Il problema degli alibi e dell’autosabotaggio
Ci auto-sabotiamo senza accorgercene: alibi, distrazioni digitali e paure nascoste guidano molte scelte quotidiane. Capirlo è il primo antidoto al rimandare.
Userò questa introduzione di Insalata Mista per raccontare una situazione tipo in cui mi sono trovato più e più volte. Se qualcuno di voi ci si riconoscerà, allora vuol dire che il tema di questa puntata di Insalata Mista lo riguarda, almeno un po’.
La situazione è questa: è lunedì mattina, arrivi sul posto di lavoro e sai che dovrai occuparti di qualcosa che assolutamente non hai voglia di fare. Allora cominci a tergiversare: prima il caffè, poi sistemi la scrivania, poi guardi le email, poi controlli un’altra cosa online… insomma fai di tutto per rimandare l’inevitabile. Poi magari arriva una telefonata improvvisa: una riunione non prevista. Qualcosa che rappresenta un pretesto legittimo per rimandare quello di cui dovevi occuparti e allora esplode il sollievo e la sensazione di leggerezza. Non solo hai schivato l’impegno che avresti voluto evitare, ma hai anche la scusa perfetta, quella che sposta la responsabilità dalla tua scarsa voglia di occupartene all’impegno improrogabile fissato da qualcun altro.
Hai rimandato, procrastinato, finché non hai trovato l’alibi perfetto: la riunione a cui non potevi dire di no. E domani, il giorno dopo, ce ne sarà un altro, perché la verità è proprio non vuoi occuparti di quella cosa.
Da tutte queste situazioni ho imparato che a volte basta disinnescare il problema che è alla base di quella attività per poter sbloccare il problema e risolvere il tutto in molto meno tempo e con molta meno pena di quanto avevi inizialmente preventivato.
Giusto per fare un esempio classico: ho rimandato per mesi la compilazione di un questionario perché mi ero messo in testa che fosse troppo complicato e perché pensavo che tirasse in ballo cose fastidiose del mio passato che avrei dovuto ripescare. Poi, quando in un momento particolare di positivismo mi sono deciso ad affrontare il problema, mi sono reso conto che era molto meno complicato e impegnativo di quello che pensavo e il tutto ha richiesto non più di un quarto d’ora per essere concluso e archiviato per sempre.
Mi capita spessissimo: mi convinco che qualcosa è estremamente complicato e così, per paura di dover affrontare quel qualcosa che non so come affrontare, rimando fino all’estremo.
Vi faccio una confidenza molto personale che non dovrebbe trovare posto in un’Insalata, ma è decisamente utile per arrivare al dunque. Ho atteso 9 lunghi anni per rottamare l’auto di mio padre dopo che è mancato. Ogni occasione ha rappresentato una scusa valida per rimandare il momento in cui me ne sarei dovuto occupare. “Non so come fare” prima, poi “non trovo un rottamatore”, “non mi risponde al telefono”, “sono passato ma era chiuso”. Il problema alla base era un altro e lo potete capire facilmente senza che io stia qui a rivelare lati del mio vissuto personale che sono fin troppo privati.
Fatto sta che il giorno in cui sono stato obbligato a occuparmene, il tutto si è risolto in una mattinata. Una mattinata che ha aspettato nove anni per arrivare. Ci sono varie teorie più o meno fondate su questo problema della procrastinazione. In realtà qui si parlerà di altro, ovvero degli alibi che utilizziamo per auto sabotarci. Per non fare qualcosa che ci spaventa, che ci preoccupa o che semplicemente non ci fa stare a nostro agio.
Che ci crediate o meno, anche questa tendenza è stata studiata, classificata e descritta sia in psicologia che in filosofia. Tanto che esiste addirittura una scala per valutarne la gravità. Si chiama SHS, acronimo per Self-Handicapping Scale. E il problema — lo dedurrete da soli, si chiama self-handicapping — ovvero auto sabotaggio. Ne parliamo oggi su Insalata Mista.
