Il grande incrocio dei dati: perché l’Italia è diventata strategica anche per l’IA
Un Paese al centro delle rotte digitali mondiali, corteggiato dai giganti del cloud. Ma tra promesse miliardarie e limiti energetici, capire se sarà realtà o miraggio è tutt’altra storia.
Se c’è una specialità in cui l’Italia sembra essere regina, è quella di essere spesso al posto giusto nel momento giusto. D’altronde, essere nel posto giusto non è difficile quando sei una lingua di terra che si insinua nel bel mezzo di un bacino d’acqua che è stato, come si dice, la culla della civiltà, non solo dell’umanità.
Essere in quella posizione significa tantissime cose, tra cui aver visto approdare sulle infinite coste tutte le culture possibili e immaginabili. Tanto che l’Italia è stata per buona parte della storia un concentrato — anzi, una spremuta direbbe il romano che è in me — di genio, invenzione e arte. Oggi siamo un po’ più refrattari a questo mescolamento di culture e infatti i risultati si vedono, ma non divaghiamo.
Essere in una posizione così centrale però comporta anche un altro vantaggio e riguarda sempre il transito di cose. Una volta era il transito di merci dall’occidente all’oriente e viceversa, oggi riguarda invece il transito della cosa più preziosa e ambita del mondo: i dati. Oggi che la rete è diventata il centro nevralgico di ogni attività, i dati sono diventati la vera moneta di scambio. Tutto è basato sui dati, qualsiasi attività, anche quella manifatturiera.
E così l’Italia torna a essere di nuovo un lembo di terra molto ambito, proprio per quella posizione strategica che offre sia rispetto all’Europa, cuore commerciale del mondo, sia rispetto all’Asia e all’occidente. Vedremo tra poco che proprio l’Italia è la sede scelta per stendere Bluemed, un enorme cavo a bassa latenza che collegherà Genova con Mumbai, in India, altro paese fondamentale per lo sviluppo delle tecnologie informatiche.
Qualcuno si stupirà nel sapere che l’italia è stata scelta come territorio ideale per la collocazione di nuovi datacenter da aziende come Microsoft, Amazon, Equinix, CyrusOne e molte altre. L’Italia, in altre parole, potrebbe facilmente diventare il vero polo tecnologico europeo, diventando quello che la California e più nel dettaglio la Silicon Valley ha rappresentato per gli Stati Uniti.
Sono tanti i fattori che spingono in questa direzione, ma c’è un grosso dilemma a frenare gli entusiasmi: la disponibilità di energia. Tutti questi progetti hanno alzato la richiesta energetica in maniera esponenziale negli ultimi anni, tanto da arrivare a richiederne, secondo i progetti, la metà del totale della potenza disponibile per l’intero paese. Un po’ troppo, forse. Ma è anche vero che questi sono progetti a lungo termine, che potrebbero andare a braccetto con altri progetti di innalzamento della soglia di energia prodotta sia con energie rinnovabili, sia col nucleare.
L’Italia potrebbe davvero compiere il grande balzo diventando protagonista nel mondo della rivoluzione guidata dall’intelligenza artificiale? I presupposti ci sono. Perché se è vero che queste tecnologie nascono lontano da qui — principalmente ai poli opposti del pianeta rispetto all’Europa — è pure vero che tutti hanno bisogno del più grande mercato commerciale mondiale, che è l’Europa stessa. Da queste parti bisogna passarci per forza, altrimenti tutta questa potenza si rivelerà inutile. E quale miglior posto dove piazzare i nodi centrali di un’infrastruttura se non un posto così centrale come l’Italia?
In questa Insalata Mista esploriamo quindi i progetti in cantiere, la fattibilità reale per quanto ne sappiamo oggi e il rischio che non si trasformi tutto in un’enorme bolla come fu per la fibra ottica negli anni 2000. E poi una parentesi sul reticolo fittissimo di cavi distesi lungo mari e oceani che ci permettono, senza sospettarlo, di accendere la TV e guardarci l’ultima puntata della nostra serie preferita.
