Il grande inverno demografico
Il tasso di fecondità italiano è tra i più bassi dell’Occidente. Le conseguenze? Sanità, scuola, pensioni: tutto in crisi. Nel frattempo, quali sono le iniziative per invertire la situazione?
Esiste una valore — o per meglio dire una misura, una metrica — che è molto semplice sia da spiegare che da capire. Si tratta del replacement fertility rate, ovvero la soglia di ricambio generazionale. È il “numero medio di figli per donna” necessario affinché una generazione abbia abbastanza figli da rimpiazzare sé stessa, cioè da evitare che la popolazione diminuisca nel lungo periodo. È un concetto demografico fondamentale per capire se una popolazione può mantenere stabile la sua dimensione nel tempo, senza bisogno di immigrazione.
Calcolarla è abbastanza semplice: due genitori devono mettere al mondo almeno due figli che li “sostituiranno”. A questo valore però viene aggiunto per prassi anche uno 0,1 per coprire mortalità infantile e giovanile, persone che non avranno figli, infertilità o altre condizioni. Di fatto, nei paesi meno sviluppati dove la mortalità è più alta, il valore può essere anche 2, 3 o superiore.
Stabilito quindi che il la soglia di ricambio generazionale è 2,1, come siamo messi in Italia? La risposta la intuirete già, perché di questo problema se ne parla spesso anche nei titoli dei telegiornali. Siamo messi male, molto male. Anzi siamo messi quasi peggio di qualsiasi altro paese occidentale, fatta eccezione per la Spagna.
Quello che però mi interessa approfondire, con questa Insalata, è quali ripercussioni può avere un calo demografico così netto. Dall’ultima rilevazione, ve lo anticipo, risulta che il tasso di fecondità sia di 1,18. Ovvero quasi 1,2 figli per donna, ampiamente sotto il 2,1 che potrebbe assicurare un ricambio generazionale equo.
Scopriremo che questo dato, quello della scarsa attitudine degli Italiani a fare figli, è forse una delle più grandi catastrofi a cui si possa andare incontro. Specie se non si mettono in atto politiche di rilancio della natalità. Vedremo anche cosa hanno fatto altri paesi, giusto per prendere spunto. E comunque, anche se dovessimo invertire la tendenza oggi, i risultati li vedremmo probabilmente tra 10 anni. E quanti anni ancora dovremmo aspettare perché i nuovi nati siano in grado di contribuire alla collettività? Altri venti? Trenta?
Si capiscono quindi molto facilmente due cose: la prima è quanto sia urgente tutta la faccenda: più aspettiamo a prendere provvedimenti con delle misure efficaci, più tardi vedremo invertirsi la tendenza (e chissà come saremo messi quando e se verrà invertita veramente). La seconda è che l’orizzonte è talmente lungo che esce fuori dagli interessi della politica, soprattutto quella di oggi, che è talmente miope da avere come orizzonte più lungo, al massimo, quello delle prossime elezioni. Cosa volete che gliene freghi di quello che succederà tra venti o trent’anni?
Dove andremo a finire signora mia
Il valore ve l’ho già dato, ma non fatevelo bastare, perché non dice tutto. Anzi, dice solo un pezzo. Nel 2024, secondo i dati provvisori di Istat, è ulteriormente in calo a 1,18. Nel 2024, citando il rapporto ISTAT: “I nati residenti in Italia sono 370mila, in diminuzione di circa 10mila unità (-2,6%) rispetto all’anno precedente. Il tasso di natalità si attesta al 6,3 per mille, contro il 6,4 per mille del 2023. I nati di cittadinanza straniera, il 13,5% del totale, sono quasi 50mila, circa 1.500 in meno rispetto all’anno precedente. La fecondità, nel 2024, è stimata in 1,18 figli per donna, sotto quindi il valore osservato nel 2023 (1,20) e inferiore al precedente minimo storico di 1,19 figli per donna registrato nel 1995”.

L’Italia però non è tutta uguale e se al nord il tasso medio di fecondità è di 1,12 (stabile), nel mezzogiorno cala dall’1,24 all’1,20. Come si capisce facilmente dai numeri, pur se decisamente in calo, il tasso di fecondità nel sud è molto più alto che al nord.