Perché ci costruiamo degli alibi
Io non sono né un esperto di psicologia, né tantomeno uno studioso dei comportamenti dell’uomo. Insalata Mista però non serve a darvi soluzioni, non è come quei corsi di autostima che ti vendono sui social facendo leva sul senso di colpa. Insalata Mista non è altro che una ricerca approfondita su un argomento, di cui vi fornisce il risultato e le fonti (autorevoli), poi il pensiero ve lo farete da soli.
Questa premessa perché oggi il termine “procrastinazione” è diventato molto di moda, proprio per via delle incessanti pubblicità sui social che vi vendono soluzioni magiche. Cosa che Insalata Mista, ovviamente, non fa.
Il punto, da quello che potrete leggere anche voi, è che il nostro cervello non procrastina per pigrizia: procrastina per protezione. È un comportamento antico, profondamente radicato nell’architettura emotiva umana. La psicologia cognitiva lo chiama avoidance coping: quando un compito appare emotivamente minaccioso — non difficile, ma minaccioso — il sistema limbico lancia un piccolo allarme interno.
Quel compito diventa un surrogato di qualcos’altro: vulnerabilità, memoria, vergogna, possibilità di fallire davanti a qualcuno. E così, senza rendercene conto, la mente costruisce micro-strategie di fuga, sottili deviazioni dal percorso, che hanno un unico obiettivo: tenerci lontani da quella sensazione. Non è un difetto morale e nemmeno un problema di volontà. È una forma di autoregolazione emotiva.
Quando diciamo “non ho voglia”, quasi mai parliamo realmente della voglia. Parliamo della minaccia che sentiamo dietro quel compito. La ricerca lo dimostra ormai da decenni. Piers Steel, uno dei massimi esperti mondiali di procrastinazione, lo ha mostrato in modo irreversibile in una meta-analisi ciclopica pubblicata su Psychological Bulletin (2007): la procrastinazione è fortemente correlata allo stress anticipatorio e alle emozioni negative, molto più che alla difficoltà reale dell’incarico. In altre parole, rimandiamo soprattutto ciò che ci fa sentire inadeguati, impreparati, esposti.
E questo attiva una dinamica perfettamente logica dal punto di vista neurologico: quando percepiamo una minaccia emotiva, il cervello cerca soluzioni immediate a basso costo energetico per abbassare l’ansia. E cosa trova? Gli alibi, ovviamente. “Metto a posto un attimo la scrivania”, “Rispondo a queste due email”, “Controllo solo un secondo il telefono”. Sono “anestetici cognitivi”, spiegati dalla teoria dell’emotion regulation di James Gross (Stanford): micro-compiti che sostituiscono il dolore emotivo con una sensazione più gestibile. Non servono a risolvere il compito, ma a rimettere in equilibrio temporaneo il sistema emotivo.
E funziona, almeno per qualche minuto. Ci sentiamo subito più leggeri, più padroni, più accettabili ai nostri stessi occhi. Ma questo sollievo è uno dei più classici negative reinforcers: poiché ci fa stare meglio, il cervello lo memorizza come strategia efficace e la volta successiva userà lo stesso schema, magari con una scusa diversa, ma con lo stesso scopo: evitare di affrontare l’emozione collegata a quel compito.
Ecco il punto cruciale che di solito ignoriamo: non rimandiamo l’attività. Rimandiamo l’emozione che l’attività ci fa provare. L’alibi è una soluzione momentanea per scappare da una parte di noi che non vogliamo guardare. Ed è proprio qui che inizia il self-handicapping.
Il self-handicapping, ovvero come ci sabotiamo per proteggere l’autostima
Il self-handicapping è una delle strategie psicologiche più sottili e affascinanti, perché si colloca in quella zona grigia in cui non stiamo né mentendo né dicendo la verità: stiamo costruendo una versione della realtà alternativa (quante volte lo facciamo?) che ci permette di sopravvivere emotivamente. Il termine nasce negli anni ’80 grazie agli psicologi Edward E. Jones e Frank Rhodewalt, che notarono un comportamento sorprendente nei loro esperimenti: alcune persone, prima di una performance importante, preferivano creare ostacoli piuttosto che presentarsi nelle migliori condizioni possibili.