Dall’antica Via della Seta alla dorsale digitale
Se c’è qualcosa che l’Italia ha sempre fatto bene, nel bene e nel male, è essere un punto di passaggio. Una specie di enorme stazione di rifornimento storica, un incrocio di rotte dove le civiltà sono entrate, uscite, si sono fermate un momento, hanno lasciato una traccia, magari una statua o un’idea, un pezzo di codice genetico o una nuova tecnica per costruire qualcosa. Non è un merito, è quasi una condanna geografica: essere quella lingua di terra allungata nel Mediterraneo ha significato per secoli essere irresistibilmente attraenti e oggetto di attenzioni.
E oggi, per quanto sembri strano, la situazione non è cambiata. Dalle nostre coste non passano più spezie, sete preziose o idee rivoluzionarie trascritte su pergamene. Ciò che passa (o passerà), tra le altre cose, sono i dati. Pacchetti di informazione che si muovono dentro tubi nascosti sotto il mare, silenziosi, invisibili e al tempo stesso vitali. Passano lungo quello che potremmo considerare l’equivalente moderno della Via della Seta: una rete fittissima di cavi sottomarini, alcuni vecchi di vent’anni, altri nuovissimi, progettati per reggere la nuova potenza dell’intelligenza artificiale e dello streaming globale.

Se guardi una mappa delle dorsali mondiali, sembra che la terra abbia improvvisamente messo radici negli oceani. Fili ovunque, come nervi che portano gli impulsi da un emisfero all’altro. E c’è un dettaglio sorprendente: uno dei punti più densi, più trafficati e più contesi di questa mappa è proprio l’Italia. Le nostre coste — Genova, Palermo, Mazara del Vallo — sono diventate snodi di primo livello per il transito dei dati tra Europa, Medio Oriente, Africa e Asia. A Genova è già iniziata la stesura del nuovo cavo di Sparkle, il Bluemed, progettato per collegare direttamente l’Europa ai colossi digitali indiani, saltando tratte congestionate e migliorando la latenza in modo significativo. È come aprire una rotta commerciale del XXI secolo, solo che invece di mercanzie trasporta videoconferenze, operazioni bancarie, reti neurali, bonifici, query AI e un numero imprecisato di streaming per il nostro binge watching serale.
Questa centralità non è affatto un caso. Quando gli ingegneri delle telecomunicazioni decidono dove far passare un nuovo cavo, ragionano come i mercanti medievali: quale percorso è più corto? Qual è più stabile? Quale permette di raggiungere i mercati più ricchi nel modo più rapido? E così, esattamente come accadeva mille anni fa, l’Italia finisce nel mezzo. Non perché siamo un Paese particolarmente tecnologico o perché abbiamo un cloud sovrano di successo — non ancora, almeno — ma perché siamo geograficamente inevitabili. Punto di incontro tra continenti, più vicini all’Asia di quanto sembri guardando una cartina piatta e più raggiungibili dal Nord Europa di quanto lo siano molte altre coste mediterranee.
Ecco perché questo nuovo reticolo di fibre, completamente invisibile alla maggior parte delle persone, sta ridisegnando l’importanza della penisola. Non è più la storia dell’Italia “ponte tra Oriente e Occidente” raccontata nelle scuole, non è nemmeno nostalgia o retorico orgoglio italiota: oggi quel ponte è reale, concreto, fatto di fibre ottiche che viaggiano sotto centinaia di atmosfere di pressione. E ogni volta che premi play su Netflix, mandi una PEC, apri una cartina su Google Maps o leggi queste righe, una minuscola parte di questa infrastruttura passa davvero da lì, dai cavi sottomarini e dalle coste italiane.
