Il business della nostalgia: quando il passato diventa un prodotto (e un’arma)
Dai vinili a Stranger Things, dai discorsi politici agli slogan da bar: la nostalgia è ovunque. Non solo ricordi, ma un motore che muove marketing, cultura e potere.
Alzi la mano chi non si ferma a guardare quei video che, di tanto in tanto, compaiono sui social mostrando i giocattoli del passato e tutti quegli oggetti che ci ricordano l’infanzia. Su internet esistono interi siti dedicati alla cultura degli anni ’70, ’80 e oltre.
Sui social, poi, non ne parliamo: gruppi di appassionati e video che ripropongono le pubblicità dei pomeriggi della mia generazione, la generazione X. Tornati da scuola, ci piazzavamo davanti alla TV fino a sera (altro che smartphone: noi sì che abbiamo rischiato una vera dipendenza. Eppure nessuno di noi l’ha mai davvero sviluppata, ma questo è un altro discorso).
Oggi tutto è tarato sulla nostalgia, perché la nostalgia è prima di tutto un business. Non può essere un caso se Mulino Bianco, a un certo punto, ha deciso di reintrodurre le sorpresine nella classica scatolina simile a quella degli anni ’80, arrivando perfino a riproporre alcuni dei regali delle vecchie raccolte punti. D’altronde i bambini degli anni ’80 sono gli adulti di oggi. Gli stessi adulti che, almeno sulla carta, hanno maggiore potere d’acquisto.
Il marketing della nostalgia, però, non si limita alle merendine o alle tazze per la colazione e non è un fenomeno soltanto italiano. Passa anche per il ritorno dei dischi in vinile, ormai immancabili in ogni nuova uscita discografica. Molti di voi avranno sicuramente in casa la riproduzione della prima PlayStation in versione “mini” e la maggior parte avrà usato Netflix almeno una volta per guardare Stranger Things, la serie horror-fantastica che è un concentrato di citazioni anni ’80.
Ma le serie TV e la musica non sono il punto di arrivo del marketing della nostalgia. Chi volesse osservare fenomeni più seri e impattanti nella vita quotidiana potrebbe guardare ai risultati elettorali dei partiti conservatori. Avrei potuto dire “di destra”, ma non è un caso se in tutto il mondo la destra assume questo connotato — conservatore — che è già un manifesto di intenzioni. Conservatore significa guardare al passato, mantenere ciò che è stato e trasformarlo in ciò che sarà. Anzi, per molti si parla esplicitamente di “nostalgia”: il cerchio, dunque, si chiude.
Nostalgia dei tempi andati, quando si poteva uscire per strada senza rischi, quando si lasciava la chiave infilata nella porta di casa senza paura che qualcuno entrasse. Nostalgia dei tempi in cui da bambini si giocava all’aperto, con i “giochi sani”, senza smartphone né videogiochi a intossicare la crescita dei giovani italiani. Qualcuno di voi, leggendo Insalata Mista, avrà colto in queste righe un tono vagamente ironico. È evidente che quel periodo idilliaco non è mai esistito, se non nella nostra testa. La memoria tende per natura a conservare solo la parte migliore del passato e, in molti casi, a riadattare i ricordi per renderli più belli, accettabili e confortanti.
La nostalgia, in ogni caso, è il vero motore degli anni che stiamo vivendo. È il motore del marketing, della nostra felicità, delle nostre scelte etiche, morali e politiche. Ma perché? Cosa rende la nostalgia così potente nelle decisioni di tutti i giorni? È un fenomeno moderno o ha sempre influenzato le persone? Le risposte, come sempre, in questa Insalata Mista.
Il marketing della nostalgia
La nostalgia non è solo un sentimento: è una delle strategie di marketing più potenti del nostro tempo. Le aziende lo sanno bene, e da anni costruiscono campagne che non vendono soltanto prodotti, ma la sensazione rassicurante di tornare indietro a un’epoca in cui “tutto sembrava più semplice”.