Perché lo facevano? Per una ragione che ci riguarda tutti: il fallimento non è solo un risultato negativo, è una minaccia alla nostra autostima. Se ci impegniamo al massimo e falliamo, non abbiamo scuse, il fallimento è il nostro. Se invece arriviamo alla prova stanchi, distratti, disorganizzati, con mille incombenze addosso, allora il fallimento non toglie nulla al nostro valore, perché sarà causato dalle circostanze sfortunate. In pratica, ci costruiamo delle scuse da adottare se le cose vanno male.
Jones e Rhodewalt dimostrarono che questa strategia è deliberata solo in parte. Molto più spesso è automatica, quasi istintiva. Non è un piano malvagio, è un tentativo di difendere la nostra immagine di persone capaci, valide, competenti. In breve: il self-handicapping è la cintura di sicurezza della nostra autostima.
Nel 1989, uno degli studi più importanti sul tema — quello di Shepperd & Arkin — mostrò che gli individui che usano frequentemente questa strategia tendono a enfatizzare molto gli ostacoli prima di una prestazione, utilizzando scuse come “ho dormito malissimo”, “sono distrutto”, “ho mille cose da fare” e altri di questo genere. Di solito tendono pure a attribuire i fallimenti a questi ostacoli (non alla loro abilità) e paradossalmente ad aumentare il merito personale quando hanno successo nonostante gli ostacoli. Il meccanismo, in pratica, è questo: se le cose vanno male è perché avevo il fato avverso, ma se invece vanno bene “oh, sono riuscito nonostante le condizioni pessime, sono un grande!”.
Il self-handicapping funziona come una rete psicologica di sicurezza: ti permette di cadere senza farti male. Ma come tutte le reti, ha un costo. Dopo qualche tempo, la rete diventa la nostra migliore amica. È comoda, non costa niente, è sempre disponibile e funziona sempre benissimo come giustificazione.
La cosa più affascinante, però, è la componente filosofica del fenomeno. Nel suo celebre saggio Real Self-Deception (1997), il filosofo Alfred R. Mele spiega che gli alibi non sono bugie consapevoli: sono narrazioni motivate. Non inganniamo gli altri: inganniamo noi stessi, filtrando inconsapevolmente le informazioni in modo da sostenere la storia che ci fa meno male. Mele parla di motivated belief management: il cervello sceglie, organizza e interpreta le informazioni secondo ciò che protegge meglio la nostra identità.
Il self-handicapping è, in definitiva, una forma di assicurazione psicologica: paghi un premio in termini di prestazione, ma la tua autostima rimane intatta. È una strategia brillante a breve termine e devastante nel lungo periodo. Ci salva oggi, ci limita domani.
E se tutto questo era già presente negli anni ’80, oggi abbiamo inventato la macchina perfetta per alimentarlo: lo smartphone.
L’app store degli alibi emotivi: i social network
Se il self-handicapping tradizionale era un fatto psicologico, oggi è diventato anche un fatto tecnologico. Il nostro smartphone è molto più di un dispositivo: è un erogatore continuo di alibi. È come se fosse un app store pieno di alibi. Devi solo scegliere la tipologia e scaricarlo. Ogni notifica, ogni messaggio, ogni badge rosso sull’icona di un’app fa scattare quella micro-scintilla di urgenza che ci spinge a deviare dal compito faticoso verso un’attività più facile, più veloce, più gratificante. Non è colpa nostra: è il risultato di un design studiato per catturare attenzione e interrompere il flusso cognitivo.