La nuova corsa all’oro digitale: Big Tech sceglie l’Italia
La storia dei data center in Italia negli ultimi tre anni assomiglia incredibilmente a una corsa all’oro del Far West, solo che al posto dei cercatori con il setaccio d’oro ci sono ingegneri con caschi bianchi, enormi armadi stracolmi di server energivori e piani regolatori infilati in faldoni pieni di timbri e firme.
Quando si parla di cloud, AI e infrastrutture digitali, il nuovo “oro” non è più nel terreno: è nell’aria fresca, o meglio, nell’aria condizionata dei capannoni che ospitano migliaia di rack. E sorprendentemente, l’Italia è diventata uno dei territori più ambiti in Europa per piantare questa nuova “miniera” invisibile.
Secondo i dati riportati dalla newsletter Il Punto, sono già stati approvati 14 progetti, mentre altri 10 sono in fase di valutazione, e il controvalore complessivo supera i 2,5 miliardi di euro. È un movimento massivo, rapido, quasi frenetico, e soprattutto guidato da nomi che non si spostano mai per caso: Microsoft, Amazon Web Services, Data4, Equinix, CyrusOne. Ognuna di queste realtà pesa più di molte nazioni in termini di potenza computazionale e capacità finanziaria. Il fatto stesso che stiano guardando all’Italia non è un dettaglio, ma una dichiarazione di interesse strategico.
Ma perché correre proprio in Italia? Perché proprio adesso? Le ragioni, se le si guarda bene, sono un mosaico perfetto di necessità tecnologica, saturazione di altri posti e opportunità logistiche. I grandi mercati europei del cloud — Francoforte, Amsterdam, Londra, Parigi — sono ormai vicini al limite fisico di quello che possono ospitare. In alcuni casi, come Amsterdam, le autorità locali hanno addirittura imposto moratorie temporanee sui nuovi data center per via del consumo energetico e dell’impatto ambientale. Questo spinge gli hyperscaler1 a cercare nuove “praterie” digitali dove poter costruire cluster più grandi, più moderni e soprattutto più vicini alle nuove rotte dei cavi sottomarini. E qui la nostra penisola, con la sua geografia invidiabile, torna a fare esattamente quello che ha sempre fatto: trovarsi nel punto giusto al momento giusto.
La Lombardia, poi, è diventata una sorta di “California padana” senza che nessuno se ne accorgesse. Bornasco, Rho, Pero, Segrate, Vittuone, Cornaredo: nomi che fino a ieri evocavano più fabbriche e capannoni industriali che rivoluzioni digitali, ora compaiono nei report internazionali come nuove zone calde del cloud europeo. In quell’area si sta verificando un fenomeno che nel mondo degli investimenti tecnologici è ben noto: il cluster effect, cioè il fatto che quando un gigante si insedia da qualche parte, gli altri lo seguono. Si fidano delle sue analisi, dei suoi studi di fattibilità, del suo calcolo del rischio.
Se Microsoft decide che Bornasco ha senso, improvvisamente Bornasco ha senso anche per gli altri. E il risultato è una concentrazione senza precedenti nella storia tecnologica italiana: cinque progetti Microsoft, oltre 1 miliardo di investimenti previsti solo da Redmond, 1,9 miliardi da Data4 tra il primo e il secondo sito, 890 milioni da AWS, più i tre poli Equinix e le gigantesche strutture di CyrusOne da 132 e 50 MW ciascuna. Tutti investimenti attesi ma non ancora sicuri, sia chiaro, perché di mezzo c’è un grosso ostacolo che vedremo nel prossimo paragrafo (spoiler, tanto l’avrete capito: è l’energia).