Non si tratta solo del caso Mulino Bianco che citavo nell’introduzione, il fenomeno è globale e trasversale a tutti i settori. Le lattine Coca-Cola in edizione retrò, le sneakers Adidas Stan Smith e Puma Suede rilanciate con design identici agli originali, le etichette vintage di birre e vini: tutti esempi concreti di come i brand capitalizzino sulla memoria collettiva.
Secondo una ricerca riportata da Amra & Elma, il 75% dei consumatori si dichiara più incline a comprare quando una campagna evoca ricordi positivi. Ipsos, che ha dedicato al tema della nostalgia uno studio che è un pozzo di informazioni e che citerò più volte in questa Insalata, conferma che i richiami nostalgici generano un “effetto comfort” che aumenta la fiducia verso il marchio e la propensione a spendere.

Non si tratta solo di estetica, ma di neuroscienze applicate. Lo studio “Nostalgia and Consumer Behavior” di Weingarten ha mostrato che i ricordi attivati dalla nostalgia stimolano aree cerebrali legate al piacere e alla socialità, con un effetto diretto sull’autostima e sulla sensazione di appartenenza. Come vedete, i meccanismi di piacere e ricompensa sono sempre gli stessi e non sono per forza negativi. Per questo non ha senso accoppiare videogiochi e social network alla droga o alla dipendenza per via degli effetti legati al piacere che provocano, come fanno alcuni personaggi intellettualmente disonesti (e qui giuro che la smetto con le polemiche).
In pratica, acquistare un prodotto che richiama il passato non significa solo possederlo, ma anche sentirsi parte di una comunità che condivide le stesse memorie. E questo meccanismo è così potente che spesso funziona anche con chi quel passato non l’ha mai vissuto: pensiamo al successo del look anni ’80 tra i più giovani, che hanno adottato quell’estetica come fosse la loro. Ma anche alla diffusione di merchandising che richiama band del passato tra i più giovani. La maggior parte di loro non conosce quelle band (parlo di Nirvana, Guns N' Roses, ecc.), ma riconosce che quelle band appartengono a un periodo “cool” e ne sposano comunque il look, l’estetica e il ricordo tramandato.
Il marketing della nostalgia, però, non è privo di rischi. Come sottolinea Progress, se il richiamo al passato è troppo generico o percepito come artificiale, può produrre l’effetto opposto: smascherare la costruzione pubblicitaria e allontanare i consumatori. È il motivo per cui i brand devono calibrare con attenzione la dose di revival, cercando autenticità e coerenza piuttosto che un semplice “effetto vintage”. Lo sa bene chi ha acquistato una riproduzione di un vecchio Atari 2600 o la versione mini del Commodore 64, per fare qualche esempio.
Musica, TV e cinema: il passato che non passa
Se c’è un terreno in cui la nostalgia ha trovato linfa vitale, quello è la cultura pop. La musica, per esempio, è il caso più eclatante: il vinile, considerato morto a metà anni ’90, è tornato a crescere anno dopo anno. Nel 2023 negli Stati Uniti si sono venduti 43 milioni di LP, superando i CD per il secondo anno consecutivo e portando il vinile al livello più alto dal 1987.
In Italia, la FIMI ha registrato un aumento del 17% nel primo trimestre del 2025 confrontato con lo stesso periodo del 2024, con i dischi in vinile che valgono ormai quasi due terzi del mercato fisico. Non è solo un fenomeno di revival per nostalgici: il 48% degli acquirenti di vinili ha meno di 35 anni, segno che il fascino dell’oggetto retrò contagia anche chi non ha mai vissuto l’epoca in cui era mainstream.
Al cinema e in TV la tendenza è ancora più evidente. Hollywood è in piena “sequel-mania”: nel 2023 oltre il 40% delle produzioni cinematografiche americane è stato remake, reboot o continuazione di franchise già esistenti (sempre Ipsos). La Marvel rilancia ciclicamente i suoi supereroi, Disney ripropone i classici in versione live-action, mentre saghe come Ghostbusters, Matrix e Jurassic Park vengono rianimate ogni dieci anni per le nuove generazioni. La nostalgia funziona come garanzia di pubblico: si entra in sala non tanto per scoprire qualcosa di nuovo, ma per rivivere un’emozione familiare.
