nobile e meritevole di chi si occupa di cronache, inchieste, reportage.
Alcune di queste inchieste oggi vengono svolte direttamente sui social, buttando tutto in faccia a un pubblico affamato di fatti da condannare e persone da insultare. Mi riferisco in particolar modo al fatto che ha denunciato Selvaggia Lucarelli, la recensione apparentemente falsa di una ristoratrice che intendeva farsi, secondo l’accusa della giornalista, un po’ di pubblicità gratuita. La persona in questione poi è stata trovata morta, si è trattato con buone probabilità di un suicidio, per cui le attenzioni degli odiatori si sono rivolte, in tempo zero, verso chi ha denunciato il fatto, la Lucarelli.
Un fatto simile è capitato pochi giorni dopo, per mano di un altro personaggio con moltissimi follower, non solo social. Questa volta era Fedez, che durante una puntata del suo “podcast Muschio Selvaggio”, prendendosela con un hater, ha mostrato in camera la foto di una persona sbagliata.
I due fatti sono molto diversi, perché da un lato abbiamo un’inchiesta giornalistica, dall’altra l’esercizio di un sorta di vendetta mediatica. La questione però è un’altra, e si può riassumere con la domanda:”che diritto abbiamo di sbattere sulla pubblica piazza persone comuni che non hanno la possibilità di difendersi, vista l’enorme sproporzione nell’esposizione mediatica?”.
Da un lato c’è chi ha un bazooka mediatico potentissimo, dall’altro c’è chi può usare come difesa, al massimo, dei sassolini. Non c’è proporzione. Qualcuno infatti l’ha chiamata “gogna social”. I social c’entrano poco, ma la gogna probabilmente è abbastanza azzeccata.
Detto questo, torniamo per un attimo sulla questione di base: la Lucarelli denunciava quella che secondo lei poteva essere una truffa (e d’altronde lei denuncia da anni soprusi, truffe e abusi in cui si imbatte quotidianamente). L’oggetto dell’accusa, tra l’altro, si era messa da sola nelle mani spietatissime di internet e dei social, pubblicizzando autonomamente la recensione in modo da trarne vantaggio. L’uomo del bar direbbe: se l’è cercata.
Ora io, incapace di trovare una risposta, conteso tra la legittimità del diritto di cronaca e la brutta sensazione che magari, con meno pressione sociale, si sarebbe potuto evitare un probabile suicidio, mi sono rifugiato nel “Testo Unico dei doveri del giornalista”, un testo al quale bisognerebbe ricorrere un po’ più spesso. Infatti si scopre che, a volerlo rispettare, metà della stampa e delle trasmissioni televisive sarebbe da buttare nel cesso. Faccio qualche esempio:
Tolto un generico seppur fondamentale “[il giornalista] applica i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network”, troviamo questo: “rispetta il diritto all’identità personale ed evita di far riferimento a particolari relativi al passato, salvo quando essi risultino essenziali per la completezza dell’informazione”. Quante volte abbiamo visto rispettato questo principio di non scavare nel passato delle persone soltanto per aggiungere dettagli piccanti o pruriginosi?
“Nel diffondere a distanza di tempo dati identificativi del condannato valuta anche l’incidenza della pubblicazione sul percorso di reinserimento sociale dell’interessato e sulla famiglia, specialmente se congiunto (padre, madre, fratello) di persone di minore età”. Qualcuno ricorda qualche testata che si sia fatta scrupolo di parlare di un ex-condannato alle prese col reinserimento sociale?
Questa fa persino sorridere, per quanto viene completamente stracciata quotidianamente: ”Si attiene [il giornalista] all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso”. Non sto neanche a commentare.
Attenzione a questa, perché è importante: ”evita nella pubblicazione di notizie su argomenti scientifici un sensazionalismo che potrebbe far sorgere timori o speranze infondate avendo cura di segnalare i tempi necessari per ulteriori ricerche e sperimentazioni; dà conto, inoltre, se non v’è certezza relativamente ad un argomento, delle diverse posizioni in campo e delle diverse analisi nel rispetto del principio di completezza della notizia”. Pensate a tutte i titoli tipo “Trovata la cura per il cancro!”.
La professione del giornalista è una professione nobile, che va salvaguardata e protetta. Il giornalismo serve a informare, a portare a galla i fatti, a permettere di farci una nostra idea delle cose senza il filtro viziato e distorto di chi ha un interesse diretto. Però è anche un’arma potente, che va utilizzata con un grandissimo senso di responsabilità. Quando si hanno a disposizione le pagine di un giornale o un account social con migliaia, quando non milioni di utenti, si ha il potere di distruggere le vite. È qui che interviene l’etica della professione ed è qui che dovrebbe intervenire l’ordine. Per Fedez giudicheranno i tribunali, ma nel caso della Lucarelli, qualcuno dovrebbe rispondere alla domanda di base: “è giornalismo o è qualcos'altro?”.