E poi c’è l’AI. La vera ragione dietro tutti gli investimenti. L’emergente fame di calcolo dei modelli generativi — ChatGPT, Claude, Gemini e tutti quelli che nasceranno — richiede infrastrutture dove far girare GPU enormi, backup, repliche, networking, refrigerazione e migliaia di connessioni ad altissima velocità. Secondo McKinsey, il potenziale economico dell’AI generativa potrebbe superare i 4.4 trilioni di dollari l’anno, una cifra talmente gigantesca da richiedere un’espansione infrastrutturale globale come non si vedeva dai tempi della rivoluzione delle telecomunicazioni. E quell’espansione, volenti o nolenti, passa dall’Europa. E indovinate un po’ qual è uno dei punti di ingresso più facili per raggiungere l’intero continente? L’Italia, appunto.
Non perché siamo bravi, bisogna ammetterlo, ma perché siamo in una posizione unica al mondo: al centro delle nuove dorsali, vicini ai mercati, non ancora saturi e — per ora — con abbastanza territorio da convertire a questo nuovo tipo di industria.
Oggi, sempre di più, le rivoluzioni si fanno con l’energia (che però scarseggia)
C’è un momento, in tutte le grandi storie di innovazione, in cui l’entusiasmo si scontra violentemente con la realtà. È un momento sempre uguale: si progetta, si investe, si pianifica e poi, a un certo punto, arriva la domanda fondamentale, quella che sembra banale ma non lo è mai: «dove la prendiamo tutta questa energia?».
È un po’ come costruire una città futuristica in mezzo al deserto senza aver considerato quanta acqua serve per mantenerla viva. E infatti è proprio quello che sta accadendo adesso. Perché i data center — questi edifici apparentemente silenziosi, senza insegne e senza finestre — sono tra le infrastrutture più affamate di energia in assoluto. Energia che serve sia per alimentare gli infiniti server, sia per raffreddarli. Non sono miniere, non sono acciaierie, non sono fabbriche: eppure consumano come e più di tutte queste cose messe insieme.
Sempre secondo la newsletter Il Punto, le richieste di connessione elettrica presentate a Terna sono passate dai 30 GW di fine 2024 a oltre 63 GW a ottobre 2025 (sottolineo: Gigawatt di potenza impegnata). Una cifra che normalmente associamo alla potenza elettrica di interi Paesi, non di un singolo settore industriale.
Per capirne il peso basta un confronto molto semplice: secondo i dati Terna, l’Italia negli ultimi dodici mesi ha registrato picchi di domanda intorno ai 55–60 GW nei giorni più caldi dell’anno — e appena 38,5 GW nel picco del 22 novembre 2025. I data center, da soli, hanno prenotato 63 GW. In altre parole: sulla carta chiedono più potenza dell’intera domanda elettrica nazionale nei giorni di massimo consumo. E corrispondono a quasi la metà della potenza installata italiana (circa 130 GW), anche se quest’ultima è in parte inutilizzabile o non realmente erogabile. È un numero enorme, che fotografa un interesse reale ma anche un evidente scollamento tra ciò che si vorrebbe costruire e ciò che la rete oggi può sostenere.

Terna, in maniera più prudente rispetto all’entusiasmo che circonda gli hyperscaler, lo ha già detto chiaramente: molte di queste richieste non diventeranno mai centrali operative. Il termine che viene utilizzato è “saturazione virtuale”. Vuol dire che si prenota potenza non perché servirà davvero domani mattina, ma per non rischiare di perderla dopodomani. Una dinamica che abbiamo già visto nel boom delle rinnovabili, quando in Italia vennero richiesti decine di gigawatt di connessione per impianti solari ed eolici che poi non vennero mai realizzati. E qui lo schema potrebbe ripetersi, solo su scala molto più grande: un’enorme fila di progetti che esiste sulla carta, molti dei quali resteranno probabilmente solo lì.