La televisione non è da meno. Stranger Things è il manifesto di questo trend: una serie che mescola horror, fantascienza e adolescenza in un impasto estetico che cita senza pudore gli anni ’80, dai synth di John Carpenter ai poster di I Goonies. Netflix l’ha trasformata in una miniera d’oro di merchandising, dai giochi da tavolo alle magliette con il logo “Hellfire Club”. Ma non è sola: Cobra Kai ha riportato in vita Karate Kid con enorme successo, mentre serie come Dark o Black Mirror hanno usato l’immaginario retrò come linguaggio visivo per parlare al presente.
Anche l’industria dei videogiochi segue lo stesso copione. Nintendo ha venduto milioni di unità delle console NES e SNES Mini, riproduzioni ridotte delle macchine originali cariche di titoli classici. I remake di Final Fantasy VII e Resident Evil 4 hanno incassato più di molte produzioni nuove, dimostrando che il passato è spesso un investimento più sicuro del futuro. Il messaggio è chiaro: il passato non è più un archivio da consultare, ma una materia prima da sfruttare, rielaborare e vendere.
La politica della nostalgia
Se il marketing sfrutta la nostalgia per vendere prodotti, la politica la utilizza per vendere visioni del mondo. È un meccanismo potente, perché agisce non solo sui ricordi individuali ma sulla memoria collettiva: quel bagaglio di immagini, racconti e simboli che una comunità condivide e riconosce come “passato comune”. Gli slogan lo dicono chiaramente: “Make America Great Again” negli Stati Uniti, “Take Back Control” durante la Brexit, “Italia agli Italiani” nei comizi nostrani. Sono formule che guardano indietro e promettono di restituire un’età dell’oro che in realtà non è mai esistita. E se tutto questo funziona nelle vendite, perché non dovrebbe funzionare al seggio elettorale?
I dati confermano la forza di questo richiamo. In un sondaggio Ipsos/Effie, a una domanda diretta – «Vorrei che il mio Paese fosse com’era un tempo» – una parte significativa degli intervistati in Europa e Nord America ha risposto positivamente. È la dimostrazione che la nostalgia politica non è una semplice retorica, ma intercetta un sentimento diffuso: il desiderio di stabilità e sicurezza di fronte a un presente percepito come instabile. Non stupisce quindi che i partiti conservatori in tutto il mondo facciano leva su questi temi, dalla destra americana ai governi nazionalisti dell’Est Europa.
Non è però un’abitudine relegata alla destra. Si legge sul report Ipsos:«Il sociologo Zygmunt Bauman ha coniato il termine "Retrotopia" per descrivere il desiderio sociale di “ritorno" a un passato spesso immaginario. Mentre l'estrema destra cerca un "ritorno allo Stato-nazione", la sinistra auspica un "ritorno all’uguaglianza". La nostalgia riguarda tutti. A livello globale, c'è solo una differenza di 8 punti percentuali tra le fasce d’età che desiderano che il loro Paese torni ad essere com'era una volta, e praticamente nessuna differenza tra chi ha tra i 25 e i 30 anni e chi ha circa 75 anni».
Gli studiosi Cristina Baldassini e Giovanni Belardelli, nel volume “La politica della nostalgia”, sottolineano come questo sentimento possa essere coltivato “dal basso”, come reazione spontanea dell’opinione pubblica, ma anche “dall’alto”, come strategia consapevole dei leader (La politica della nostalgia, Marsilio, 2024). Non è solo la gente comune a rimpiangere i “bei tempi andati”: sono gli stessi politici a fabbricare narrazioni del passato, selezionando e semplificando gli eventi per costruire consenso. È un processo che trasforma la nostalgia in un’arma retorica: idealizzare il passato diventa un modo per criticare il presente e delegittimare chi governa.
L’Italia non è estranea a questa dinamica. La frase “quando si poteva lasciare la chiave nella porta” è diventata quasi un mantra nei discorsi da bar e nei comizi, così come l’idea che “i giovani di oggi non hanno più valori”. Sono narrazioni che richiamano un passato idilliaco, fatto di ordine, famiglie unite e società più sicure. In realtà, i dati storici raccontano altro: gli anni ’70 furono segnati da terrorismo e criminalità diffusa; gli anni ’80 da droga, corruzione e precarietà lavorativa. Ma la memoria collettiva tende a selezionare il positivo, scartando il resto.