Nell’istante in cui il compito principale diventa emotivamente scomodo, l’alternativa digitale non solo è più accessibile, ma è più seducente. È un anestetico perfetto, gratuito, immediato. Gli studi di Clifford Nass e Gloria Mark (Stanford e UC Irvine) hanno dimostrato che ogni interruzione digitale, anche di pochi secondi, crea un “aftershock cognitivo” che può durare fino a 23 minuti prima di tornare allo stesso livello di focus. Chi legge Insalata Mista dagli inizi sa che quello delle micro interruzioni che ti rovinano per ore la concentrazione è un tema che ho trattato più e più volte.
Le notifiche rappresentano un terreno fertilissimo per gli alibi: “Non riesco a concentrarmi perché ho troppe interruzioni”, “oggi è una giornata particolarmente caotica”. In realtà, la maggior parte delle interruzioni ce la procuriamo da soli.
E poi ci sono i social network, che giocano un ruolo ancora più profondo. Uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology nel 2022 (Izadpanah & Charmi) ha mostrato che l’uso intensivo dei social aumenta in modo significativo la tendenza al self-handicapping accademico: gli studenti che passano più tempo su Instagram o TikTok sono anche quelli che creano più ostacoli auto-indotti prima di un compito impegnativo. Non perché siano meno motivati, ma perché i social offrono degli alibi già pronti: “sto solo facendo una pausa”, “ho bisogno di rilassarmi con qualche reel”, “rispondo solo a questo messaggio perché è urgente”. Ogni comportamento trova una giustificazione. Ogni giustificazione diventa un alibi.
La parte più inquietante, però, è che la tecnologia non fornisce solo scuse. Fornisce anche una ricompensa emotiva. Da una parte quindi c’è un compito che ti mette in difficoltà, dall’altra c’è un’azione molto più piacevole da fare, che comporta zero rischi e che anzi ti da una bella ricompensa di soddisfazione e gratificazione. Chissà chi vincerà?
In questo ambiente, gli alibi proliferano come protozoi. Perché non arriviamo mai a quella presentazione? Perché non iniziamo mai quel documento? Perché non chiamiamo mai quel cliente? Semplice: ogni volta che stiamo per farlo, c’è un mondo intero pronto a offrirci alternative perfette — tutte più facili, tutte più brevi, tutte più consolatorie. E tutte, inevitabilmente, più adatte a proteggerci dal rischio emotivo.
La piccola fessura tra paura e azione
Il risultato è che viviamo in un’epoca in cui l’autosabotaggio non è solo tollerato: è reso sistemico. Non abbiamo più bisogno di inventare alibi: ci vengono consegnati chiavi in mano da piattaforme progettate per tenerci lì, lontani dal compito reale ma immersi in una narrativa che dà un senso — anche temporaneo — al nostro rimandare.
Alla fine, gli alibi non sono mostri da stanare o difetti da correggere. Sono piccole corazze che indossiamo quando qualcosa ci fa paura, ci tocca, ci sfida. Ma ogni corazza pesa, e più la portiamo, più rallenta il passo.
E allora forse il punto non è smettere di rimandare, né diventare eroi dell’efficienza. Non ci sono corsi di produttività da acquistare, il punto è accorgerci di quel momento preciso in cui scegliamo l’alibi invece dell’azione: il clic sul telefono, la scrivania da riordinare, l’email da controllare ancora una volta. Oppure quell’ostacolo reale al quale però ci arrendiamo troppo in fretta perché tutto sommato speravamo che ci fosse, proprio per arrenderci senza nemmeno provarci.
Perché è lì — in quella fessura minuscola tra la paura e il gesto — che si nasconde la possibilità di fare qualcosa di diverso. Quando si scopre di essersi infilati in quella situazione è il momento di combattere l’alibi. Cosa non facile, chiaramente, e chi vi scrive nell’alibi ci sguazza fino al collo.
La cosa ironica è che alla fine, in molti di questi casi, basta davvero meno di un quarto d’ora per chiudere ciò che abbiamo rimandato per mesi. Il resto è solo rumore. O, come sempre, un alibi in più.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini



