#InsalataLight: La vera informazione, senza IA, è spacciata
Secondo molti, l'informazione ha toccato il fondo. Colpa di titoli sensazionalistici, errori, poca attenzione e fake-news. La soluzione sembra essere una soltanto: l'intelligenza artificiale.
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Diciamocelo chiaramente: non siamo contenti di come oggi funziona l’informazione. Lo dicono prima di tutto i numeri. I quotidiani, in Italia, continuano a perdere copie (più avanti vi darò i numeri precisi e aggiornati). I siti di informazione sono sempre più invasi da banner pubblicitari invadenti e fastidiosi. Si fa persino fatica a leggere il testo. Ma il problema principale sono le notizie: pretestuose, esagerate, urlate, scritte male, non verificate e alle volte persino false.
Quello delle notizie false messe online senza essere verificate è un problema fisiologico di chi fa a gara sul tempo per uscire per primo sul web, ma la cui frequenza è in preoccupante ascesa. Si dà la colpa all’ingenuità, al poco tempo a disposizione, al fatto che certe notizie vengano rilanciate sempre più spesso da testate autorevoli e quindi sembrano essere affidabili.
Quindi vengono rilanciate ancora e ancora, per poi rivelarsi finte e allora parte la seconda ondata, quella degli articoli riparatori che titolano ”No, non è vero che…”. Che poi è un pretesto per cavalcare la stessa onda della notizia falsa e fare di nuovo tante visualizzazioni. Certo, così si racimola qualche euro in più di pubblicità, ma a perderci veramente è la credibilità della testata. Non solo, a perderci è il giornalismo tutto, perché se siamo arrivati a questo punto di sfiducia, la colpa è principalmente di chi ha portato l’informazione - quella che dovrebbe essere seria, verificata, professionale perché fatta da professionisti - a questo livello.
Tutti vivevano felici e contenti, poi arrivò la SEO
Chi mi ha letto altrove, sa che di mestiere mi occupo anche di questa cosa qui, la SEO, di cui ormai parlano tutti. Cos’è lo diciamo ancora una volta per chi non lo sapesse: si tratta dell’insieme di tecniche che fanno in modo che quello che scriviamo piaccia tanto ai motori di ricerca (principalmente Google, almeno fino a pochi mesi fa), così da creare una correlazione tra quello che abbiamo scritto e una keyword specifica, magari di quelle che vengono digitate tante volte sul motore. In questo modo, quando un utente cerca quella keyword su Google, uscirà spontaneamente il sito sul quale abbiamo lavorato nelle prime posizioni e quindi arriverà un bel po’ di traffico gratuito. Di conseguenza, si sa, traffico uguale soldi.
Oggi la SEO è una tecnica tanto complessa quanto semplice. Complessa perché richiede professionalità e capacità di scrittura. Semplice perché nessuno ci sta capendo più niente. È evidente poi che l’intelligenza artificiale ha rimescolato tutto, ma ne parliamo nel paragrafo successivo.
Sta di fatto che, da quando nelle redazioni ci si è cominciati a preoccupare di “uscire prima su Google”, è in qualche modo morto il giornalismo. Non è stata solo la SEO, badate bene, c’è anche il sensazionalismo, che porta tanti clic e allora daje giù con i titoli clicbait, quelli che dicono e non dicono, quelli che ti portano a cliccare sulla notizia per poi scoprire che la notizia, ovviamente, non c’è.
Il caso di Bali anziché Bari: quando l’informazione un po’ ci fa e un po’ ci è
Nell’Insalata originale citavo un caso che all’epoca era di stretta attualità, oggi chiaramente non lo è, ma è molto utile allo scopo e per questo lo riporto ugualmente. Si tratta del caso dell’influencer Marco Togni che, pubblicando un video di protesta sui social, ha gabbato praticamente tutte le redazioni italiane. Gabbato per modo di dire: chiunque avrebbe capito che la sua protesta per essere atterrato a Bali anziché a Bari, partendo da Tokyo, era ironica (sapete il luogo comune secondo cui gli orientali pronuncino la “l” al posto della “r”, no?). Però qualcuno ci avrà visto subito una storia facilmente trasformabile in un titolo acchiappa clic, e allora che importa se a rimetterci è la reputazione della testata? Tanto poi basterà fare un altro articolo di smentita e via con altre views.