Il pericolo, come avvertono diversi analisti politici, è che questa nostalgia si trasformi in una lente deformante che impedisce di affrontare i problemi reali. E il rischio è che, a furia di cercare rifugio in un passato idealizzato, si finisca per smettere di progettare soluzioni nuove. In questo senso, la politica della nostalgia non è solo un fenomeno culturale, ma un ostacolo concreto all’innovazione sociale ed economica.
Perché la nostalgia è così potente (e lo è sempre stata)
La nostalgia non è solo un sentimento romantico: è un meccanismo psicologico e sociale con basi solide nella neuroscienza. Quando rievocano ricordi positivi, il cervello rilascia dopamina e serotonina, neurotrasmettitori associati al piacere e al benessere. È per questo che ricordare “i bei tempi andati” non è un gesto innocente, ma un’esperienza che produce una gratificazione reale, misurabile a livello biologico (ScienceDirect). Gli studi mostrano che la nostalgia rafforza anche l’autostima: ci ricorda chi siamo stati, cosa abbiamo superato, quali comunità e legami abbiamo vissuto. In altre parole, è una “pillola di senso” che ci aiuta a collocarci in un flusso temporale coerente.
Ipsos, sempre nel report 2024, spiega che la nostalgia è particolarmente potente nei momenti di crisi collettiva: pandemie, recessioni, guerre, instabilità politica. Quando il futuro appare incerto, il passato diventa una risorsa psicologica di stabilità. Non a caso, il boom delle campagne nostalgiche è coinciso con la pandemia di Covid-19, quando brand e piattaforme hanno ripescato vecchi simboli per offrire conforto ai consumatori. In questo senso, la nostalgia funziona come un meccanismo di coping1, un modo per ridurre ansia e stress legati al presente.
Ma la nostalgia è sempre esistita o è un fenomeno moderno? La risposta è che accompagna l’uomo da secoli. Il termine stesso nasce nel Seicento, coniato dal medico svizzero Johannes Hofer nel 1688 per descrivere il “male del ritorno”: la malinconia dei soldati svizzeri lontani da casa. All’epoca era considerata una vera malattia, con sintomi fisici e psicologici. Con il tempo, la parola ha perso l’accezione clinica, ma non la forza: nel XIX secolo la nostalgia era già usata in letteratura e politica per evocare un passato idealizzato, dal romanticismo europeo fino ai nazionalismi. Oggi il meccanismo è lo stesso, ma amplificato da media e marketing, che lo trasformano in leva economica e culturale.
Il paradosso è che la nostalgia non si limita a ricordare il passato: lo ricostruisce, selezionando i momenti positivi e cancellando o attenuando quelli negativi. Così l’infanzia diventa sempre felice, gli anni ’80 sempre spensierati, la giovinezza sempre più pura. È un filtro che consola, ma che rischia anche di ingannare. Da una parte, ci aiuta a sentirci meglio e a costruire identità condivise; dall’altra, può diventare una gabbia che ci impedisce di immaginare un futuro diverso.
La nostalgia è potente perché agisce su più livelli contemporaneamente: biologico (rilascio di sostanze del benessere), psicologico (rafforzamento dell’identità e dell’autostima), sociale (creazione di comunità e senso di appartenenza) e politico (costruzione di narrazioni collettive). È sempre esistita, ma oggi, nell’era dell’incertezza e dei media onnipresenti, è diventata un motore centrale della cultura, del consumo e della politica. Un motore che può rassicurare, ma che va maneggiato con cautela: a furia di consumare il passato, rischiamo di smettere di progettare il futuro.