La metafora che molti analisti stanno usando è quella della bolla della fibra ottica degli anni 2000. All’epoca furono posati cavi transoceanici in eccesso di un ordine di grandezza rispetto al traffico reale. Il risultato fu un decennio di fibre spente sul fondo del mare, società fallite e infrastrutture pagate a prezzi stracciati dalle aziende sopravvissute. La differenza è che la fibra era “solo” un investimento infrastrutturale; l’energia, invece, è un ecosistema: non puoi semplicemente “spegnerla”. Se la chiedi, devi anche produrla. E produrla comporta scelte politiche, economiche e ambientali che un Paese non può rimandare. Ma soprattutto richiede progetti a lungo termine, che vengono messi giù oggi per essere terminati magari tra vent’anni. Saremo realmente capaci di avere una costanza del genere?
C’è poi un secondo livello del problema, ancora più inquietante: i data center non consumano solo energia in forma elettrica, ma anche in forma idrica. Alcuni studi mostrano che un singolo campus di grandi dimensioni può consumare oltre 1 milione di litri d’acqua al giorno per il raffreddamento. Un problema che negli Stati Uniti ha già creato conflitti tra operatori cloud e comunità locali (tema già ampiamente trattato dal Washington Post). Applicata all’Italia, dove il tema dell’acqua è sempre più delicato, significa che ogni grande polo AI deve essere valutato non solo per quello che produce in termini economici, ma per quello che sottrae al territorio in termini di risorse primarie.
E quindi, il vero limite dello sviluppo dei data center in Italia non è solo politico o burocratico, e non è forse nemmeno economico. È anzi molto materiale, fisico. È la potenza elettrica disponibile, oggi e nei prossimi vent’anni. Vogliamo fare dell’Italia il più grande hub digitale d’Europa? Allora dobbiamo rispondere a una domanda molto semplice: da dove arriveranno quei gigawatt? Rinnovabili? Accumuli? Gas? Nucleare di nuova generazione? Senza questa risposta, tutto il resto — investimenti, progetti, annunci — è solo carta e titoli roboanti sui quotidiani.
E mentre riflettiamo, Big Tech osserva. Non gli interessa solo la posizione geografica dell’Italia: gli interessa la sua sicurezza energetica. Nel mondo del cloud, l’affidabilità significa tutto. Ecco perché probabilmente alcuni progetti andranno avanti e altri rimarranno fantasmi infrastrutturali, proprio come la fibra ottica che dorme ancora oggi sul fondo dell’Atlantico.
Hub digitale europeo per l’IA o miraggio?
Ed eccoci al punto in cui tutte le strade — quelle fisiche, quelle sottomarine e persino quelle dell’immaginazione — convergono. Perché dietro all’idea di un’Italia che diventa hub europeo dei data center non c’è solo una questione tecnologica, geografica o economica. C’è un interrogativo più grande, quasi esistenziale per noi italiani: siamo davvero pronti a sostenere un ruolo da protagonista nella geografia digitale del futuro? Oppure stiamo guardando un miraggio industriale che sembra vicino solo finché lo osserviamo da lontano?
Da un lato infatti ci sono tutti gli elementi che un investitore internazionale desidera trovare: una posizione geografica strategica, infrastrutture di rete che si stanno rapidamente aggiornando, una presenza crescente di cavi sottomarini che ci collegano direttamente ai mercati più dinamici del pianeta, e soprattutto la massiccia convergenza dell’AI verso l’Europa. Se l’Europa è il più grande mercato commerciale del mondo, e se i nuovi modelli di AI hanno bisogno di servire questo mercato con latenze bassissime, allora è logico che i nodi centrali dell’infrastruttura debbano essere collocati in una posizione centrale.
L’Italia, piaccia o no, è esattamente quel punto nella mappa: il centro nevralgico della rotta tra Asia, Africa, Medio Oriente ed Europa continentale. Non è un caso, come dicevamo, che Sparkle e Google abbiano scelto proprio le nostre coste per far approdare alcune delle dorsali più importanti del prossimo decennio.