Ma perché cala anche al sud? La risposta è semplice quanto allarmante: perché mancano i genitori. Più calano i nuovi nati oggi, meno genitori ci saranno domani. Facile. Lo dice sempre ISTAT:”Il calo delle nascite, oltre ad essere determinato dall’ulteriore calo della fecondità, è causato dalla riduzione nel numero dei potenziali genitori, a sua volta risultato del calo del numero medio di figli per donna registrato nei loro anni di nascita”.
Ancora:”la popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (15- 49 anni) è passata da 14,3 milioni di unità al 1° gennaio 1995 a 11,4 milioni al 1° gennaio 2025”. Si capisce quindi che l’effetto non può che essere esponenziale. Meno figli oggi significa quasi automaticamente meno figli domani. Quasi, perché, lo avrete già intuito, c’è la variabile immigrazione, che già oggi rappresenta, come abbiamo visto prima, il 13,5% delle nuove nascite (in calo pure queste).
Siamo dunque spacciati?
La prima conseguenza dell’inverno demografico: la previdenza sociale
Se è vero quello che prevede ISTAT, entro il 2050 gli over 65 anni in Italia rappresenteranno più di un terzo dell’intera popolazione italiana. Se non proprio una popolazione di vecchi, quindi, quantomeno una popolazione non più in età da lavoro (o quasi, anche se la media dell’età di pensionamento reale, secondo INPS, ci dice che a 65 anni la maggior parte degli italiani sono in pensione già da 2 anni). Quindi, se non si è in età da lavoro, quasi certamente si in età da pensione. E chi le paga, queste pensioni?
Molti infatti continuano a pensare che, come succede nel mondo privato, la pensione sia una sorta di piano di accumulo: versi i contributi che un domani ti verranno restituiti in forma di pensione. Se hai versato tanto, quindi, ti spetta automaticamente tanto.
Niente di più sbagliato. Quello che versi oggi, semplicemente, serve a pagare le pensioni di oggi. E un domani, quando verrà il turno della mia generazione e delle successive, avremo quello che ci spetterà in base allo stato delle casse dell’INPS del futuro. Lo so, state per arrivare a un’altra deduzione fondamentale: meno lavoratori ci saranno quando verrà il nostro turno di andare in pensione (per via del calo demografico) e meno soldi ci saranno nelle casse dell’INPS. Quindi: altro che pensione proporzionata ai contributi versati, la nostra generazione rischia di non andarci proprio, in pensione!
Questa è una delle due conseguenze peggiori del calo demografico, perché rischia di smontare completamente uno dei due cardini del welfare italiano: la previdenza sociale. Un paese che invecchia spende di più: in pensioni, in sanità, in assistenza. Servono più medici, più infermieri, più macchinari, più cure, più servizi assistenziali, più trasporto pubblico. Ma se la popolazione invecchia e calano i lavoratori che pagano tasse e imposte, chi pagherà tutto questo?
Nel 2024 l’Italia ha superato i 16 milioni di pensionati. Fa già paura a leggerla così, ma fa molta più paura se si va ad analizzare il dettaglio di questo dato. Per esempio, si scopre che gli ultraottantenni sono più di 5 milioni e in un solo anno gli over 75 sono aumentati di mezzo milione. Un’enormità.
Nel frattempo, il numero di nuove pensioni liquidate è diminuito: meno persone vanno in pensione, non perché lavorino più a lungo, ma perché la coorte che entra nel sistema è semplicemente più piccola. È la prima conseguenza tangibile del calo demografico che affonda le radici nei decenni passati (abbiamo visto prima il picco negativo del 1995) e che comincia a presentare i primi risultati: meno persone in età da lavoro significa anche che meno persone andranno in pensione. È la prima ondata del gelo demografico.