I PENSIERI FRANCHI
Cadere in una truffa senza accorgersene
Ora vi aspettereste che vi parli di qualche truffa in cui è caduto un mio conoscente, lo so. Molti di voi leggono quello che scrivo e si sono fatti di me un’idea lusinghiera che però, purtroppo per me, non corrisponde alla realtà. Non sono quello che sa tutto di tutto, né la persona la cui cultura sbuffa violentemente sotto il coperchio di una pentola che bolle. Niente di tutto questo e infatti, la vittima della truffa del titolo, sono proprio io.
Ve ne parlo per due motivi principali: il primo è mettervi in guardia; il secondo è raccogliere quante più testimonianze possibili per organizzare un piccolo gruppo e agire legalmente. Ogni giorno che passa vengo a sapere di qualcuno che, come me, è caduto nel tranello e comincio a pensare che siamo in molti. Molti più di quanto mi aspettassi all’inizio.
Per un po’, infatti, non ne ho parlato e non ho fatto altro che biasimarmi per quanto sono stato ingenuo e poco attento nel firmare un contratto chiaramente vessatorio. Poi, però, ho conosciuto diverse persone cadute nel mio stesso errore. Persone delle quali ho grande stima: questo ha alleviato un po’ il dolore.
Soprattutto, sono passato dalla rabbia per aver accettato un contratto truffaldino alla consapevolezza di una vera e propria truffa organizzata secondo un copione preciso. Un copione che prevedeva anche una certa performance attoriale da parte del venditore. Ho avuto la certezza del fatto criminale quando ho sentito altre persone raccontare una vicenda identica, per filo e per segno, alla mia. Troppe coincidenze per essere casuali.
Arrivo al dunque: c’è di mezzo l’acquisto di un’auto con uno di quei contratti che ti permettono di cambiarla ogni tre anni. Io percorro molti chilometri l’anno e quindi cambiavo spesso auto. Avevo già fatto due “giri” con Ford e mi ero trovato molto bene. Questo è un dettaglio importante: aver già usato queste formule mi ha fatto avvicinare al nuovo contratto con più leggerezza di quanto avrei dovuto.
Avrei fatto anche il terzo rinnovo in Ford, se non fosse successo un imprevisto (e qui, concedetemelo, un po’ di sfortuna c’è). Nell’agosto 2022 mi rubarono l’auto in vacanza (l’ho raccontato anche su queste pagine) e mi trovai nella necessità di procurarmene una in fretta. Non in un periodo qualsiasi, ma nell’agosto 2022: l’anno della crisi dei componenti, quando i concessionari non avevano auto in salone nemmeno a pagarle oro. Tantomeno auto a gasolio, come cercavo io.
Per questo iniziai a chiamare i concessionari della zona chiedendo quali auto avessero in pronta consegna. Ne trovai uno a Vercelli, non troppo distante da casa. L’auto era un po’ sopra la mia portata, ma l’offerta che mi fecero era troppo invitante — forse troppo. Feci quindi un finanziamento lungo con “uscita” a tre anni, ormai un classico, quasi obbligatorio in parecchi concessionari. Dentro misero anche tutta la manutenzione, il cambio gomme e l’assicurazione. Non male, pensai. Specificai alla venditrice che al termine dei tre anni avrei voluto fare il cambio “alla pari”: niente altro denaro, semplicemente continuare a pagare la rata sostituendo l’auto. Lo ripetei più volte, in modo che potesse tarare la rata in maniera corretta.
La proposta che mi fece, a detta sua — purtroppo solo a parole —, avrebbe garantito addirittura una plusvalenza al momento della restituzione, grazie a un “super bonus” che la concessionaria mi avrebbe riconosciuto se fossi rimasto loro cliente. E così l’auto mi fu consegnata. Quando arrivarono fattura e prospetto del finanziamento, mi assalì un dubbio atroce e chiamai subito la concessionaria. La venditrice mi tranquillizzò: al termine dei tre anni, non avendo usufruito dei servizi sull’intero periodo (il finanziamento, su carta, era di sette anni), mi sarebbero stati restituiti interessi e servizi non goduti, più il famoso super bonus, a copertura del disavanzo. “Stia tranquillo”, mi disse. Me la feci andare bene, anche perché la concessionaria contava una decina di saloni in tutto il Piemonte: difficile pensare fossero dei truffatori.