Dall’altro lato però c’è un Paese che arriva da vent’anni di investimenti industriali intermittenti, di piani energetici mai davvero completati, di iter autorizzativi che scoraggiano anche i più determinati, e di una fragilità strutturale che si manifesta ogni volta che il sistema viene messo sotto stress. Pensiamo solo alla questione energetica: anche se la metà dei 63 GW richiesti dai data center dovesse trasformarsi in necessità reale (e già sarebbe un miracolo), l’Italia dovrebbe programmare un piano che raddoppia in pochi anni la propria capacità realmente erogabile. E questo vorrebbe dire accelerare sul fronte delle rinnovabili, degli accumuli, delle reti di trasmissione, o — parola che in Italia spaventa ancora — di nuove centrali, incluse eventualmente quelle nucleari (senza le quali, piaccia o meno, non c’è proprio futuro, ma lasciamo questo tema per un’altra Insalata). Tutte cose che richiedono pianificazione, visione e soprattutto continuità politica, che è forse la risorsa più rara in assoluto (e non solo in Italia).
E poi c’è un terzo elemento, spesso ignorato: la competizione internazionale. Perché mentre noi valutiamo se costruire o meno una nuova dorsale interna, in Spagna vengono inaugurati nuovi poli cloud alimentati da fotovoltaico in eccesso; in Grecia Microsoft sta completando un gigantesco campus che sfrutta incentivi statali molto aggressivi; e in Irlanda — nonostante la saturazione — le big company mantengono la leadership grazie a politiche favorevoli (leggasi: tasse quasi nulle) che durano da decenni. Se vuoi diventare un hub vero, devi battere non solo i tuoi limiti, ma anche le strategie degli altri. E questa è una sfida che si gioca con prospettive lunghe, non con i comunicati stampa.
Un treno che non possiamo perdere
L’Italia, oggi, è davanti a un bivio raro. Da una parte c’è la possibilità di inserirsi nella più grande trasformazione infrastrutturale dai tempi dell’arrivo della fibra ottica: diventare un nodo essenziale della dorsale digitale globale, accogliere investimenti miliardari, e ritagliarsi un ruolo centrale nella filiera dell’AI, del cloud e dei servizi digitali avanzati. Dall’altra parte c’è la possibilità — altrettanto concreta — che tutto questo rimanga un gigantesco esercizio di immaginazione: progetti sulla carta, richieste di potenza mai utilizzate, iter autorizzativi infiniti, potenza energetica insufficiente, e una decina d’anni buttati via nell’attesa che finalmente “qualcosa succeda”.
La verità, probabilmente, sta nel mezzo: una parte di questi data center verrà costruita davvero, soprattutto quelli sostenuti dai colossi più solidi. Una parte resterà sospesa, una sorta di infrastruttura fantasma in attesa di condizioni migliori. E un’altra parte forse non vedrà mai la luce. Ma ciò che determinerà il destino di questa nuova Silicon Valley italiana sarà una scelta molto precisa: se l’Italia deciderà — una volta tanto — di programmare sul lungo periodo, di investire in infrastrutture reali e di credere nel proprio ruolo centrale in un sistema globale.
Perché sì, essere al centro delle rotte mondiali è una fortuna. Ma restarci richiede qualcosa che non si può improvvisare: visione, energia e la capacità di scegliere il futuro prima che il futuro scelga qualcun altro. Capacità sulla quale, se dovessimo guardare all’attuale dirigenza politica, verrebbe da riporre pochissima fiducia.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
Se hai apprezzato la newsletter Insalata Mista ti chiedo un favore: lascia un commento, una recensione, condividi la newsletter e più in generale parlane. Per me sarà la più grande ricompensa, oltre al fatto di sapere che hai gradito quello che ho scritto.
Franco Aquini
Un hyperscaler è un’azienda che gestisce infrastrutture digitali su scala enorme — data center, cloud, rete — progettate per espandersi rapidamente e servire milioni di utenti. Sono gli attori che fanno funzionare il cloud mondiale: Amazon AWS, Microsoft Azure, Google Cloud, Meta, Apple, Alibaba, Tencent.