L’età media effettiva di pensionamento si è assestata, come dicevamo prima, a 63 anni, con le donne che, per la prima volta da anni, si ritirano più tardi degli uomini. Le pensioni anticipate sono diventate minoranza, mentre il sistema si sposta lentamente verso forme più selettive di uscita. Ma il cuore della questione è un altro: il 58% delle pensioni è sotto i 1.000 euro al mese. Parliamo di milioni di italiani che vivono l’anzianità ai margini della dignità economica, mentre il sistema cerca di restare in piedi con un equilibrio sempre più instabile.
Nel 2024, per ogni pensionato, ci sono appena 1,3 lavoratori attivi. Questo rapporto – che dieci anni fa era ancora vicino all’1,5 – è la vera cartina tornasole di una crisi strutturale. Perché non si tratta solo di sostenibilità contabile, ma di energia sociale: meno giovani significa meno gettito, meno innovazione, meno impresa, meno futuro.
E se il dibattito pubblico continua a dividersi tra chi parla di “privilegiati” e chi invoca il ritorno alla pensione a 60 anni (ricordate i politici miopi dell’introduzione?), è forse perché non abbiamo ancora trovato le parole per affrontare il nocciolo della questione: viviamo ancora con un sistema pensato per un paese giovane che sta cercando di sopravvivere in un paese anziano. Non basta più tirare la coperta. Bisogna ripensarla, o magari semplicemente comprarne una più grande, che però costa molto.
La sanità, l’altro grande lato del problema invecchiamento
Se le pensioni rappresentano un problema notevole per l’impatto che avrà il calo demografico, la sanità non è da meno. Anzi, è il secondo grande capitolo di questa storia. Più persone anziane infatti significa anche una spesa sanitaria maggiore. Perché statisticamente, si ha più bisogno di cure quando si è anziani. Sembra banale, ma evidentemente non è per tutti.
In Italia, il Sistema Sanitario Nazionale (che pure se la passa non male, diremmo malissimo), garantisce ancora cure di buon livello a tutti e il risultato di tutto questo lo vediamo nell’aspettativa di età media italiana che è invidiabile per una buona parte delle altre nazioni del pianeta. Nonostante ciò, questo si traduce in un numero chiaro: il 52% della spesa sanitaria odierna, ovvero 130 miliardi di euro, viene assorbita dagli over 65. Un numero che cresce anno dopo anno. Era infatti il 46% nel 2008 e, secondo le stime, arriverà al 61% nel 2040.
La conseguenza è che si riduce lo spazio per la cura della popolazione più giovane: nel 2008 il Sistema Sanitario Nazionale spendeva per la popolazione con età compresa tra i 20 e i 34 anni il 10% delle risorse (circa 10,8 miliardi di euro), nel 2022 appena il 7% (ovvero 7,5 miliardi).
Ma il problema non sono solo le risorse — che però, se diminuiscono le persone in età da lavoro, diventerà sempre più complicato reperire — si parla anche di difficoltà nel reperire personale sanitario. Già, perché se calano le nascite, calano gli studenti di medicina, calano gli aspiranti infermieri ma anche i portantini, chi sposta le barelle e le carrozzine, il personale amministrativo, gli inservienti.
Tutto ciò viene ben evidenziato dal rapporto 2024 di Eurispes:”il 10% delle posizioni di medico di base rimane non occupato, situazione aggravata dal fatto che si prevede un significativo aumento dei pensionamenti, in questo senso, 20.000 medici di base andranno in pensione entro il 2031, lasciando posti vacanti che non saranno compensati dalla disponibilità di nuovi medici”.
Cito ancora dallo stesso rapporto:”La popolazione anziana in Italia è in aumento e costituisce il 24,1% della popolazione totale. L’Italia riceverà 191,5 miliardi di euro dal PNRR, con 15,63 miliardi destinati alla missione salute per riforme entro il 2026. Alcune emergenze richiedono attenzione immediata. Primo, le lunghe liste d’attesa. Poi, il fenomeno della migrazione sanitaria, che nel 2021 ha raggiunto il valore di 4,24 miliardi. Infine, la carenza di personale medico, con il 10% delle posizioni che rimane scoperto. Per quanto riguarda la sanità digitale e la telemedicina, gli obiettivi sono chiari: entro il 2025, l’85% dei medici di base dovrà adottare il fascicolo sanitario elettronico, mentre tutte le regioni lo implementeranno entro il 2026. La telemedicina svolgerà un ruolo sempre più rilevante: entro il 2025 si prevede che fornirà assistenza a oltre 200mila pazienti.