Passarono due anni e tornai in concessionaria per una simulazione di cambio auto. Lì, la sorpresa: per estinguere l’auto avrei dovuto restituire una somma molto superiore al valore dell’auto da nuova. In pratica avevo buttato tre anni di rate. Non solo: i servizi offerti valevano non più di 500 euro l’anno, stando a quanto mi è stato poi effettivamente restituito al saldo.
L’incredibile, però, fu il teatrino messo in scena per convincermi a cambiare auto e restare loro cliente: dalle rassicurazioni al telefono al “licenziamento” della venditrice che mi aveva seguito, fino al passaggio al venditore anziano, quello “esperto”, che avrebbe trovato la soluzione al pasticcio creato dalla collega “disonesta”. Non vi sto a raccontare le scene nei tre incontri in salone, con il venditore esperto che fingeva telefonate per accordarmi un tasso “particolare”, dedicato al cliente sfortunato.
Alla fine mi sono reso conto che stavo per ricadere nel trappolone: una soluzione solo in apparenza tale, che in realtà avrebbe allargato la voragine di denaro che già dovevo alla finanziaria. Presa coscienza di questo, ho mollato tutto e ho riscattato l’auto pagando l’esagerata somma che risultava a mio debito.
La stessa identica prassi — ma davvero identica — è capitata a due miei amici/colleghi, con tanto di “licenziamento” e scena del venditore esperto. Dettagli che mi hanno fatto capire che no, non si è trattato dell’errore di una venditrice che, pur di farmi prendere un’auto superiore a quella che volevo, ha tarato male la rata. No: quello di queste concessionarie è un modus operandi preciso, che fa in modo che al termine del triennio tu abbia un vincolo non con loro, ma con la finanziaria. E sappiamo tutti quanto sia pericoloso diventare cattivi pagatori verso una finanziaria. Alla fine o paghi, oppure accetti il loro ricatto e resti cliente. Per sempre, perché il debito che ti fanno fare è una spirale, un pozzo senza fondo.
Parlo di “concessionarie” al plurale perché le altre due persone non erano clienti della stessa catena, bensì dello stesso marchio di auto. C’è quindi da sospettare che il “sistema” non nasca in seno a una singola società, ma arrivi addirittura dal produttore — uno dei più grandi al mondo, credetemi.
State in guardia, quindi. Non fatevi fregare: se vi spingono verso un finanziamento (con o senza servizi), controllate il piano delle rate e verificate che, al termine del periodo scelto, la quota capitale restituita sia coerente con le vostre aspettative, cioè con il valore dell’auto al netto del valore residuo. Per capirci: se l’auto costa 25.000 euro e volete restituirla dopo tre anni, e supponiamo che allora varrà 12.000 euro, assicuratevi che il piano vi porti ad aver restituito almeno 13.000 euro di capitale. Altrimenti, sappiatelo, rischiate di entrare anche voi nel tunnel.
Se vi state chiedendo come sia possibile che tutto questo accada senza che la legge intervenga, sappiate che non è semplice. Il contratto è fatto dannatamente bene (un legale lo ha già letto) e tutte le rassicurazioni sono state date a voce. Non escludo che tra qualche anno questi contratti avranno colpito talmente tante persone da spingere qualche autorità a muoversi. Ma nel frattempo ci sono persone come me e come voi che da queste situazioni possono non riprendersi più. Non solo economicamente.
Per questo vi esorto a fare attenzione. E se vi è capitato qualcosa di simile e volete partecipare all’azione legale che sto preparando, scrivetemi via email a aquinifranco@gmail.com.
Mi raccomando: attenzione a quello che firmate.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
Un meccanismo di coping è un insieme di strategie cognitive e comportamentali che una persona mette in atto per affrontare e gestire situazioni percepite come stressanti o che superano le proprie capacità di affrontala. Il concetto, introdotto da Richard Lazarus e Susan Folkman, si riferisce a processi attivi per modificare la situazione stressante (coping centrato sul problema) o per regolarne le emozioni (coping centrato sull'emozione), o ancora per evitarla (coping centrato sull'evitamento).