Buona lettura.
Franco A.
» I TUOI DATI, SENZA IL TUO CONSENSO, VENGONO CEDUTI OGNI GIORNO A FACEBOOK
Viviamo in tempi in cui la privacy non è più un argomento trascurabile. È ormai diffusa una certa sensibilità sul fatto che dei dati altrui non si possa fare qualsiasi cosa. Se vogliamo inviare una newsletter a un gruppo di persone, come quella che state leggendo, bisogna adempiere a una serie di obblighi: bisogna raccogliere il consenso della persona e dare a quest’ultima la facoltà, in ogni momento, di poter cancellare i propri dati.
Se domani impazzissi e decidessi di iscrivere a questa newsletter tutti i contatti della mia rubrica di posta, cosa succederebbe? Probabilmente niente, ma sarei comunque esposto a due reazioni da parte delle persone che ho aggiunto volontariamente: 1) nel migliore dei casi potrebbero chiedermi di essere cancellati oppure 2) potrebbero chiedermi, legittimamente, chi mi ha dato il permesso di utilizzare un loro dato personale, l’indirizzo email, senza il loro consenso e, nel caso peggiore, potrebbero rivolgersi alle autorità competenti.
C’è però un caso in cui potrei utilizzare i dati personali di queste persone, non solo l’indirizzo email, senza il loro consenso, senza che nessuno sappia nulla e dunque senza rischiare alcunché. Così, alla chetichella, potrei fare anche un uso commerciale di quei dati e persino, ancora peggio, cedere quei dati a terzi per finalità di marketing, senza che nessuno sappia niente.
Persino l’utente finale, che poi è il vero danneggiato in tutta questa operazione, non saprebbe niente del fatto che i suoi dati sono stati utilizzati contro il suo volere. Una grande, enorme falla nella protezione dei dati personali, di cui nessuno oggi sembra essersi preoccupato, se non un articolo apparso qualche giorno fa su theverge.com.
48.000 aziende hanno ceduto dati personali a Facebook
L’articolo di theverge.com titola proprio così:”48.000 aziende hanno inviato dati di Facebook su una sola persona” e continua “uno studio di Consumer Reports ha rilevato che migliaia di aziende contribuiscono agli archivi di dati di Facebook su ogni persona”. Quello che spiega è davvero molto semplice e noto a chiunque abbia mai usato lo strumento professionale di Meta, ovvero Facebook Ads.
Lo strumento pubblicitario di Meta, che permette di fare pubblicità su Facebook, Instagram e Whatsapp (al momento manca ancora Threads), ha infatti una caratteristica precisa e unica: la possibilità di creare dei pubblici detti Lookalike, in gergo tecnico LAL.
Questo tipo di targettizzazione avanzata è la vera specialità di Meta ed è il motivo per cui il suo strumento pubblicitario viene utilizzato da tante aziende nel mondo. Funziona così: tu gli dai un campione e gli chiedi di crearti un pubblico di persone che - secondo una serie di parametri - sono simili al campione.
Proviamo a fare un esempio: ho una lista di persone che possiedono un gatto e che, di conseguenza, acquistano alimenti per gatti. Con lo strumento di Meta, posso chiedergli di mostrare il mio annuncio pubblicitario ai profili simili a quelli che gli ho fornito. Ovviamente non mi dirà mai chi sono queste persone, ma a me non importa, a me basta che quelle persone vedano il mio annuncio, perché so già che saranno interessate all’argomento e che quindi la loro propensione all’acquisto del mio prodotto sarà infinitamente più alta di un pubblico qualsiasi.
Come si fa tutto questo? Banalmente con un indirizzo email: posso caricare su Meta un file excel con un elenco di indirizzi email corrispondenti a profili di persone che comprano alimenti per gatti e Meta creerà un pubblico anche molto più grande di quello che gli ho fornito. Da mille indirizzi email posso ottenere un pubblico di milioni di utenti. Naturalmente più amplierà il pubblico, più mi allontanerò dal target ideale. Ma ora capite qual è la potenza di questo strumento?
Carichi dati senza permesso e nessuno ti chiede niente
Ora, tecnicamente, per fare questo tipo di pubblicità basta avere un elenco di indirizzi email o numeri di telefono di persone. Non importa come siate venuti in possesso di questi dati, nessuno ti chiederà nulla quando li carichi. Tramite quei dati, che corrisponderanno a profili di utenti su Facebook, Meta sarà in grado di ricostruire non solo le informazioni che gli servono, ma molte altre.