Alcune sfide restano da superare: la mancanza di competenze digitali all’interno delle organizzazioni sanitarie, l’adeguamento delle strutture e dei servizi sanitari ai nuovi modelli e standard, l’analfabetizzazione digitale del personale e la connettività non uniforme sul territorio nazionale”.
Chi si prenderà cura del futuro, se il futuro non arriva?
Il nostro welfare si regge su un equilibrio fragile: lavoratori che pagano per chi ha smesso di lavorare; i giovani che studiano per sostituire chi va in pensione; i figli che dovrebbero prendersi cura dei genitori; i genitori che aiutano i figli con l’acquisto della prima casa e nell’accudire i nipoti. Ma se quei figli non nascono, chi reggerà il peso di tutto ciò? Se le pensioni relegano gli anziani a uno stato di miseria e precarietà, chi aiuterà i giovani a costruire una famiglia come è successo nei decenni passati?
Intanto, una conseguenza importante di tutto questo lo vediamo anche nella scuola: si riducono le classi, alcune scuole chiudono addirittura, perché mancano gli alunni (e di conseguenza si spopoleranno i centri abitati più piccoli).
Infine le università, che si svuotano anche perché manca la fiducia. Fiducia nel futuro e nella possibilità di poter accedere a quello che una volta ritenevamo potesse essere il minimo non sindacabile: poter mettere sù famiglia, permettersi (almeno) un figlio, o una casa, o un lavoro non precario.
La denatalità, in fondo, poggia su basi fragili quanto semplici: già il lavoro è precario, se ci aggiungiamo un potere di acquisto che cala anno dopo anno, mangiato da un’inflazione che - per via di guerre militari e commerciali — sta erodendo anche le risorse accumulate e la difficoltà nel gestire i bambini nei primi anni di vita per l’assenza di strutture adeguate, il gioco è fatto.
In Europa, sul fronte del dato sulla fecondità, siamo agli ultimi posti insieme alla Spagna. Faro nella notte, su questo fronte, è sempre stata la Francia, che seppure stia anch’essa attraversando un momento drammatico di calo demografico importante, ha comunque un tasso di fecondità che si attesta sull’1,65 (in Italia era 1,60 nel 1980, per capirci). La Francia però mette in campo da decenni politiche di assistenza alle famiglia che sono radicalmente opposte alle nostre. Banalmente, con i posti negli asili nido, senza i quali si è costretti a lasciare il lavoro o a passare al part time (quasi sempre una rinuncia che tocca alle donne peraltro).
Nel 2023 Eurostat riportava queste percentuali: i bambini sotto i tre anni che frequentavano un nido (“Children aged less than 3 years in formal childcare”) in Olanda era pari al 74,2%, in Danimarca al 69,1%, Francia 57,1%, Spagna 55,3%, Portogallo 50,4%. L’Italia era appena al 33,4%, appena sopra la Grecia (32,3%).
Questo è il problema principale: la denatalità viene letta come un dato verso cui non si può fare nulla, semplicemente perché tutti i paesi occidentali affrontano questo problema. Tuttavia, c’è un enorme differenza tra paese e paese. Più ci si allontana da quel 2,1 e più si accelera la corsa verso quel punto di non ritorno in cui non riusciremo più a formare i giovani, non riusciremo ad avere abbastanza persone in età da lavoro non solo per pagare le pensioni, ma anche per far fronte alle necessità dell’industria. Per non parlare della sanità e del sistema pensionistico.
Cambiare rotta richiede decenni e una programmazione così lunga e lungimirante da non generare interesse nella classe politica. Tanto più se l’unica leva rimasta per vincere le elezioni è la paura, nel caso specifico la paura dello straniero. E quindi si taglia anche la possibilità che ad aiutarci a invertire questo declino pericolosissimo siano persone che vengono da fuori. Persone che chiedono di venire a lavorare in Italia e che quindi possono contribuire a tutto il sistema, tenendolo in piedi come in parte già fanno.
Tuttavia, come ha rilevato anche il recente referendum che includeva un quesito sul ritorno ai cinque anni per richiedere la cittadinanza italiana, sappiamo per certo che anche un bel pezzo della sinistra non è disponibile a riconoscere la cittadinanza a una persona straniera che lavora in Italia e che è in possesso di una serie di requisiti che spesso mancano anche a chi Italiano lo è per nascita e discendenza.
Ognuno la pensi come creda, ma c’è un fatto sul quale non si possono avere opinioni contrastanti, perché a tacere le opinioni c’è l’evidenza dei dati: va bene difendere l’italianità, ma se continuiamo così, degli italiani, tra qualche decennio non rimarrà che il ricordo.
Pensieri Franchi: Crescere nell’Inutilitismo
Leggo spesso i pezzi di Letizia Pezzali sul quotidiano Domani, perché mi da sempre ottimi spunti per riflettere su molte cose, in particolare sul rapporto genitori-figli che, come saprà chi mi legge spesso, mi sta molto a cuore, non soltanto perché ci sono dentro mani e piedi, ma perché penso che fare il genitore sia davvero la sfida più grande che un essere umano possa affrontare.
Nell’articolo “Crescere con l’ideologia della misurabilità, dove se stai in alto vali ma in basso scompari”, apparso su Domani di oggi (lo so, fa strano, ma mi piaceva scriverlo. È domenica 20 luglio 2025, per chi leggerà nel futuro), fa una riflessione molto interessante su quelli che, dal lato dei genitori, sono i “giusti miti” in contrapposizione a quelli che riteniamo “falsi miti”.
Nell’articolo si fa l’esempio di Jannik Sinner, il tennista altoatesino che ha vinto solo pochi giorni fa il torneo di Wimbledon. «Guarda Sinner, non gli influencer!», è un consiglio che certamente molti genitori rivolgeranno ai propri figli da oggi in poi, esortandoli a considerare un campione che ha dedicato fatica, sudore e impegno al raggiungimento di un risultato e che si pone all’estremo opposto di chi invece ha scelto la strada più facile della notorietà sui social network.
Tolto il fatto che nessuno di noi sa esattamente quanto lavoro e fatica possa costare costruirsi un personaggio e una reputazione su un social network (se fosse così facile e scontato lo farebbero molti di noi, no?), rimane quello che dice Pezzali nell’articolo: «Influencer o sportivi che siano, sono tutti modelli riconducibili a una serie di numeri che esprimono una misura del successo. Che sia tennistico, economico o social, è il numero che conta. Un sistema numerico produce in uscita stimoli numerici. Non importa se l’origine è più o meno epica».
È la stessa teoria che ho affrontato spesso, nel mio piccolo, qui su Insalata Mista. L’ossessione per il risultato, per le performance, per il modello dell’essere sempre occupati a fare un sacco di cose, di rendere di più, di produrre di più, di fare più soldi, di crescere e di diventare sempre meglio degli altri e di noi stessi, in una battaglia contro il tempo che non abbiamo, contro fatiche che non riusciamo a sostenere, contro una quantità di impegni che non riusciamo semplicemente a sostenere.
Ed è lo stesso modello che stiamo indirettamente trasferendo ai nostri figli, forse perché è l’unico modello che conosciamo. Così, il modello dell’influencer, che semplicemente fa quello che gli piace prendendosi anche i suoi tempi, è peggiore di quello di un ragazzo che — ipotizzo — da quando è adolescente ha conosciuto soltanto il tennis.
Il modello dell’abnegazione, dell’annullamento di sé stessi per il raggiungimento dell’obiettivo — soldi, fama, notorietà, successo — è socialmente accolto positivamente, mentre il successo facile o meglio, che così appare, al contrario attira su di sé il biasimo collettivo.
Contro questo sistema valoriale, che pone alla sua vetta la soddisfazione riflessa nell’altro (il successo) piuttosto che quella personale, il poter dire “io ce l’ho fatta e tu no” contro il fatto di sentirsi felici e a posto con sé stessi, ho deciso di anteporre una filosofia di vita opposta: l’inutilitismo. Con l’inutilitismo mi ripropongo di fare delle attività quotidiane che non servono a nulla. Che sono inutili, appunto.