Non escludo che qualcuno ci sia anche caduto realmente, ma in questo caso è ancora peggio, perché se credi a una storia del genere forse è meglio che cambi mestiere.
E così la notizia è stata riportata da praticamente tutte le testate più importanti. Inutile farne l’elenco, dentro ci sono praticamente tutte. Salvo poi, come al solito, l’arrivo dei titoli che svelano la fake news, che però contengono sempre l’amata parola chiave “Bali invece di Bari”. Fanpage, tanto per fare un esempio, titola infatti “Bali invece di Bari è una fake news? Cosa non torna nella storia dell’influencer che sbaglia aereo”.
Come l’IA ha rimescolato tutto
La domanda quindi è: ora che abbiamo modelli di linguaggio capaci di creare testi perfetti con una semplice chat, ponendo semplicemente una domanda, quanto tempo ci vorrà perché il web venga completamente invaso da fake news che redattori o caporedattori senza scrupoli non esiteranno a rilanciare?
Nonostante Google si prodighi nel rassicurarci sul fatto che ha sistemi potentissimi per smascherare contenuti realizzati con modelli di IA e nonostante in giro per il web siano nati tanti strumenti che dovrebbero svelare l’origine non umana di certi testi, diciamocelo francamente, basta un minimo di editing per ingannare qualsiasi strumento.
Mettiamoci pure la capacità che hanno le nuove intelligenze generative di creare immagini e il gioco è fatto. Tale è infatti il caso di Amnesty International, che ha pubblicato una foto generata da un’intelligenza artificiale per raccontare un fatto vero, le proteste del 2021 contro le violenze della polizia in Colombia (oggi sappiamo che i modelli che generano immagini hanno fatto passi in avanti incredibili e infatti questa immagini appare non più così credibile).
Magari, semplicemente, nessun fotografo aveva potuto scattare foto, ma è ovvio che ci si ponga la domanda: è etico creare una foto finta? È deontologico usare un falso per documentare un fatto vero? E soprattutto: quanto tempo ci vorrà perché tutto questo venga utilizzato e sfruttato da chi ha interesse solo per la propaganda (ovvero la politica e i gruppi che sollevano l’opinione popolare tramite la diffusione di notizie false)? Poco, se ci riuscivano già prima che ci fossero questi mezzi.
L’intelligenza artificiale decreterà la fine dell’informazione? Il contrario
Arrivati qui, qualcuno penserà che è tutto finito, che non potrà mai più esistere una notizia che possa essere ritenuta affidabile. Notizie generate da un algoritmo, immagini create da un’intelligenza artificiale, video deep-fake con celebrità che fanno cose che non hanno mai fatto. Come si potrà distinguere ciò che è vero da ciò che è falso?
Timidi segnali di una soluzione però cominciano ad arrivare e la soluzione sta proprio, udite udite, nell’intelligenza artificiale stessa. "Ma come?”, vi chiederete. Se c’è qualcosa che può combattere chi dell’IA farà un uso malevolo, non etico, è proprio l’intelligenza artificiale stessa. Se c’è qualcosa che può scoprire se un’immagine è stata generata, se un testo è stato creato da un algoritmo e se un video è vero o falso, sarà sempre e solo un’ulteriore modello addestrato a riconoscere ciò che vero sembra ma vero non è.
Un timido esempio, dicevo, l’ho scoperto questa settimana (all’epoca in cui ho scritto questa Insalata, più di un anno fa). Si tratta di un’app chiamata Boring report: News by AI. Fa una cosa semplice: rende le notizie noiose. Ovvero, rielabora i titoli togliendo il sensazionalismo e il clicbait, trasformando gli articoli in quello che avrebbero dovuto essere prima dell’arrivo della maledetta SEO (si, l’ho detto, sputo nel piatto dove mangio) e della pubblicità che paga sulla base delle visualizzazioni. Un esempio:
Fox Business titola “Godfather of artificial intelligence say AI is close to being smarter than us, could end humanity” (Il padrino dell'intelligenza artificiale afferma che l'IA è vicina a essere più intelligente di noi, potrebbe porre fine all’umanità). Boring la trasforma più prosaicamente in “Geoffrey Hinton, pioneer of AI, warns about its potential dangers” (Geoffrey Hinton, pioniere dell'IA, mette in guardia sui suoi potenziali pericoli). Via la spettacolarizzazione, il terrorismo spiccio sulla fine dell’umanità e la funzione acchiappa clic del titolo di Fox, rimane il fatto: un esperto in AI mette in guardia sui suoi pericoli.