Facciamo un altro esempio: Franco Aquini ha un profilo su Facebook col quale ha messo “mi piace” a pagine di musica e di arredamento. Sovente mette anche like ai video di gruppi metal e quando passa un annuncio di un nuovo disco Black Metal, guarda il video fino in fondo.
A un certo punto arriva una casa discografica che produce gruppi metal. La casa discografica sa che Franco Aquini è un amante di uno dei gruppi che produce perché in passato si è iscritto alla newsletter con lo scopo di rimanere informato sulle prossime uscite discografiche del gruppo. Quindi inserisce l’email di Franco Aquini in un file che carica sullo strumento pubblicitario di Meta, chiedendogli di creare un pubblico di persone simili a Franco Aquini.
A questo punto, Meta cercherà nel proprio, inestimabile database di dati personali, alla ricerca di persone che, come Franco Aquini, hanno messo “mi piace” a pagine di gruppi Metal e che facilmente reagiscono a post e inserzioni sul tema. Creerà quindi un pubblico di persone simili, senza farlo vedere alla casa discografica, ma utilizzandolo comunque come target.
Facendo questo, però, la casa discografica avrà utilizzato un mio dato personale senza avermi chiesto il permesso. Io, il consenso, gliel’avevo dato per la newsletter, non per essere targettizzato da altre pubblicità su Facebook. Oltre a questo, se per sbaglio Meta non avesse avuto un’informazione sul mio profilo, tipo il fatto che mi piace quel gruppo Metal, in questo modo potrebbe completare il suo database in maniera ancora più dettagliata, grazie alle informazioni che gli darà la casa discografica.
Chi sono i data broker e come funziona un Pixel
Torniamo per un attimo all’articolo di theverge.com, che cita lo studio fatto sul caso da consumerreports.org e The Markup. Quest’ultima è "una redazione investigativa senza scopo di lucro che sfida la tecnologia per servire il bene pubblico”.
Cito l’articolo di consumerreports.org:”Utilizzando un gruppo di 709 volontari che hanno condiviso gli archivi dei loro dati di Facebook, Consumer Reports ha scoperto che un totale di 186.892 aziende hanno inviato dati su di loro al social network. In media, ogni partecipante allo studio ha fatto inviare i propri dati a Facebook da 2.230 aziende. Quel numero variava in modo significativo, con i dati di alcuni relatori che elencano oltre 7.000 aziende che forniscono i loro dati. The Markup ha aiutato Consumer Reports a reclutare partecipanti per lo studio. I partecipanti hanno scaricato un archivio dei tre anni precedenti dei loro dati dalle loro impostazioni di Facebook, poi lo hanno fornito a Consumer Reports”.
Quello che ho descritto nel paragrafo precedente, ovvero la possibilità di caricare un elenco di indirizzi email direttamente tramite lo strumento pubblicitario di Facebook, è soltanto una delle possibilità che offre lo strumento. Un pubblico LAL si può creare anche partendo dai dati contenuti nel Pixel di Facebook, che è un raccoglitore di dati che si può “installare” su un sito web.
Il Pixel è, di base, un codice che analizza il comportamento degli utenti fuori da Facebook. Se, per fare un altro esempio, da Facebook cliccate su un annuncio di arance siciliane e andate sul sito dell’azienda che le vende, visitate altre tre pagine e poi acquistate, Facebook raccoglierà quei dati. Ma proprio tutti, anche quello che avete comprato, quanto ne avete comprato e quanto avete speso.
Ecco, l’azienda a quel punto potrà chiedere a Meta: “mi costruisci un pubblico di utenti simili a quelli che negli ultimi 30 giorni hanno acquistato sul mio sito?”. I dati raccolti dal Pixel di Facebook sono dati server-to-server, non passano mai nelle mani del proprietario del sito. Ciononostante, esistono anche servizi che raccolgono dati per poi rivenderli alle aziende che ne hanno bisogno proprio per costruire pubblici e target simili. Questi servizi si chiamano “Data Broker”.
Riprendo consumerreports.org:”Raccogliendo dati in questo modo, lo studio è stato in grado di esaminare una forma di tracciamento che è normalmente nascosta: il cosiddetto tracciamento server-to-server, in cui i dati personali passano dai server di un'azienda ai server di Meta. Un'altra forma di tracciamento, in cui i pixel di Meta sono posizionati sui siti web aziendali, è visibile ai browser degli utenti”.