Comincerò con lo stare sul divano con nessun altro scopo che stare sul divano. Senza leggere, senza guardare la TV, senza giocare, senza scrollare sullo smartphone. Poi proseguirò passeggiando per strada. Ma anche in questo caso, lo farò non per tenermi in salute, non per il bene del mio sistema cardiovascolare, non per raggiungere i 10.000 passi che il mio orologio mi sprona a perseguire quotidianamente, lo farò per il solo gusto di farlo. E poi, magari, ma solo quando sarò stato abbastanza bravo da proseguire per qualche settimana allenandomi nella disciplina dell’inutilitismo, mi siederò al tavolino di un bar e rimarrò lì un’oretta abbondante osservando i passanti, la strada, i piccioni, gli altri clienti del bar che verranno serviti di corsa perché hanno fretta di consumare un caffè in piedi, per poi correre al lavoro.
Farò tutto questo senza uno scopo preciso. Perché non siamo fatti per conseguire sempre un risultato, uno scopo. Anzi, probabilmente esistiamo per un solo, preciso scopo, che è quello di dare continuità alla specie umana. Se si allargasse un po’ lo sguardo e si uscisse fuori dal nostro quotidiano, dal lavoro, dalla casa, dal quartiere e persino dai confini dall’Italia e si guardasse alla storia per quello che è, ci apparirebbe chiaro quanto siamo nulla nel flusso del tempo.
E allora, questi piccoli obiettivi che perseguiamo giorno dopo giorno, annullando il nostro essere individui per ottenere quei piccoli successi che sembrano darci la felicità, ci apparirebbero per quello che sono: piccolezze umane, banalità, successi insignificanti di cui nessuno si accorgerà.
Prendere coscienza di questo e del piccolo atomo di importanza che rivestiamo nell’universo è l’unico modo di arrivare alla felicità: smettere di avere aspettative, obiettivi, ambizioni. Mirare all’essere quello che siamo: microbi nel macrocosmo, piccoli dettagli impercettibili nel più grande affresco dell’umanità. E abbandonarsi a questa consapevolezza, all’inutilitismo, è l’unica garanzia di speranza e felicità che possiamo trasferire a queste povere, martoriate e vessate future generazioni.
Franco Aquini
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Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Ho letto con attenzione l’articolo che denuncia in modo molto realistico gli effetti della denatalità in Italia: squilibri nel sistema pensionistico, carenza di manodopera, rallentamento economico. Tutto vero. Ma vorrei proporre una riflessione più profonda.
Se l’unica soluzione per mantenere in piedi l’attuale modello è “aumentare la popolazione” – con più nascite o più immigrazione – allora stiamo solo alimentando lo stesso meccanismo che ci ha portato fin qui. È il classico circolo vizioso della crescita infinita: più persone servono per mantenere i consumi, finanziare le pensioni, sostenere i servizi. Ma poi queste persone invecchiano, e il ciclo ricomincia. Fino a quando?
Forse dovremmo avere il coraggio di porci una domanda scomoda: è davvero sostenibile un sistema che ha bisogno di crescere continuamente per non collassare? O sarebbe il caso di ripensare profondamente il modello economico e sociale su cui si regge?
Questo non significa ignorare i problemi legati alla denatalità. Ma forse dovremmo vederli anche come un’occasione per cambiare prospettiva: puntare su un’economia della qualità, non della quantità; valorizzare le tecnologie per aumentare la produttività; ridisegnare i sistemi di welfare e pensioni non solo in funzione del numero degli attivi, ma della sostenibilità complessiva; rivedere il nostro concetto di benessere.
In fondo, ogni crisi è anche un’opportunità. A patto di non cercare sempre le soluzioni nei vecchi schemi.
Sarebbe interessante approfondire questo essenziale dibattito.
Grazie per aver evidenziato un problema molto trascurat.
Bravo bella analisi, triste da leggere ma importante. Grazie