Un altro esempio: Deadline scrive “King Charles coronation: U.S. Networks play up Royal pomp with a dose of reality show drama” (Incoronazione di Re Carlo: i network statunitensi riprendono lo sfarzo reale con una dose di dramma da reality show). Boring lo modifica in “Americans tune in to King Charles coronation” (Gli americani si sintonizzano sull'incoronazione di Re Carlo). Ok, forse un po’ troppo asettico e semplificato, ma è quello che conta, alla fine.
Insomma, l’informazione è destinata a morire?
Sarà il parere personale di un inguaribile ottimista, ma ci sono buone speranze che, alla fine, l’informazione sopravviverà e anzi tornerà a guadagnarsi la fiducia dei lettori. In fondo è semplice, basta lavorare bene. Lo dimostrano, tra gli altri, quelli del Il Post, che hanno pubblicato anche quest’anno le statistiche sull’andamento del giornale online. Trattandosi di un giornale online, i guadagni arriveranno dalla pubblicità, giusto? E invece no, il 75% dei ricavi arriva dagli abbonamenti (era il 70% l’anno scorso). Cioè da persone che (come il sottoscritto, chiaro) hanno deciso di pagare una certa somma ogni mese per leggere quello che avrebbero potuto leggere anche senza pagare (tranne l’accesso a qualche podcast, che di fatto fanno da traino per gli abbonamenti).
Di numeri precisi non ce ne sono, ma proviamo a fare due conti: Il Post ha fatturato 3,5 milioni nel 2021 e nel 2022 è cresciuto ulteriormente (l’articolo fornisce dati sugli utili, non sul fatturato). Scopriamo però da engage.it che il 2023 è stato chiuso con un aumento complessivo del 26% dei ricavi, che hanno raggiunto i 7 milioni e 484mila euro.
Se tanto mi da tanto, quindi, nel 2023 gli abbonamenti hanno fruttato circa 5,6 milioni di euro, che diviso una media di 88€ ad abbonamento all’anno (ho fatto la media tra le due opzioni di abbonamento: gli 8€ mensili e gli 80€ annuali) dà circa 63.600 abbonati (avevo calcolato, con la stessa logica, 28.500 abbonati nel 2021). Non può essere una cifra esatta, sia chiaro, ma ci fornisce almeno un ordine di grandezza. Qualche decina di migliaia di persone, più che raddoppiata in due anni, ha deciso di pagare per un’informazione di qualità.
Non è per niente poco, certo è molto distante dalle circa 207.516 copie (sia cartacee che digitali) vendute del Corriere della Sera a febbraio 2024 (erano 231.000 a febbraio 2023 dati ufficiali della FIEG1, -10%), ma in quel caso parliamo del primo quotidiano nazionale, distribuito in tutte le edicole del paese e non solo.
Un ultimo dato interessante: quanti quotidiani vengono venduti in un mese? Nell’ultimo mese censito si parla di 1,5 milioni di copie totali (erano 1,6 l’anno scorso). Il che non ci dice quanti sono gli acquirenti unici, ma ci dice comunque che sono pochi, troppo pochi. Soprattutto se paragoniamo le copie vendute a quelle di circa dieci anni fa (dicembre 2012), quando il totale ammontava a 9,3 milioni.
Ecco, speriamo che da qui, con l’intelligenza artificiale o meno, si possa solo risalire.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La FIEG è la Federazione Italiana Editori Giornali, che ogni mese pubblica i risultati dettagliati delle vendite e della raccolta pubblicitaria.