Come difendersi dai tracciamenti involontari e dall’uso non autorizzato dei propri dati
Ma insomma, arrivati a questo punto, cosa possiamo fare per evitare che i nostri dati vengano utilizzati contro il nostro volere? Non possiamo rivolgerci agli enti preposti per la tutela dei nostri dati?
Come sapete, la Comunità Europea si sta adoperando da anni per rendere la vita di questi colossi un po’ meno facile. È proprio per questo motivo che Meta è stata costretta ad attivare l’abbonamento che, in teoria, dovrebbe servire proprio a evitare che i vostri dati vengano utilizzati a questo scopo. Anche Apple, a partire dalla versione 14 di iOS, ha introdotto uno strumento per impedire ai siti web e alla app di tracciare i nostri comportamenti fuori dall’app.
Perché Facebook e Instagram ci stanno chiedendo dei soldi? 💶
Tempo stimato per la lettura: 12 minuti La parola di oggi: targettizzazione, ovvero la possibilità che offrono piattaforme pubblicitarie digitali di individuare un target molto preciso negli interessi e nelle caratteristiche anagrafiche.
Sono passi avanti importanti, ma non sono ancora abbastanza perché, di base, io vorrei che ogni qualvolta un’azienda utilizzi un mio qualsiasi dato per costruire un pubblico, Facebook mi mandasse un’email chiedendomi “sei d’accordo che l’azienda X carichi questi dati che ti riguardano per la costruzione di un pubblico da utilizzare negli annunci pubblicitari?”. Ecco, questa email ancora non mi è mai arrivata.
Intanto imparate a fare una cosa banale: quando siete su un sito web e si apre il banner che vi chiede il consenso all’uso dei cookie, prima di premere il tasto “accetto tutti”, provate a dare uno sguardo a quanti e quali cookie utilizza il sito. Se sono in regola con la normativa, dovrebbero elencare tutti i cookie e la finalità. Se i cookie tecnici sono innocui, quelli a cui prestare particolare attenzione sono invece quelli di profilazione con finalità di marketing. Ecco, questi, se volete, non attivateli. Tutti i siti dovrebbero prevedere questa possibilità.
Poi ci sono mille altri sistemi per ovviare a un tracciamento non dichiarato: dai browser che vi nascondono (Tor e simili) alle VPN che nascondono anche l’indirizzo IP col quale vi collegate. La scelta è ampia. Tuttavia è incredibile che ancora oggi, con tutta l’attenzione che viene posta all’uso commerciale dei dati personali, ci siano aziende importanti che ne fanno un uso così “allegro”.
L’articolo di Consumer Reports, in ogni caso, riporta anche la dichiarazione ufficiale di un portavoce di Meta, Emil Vazquez, che dice:«Offriamo una serie di strumenti di trasparenza per aiutare le persone a capire le informazioni che le aziende scelgono di condividere con noi e gestire come vengono utilizzate». Di nuovo lo scudo dello strumento che permette agli utenti di cancellare i dati, vi ricordate quando ne parlammo nell’insalata sugli smartphone che ci ascoltano?
Le aziende a un certo punto mettono a disposizione degli utenti uno strumento col quale questi ultimi possono cancellare i dati raccolti e utilizzati in vari modi (ricavandone milioni, miliardi di dollari) e poi ti dicono “va bene, ma tu puoi cancellare questi dati in ogni momento”. Non so, sbaglierò, ma mi suona un po’ come se andassi a rubare la legna dal vicino e poi gli dicessi “va bene ma tu sai che ce l’ho io, puoi venire a riprendertela in qualsiasi momento”. Eh no, non funziona così.
In ogni caso, lo studio di Consumer Reports ha scoperto una cosa interessante (tenete presente che i partecipanti allo studio sono americani), ovvero che: ”Una società è apparsa nel 96% dei dati dei partecipanti: LiveRamp, un broker di dati con sede a San Francisco. Ma le aziende che condividono la tua attività online su Facebook non sono solo broker di dati poco conosciuti. Negozi come Home Depot, Macy's e Walmart, erano tutti tra le prime 100 aziende più ricorrenti nello studio. LiveRamp non ha risposto a una richiesta di commento”.
È vero, qualcuno potrà obiettare che i dati caricati corrispondono ai profili di utenti che sono già iscritti a Facebook/Instagram e che quando si sono iscritti, con buone probabilità avranno accettato qualche condizione che prevede anche questo genere di utilizzo dei loro dati. Rimane però un fatto: io il consenso l’ho dato a Facebook (Meta) e se questi dati circolano tra aziende che non sono Meta, beh, io vorrei quantomeno saperlo e poter esercitare il diritto di evitarlo, voi no?
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
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