La vera informazione, senza intelligenza artificiale, è spacciata
Secondo molti, l'informazione ha toccato il fondo. Colpa di titoli sensazionalistici, errori, poca attenzione e fake-news. La soluzione sembra essere una soltanto: l'intelligenza artificiale.
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In sintesi:
L’informazione, anche quella delle grandi testate giornalistiche, sembra a un punto di non ritorno. Lo dimostrano le copie dei giornali che vengono vendute, che in dieci anni si sono ridotte quasi a un decimo.
La necessità di posizionarsi sui motori di ricerca e di fare tante visualizzazioni ha compromesso l’affidabilità delle testate online, riempiendole di notizie pretestuose, urlate e spesso inesistenti. Una situazione a cui pochi sembrano aver saputo porre rimedio. Chi ci è riuscito l’ha fatto utilizzando gli abbonamenti, per uscire dal giogo delle piattaforme di advertising, che sono basate esclusivamente su visualizzazioni e clic.
Una soluzione contro questo tipo di informazione inquinata potrebbe venire proprio dall’intelligenza artificiale. Anziché decretare la morte dell’informazione, come tanti temono, potrebbe aiutare i lettori a scovare le informazioni false o alterate. Un esempio è l’app Boring.
Diciamocelo chiaramente: non siamo contenti di come oggi funziona l’informazione. Lo dicono prima di tutto i numeri. I quotidiani, in Italia, continuano a perdere copie (più avanti vi do dei numeri precisi). I siti di informazione sono sempre più invasi da banner pubblicitari invadenti e fastidiosi. Si fa persino fatica a leggere il testo. Ma il problema principale sono le notizie: pretestuose, esagerate, urlate, scritte male, non verificate e alle volte persino false.
Quello delle notizie false messe online senza essere verificate è in problema fisiologico di chi fa a gara sul tempo per uscire per primo sul web, ma la cui frequenza è in preoccupante ascesa. Si dà la colpa all’ingenuità, al poco tempo a disposizione, al fatto che certe notizie vengono rilanciate sempre più spesso da testate autorevoli e quindi risultano essere affidabili.
Quindi vengono rilanciate ancora e ancora, per poi rivelarsi finte e allora parte la seconda ondata, quella degli articoli riparatori che titolano ”No, non è vero che…”. Che poi è un pretesto per cavalcare la stessa onda della notizia falsa e fare di nuovo tante visualizzazioni. Certo, così si racimola qualche euro in più di pubblicità, ma a perderci veramente è la credibilità della testata. Non solo, a perderci è il giornalismo tutto, perché se siamo arrivati a questo punto di sfiducia, la colpa è principalmente di chi ha portato l’informazione - quella che dovrebbe essere seria, verificata, professionale perché fatta da professionisti - a questo livello.
Tutti vivevano felici e contenti, poi arrivò la SEO
Chi mi ha letto altrove, sa che di mestiere mi occupo anche di questa cosa qui, la SEO, di cui ormai parlano tutti. Cos’è lo diciamo ancora una volta per chi non lo sapesse: si tratta dell’insieme di tecniche che fanno in modo che quello che scriviamo piaccia tanto ai motori di ricerca (principalmente Google, almeno fino a pochi mesi fa), così da creare una correlazione tra quello che abbiamo scritto e una keyword specifica, magari di quelle che vengono digitate tante volte sul motore. In questo modo, quando un utente cerca quella keyword su Google, uscirà spontaneamente il nostro sito nelle prime posizioni e quindi arriverà un bel po’ di traffico gratuito e di conseguenza, si sa, traffico uguale soldi.
Oggi la SEO è una tecnica tanto complessa quanto semplice. Complessa perché richiede professionalità e capacità di scrittura. Semplice perché nessuno ci sta capendo più niente. È evidente poi che l’intelligenza artificiale ha rimescolato tutto, ma ne parliamo nel paragrafo successivo.
Sta di fatto che, da quando nelle redazioni ci si è cominciato a preoccupare di “uscire prima su Google”, è in qualche modo morto il giornalismo. Non è stata solo la SEO, badate bene, c’è anche il sensazionalismo che porta tanti clic e allora daje giù con i titoli clicbait, quelli che dicono e non dicono, quelli che ti portano a cliccare sulla notizia per poi scoprire che la notizia, ovviamente, non c’è.
Il caso di Bali anziché Bari: quando l’informazione un po’ ci fa e un po’ ci è
Volete un caso recente? Per esempio quello dell’influencer Marco Togni che, pubblicando un video di protesta sui social, ha gabbato praticamente tutte le redazioni italiane. Gabbato per modo di dire: chiunque avrebbe capito che la sua protesta per essere atterrato a Bali anziché a Bari, partendo da Tokyo, era ironica (sapete il luogo comune secondo cui gli orientali pronuncino la “l” al posto della “r”, no?). Però qualcuno ci avrà visto subito una storia facilmente trasformabile in un titolo acchiappa clic, e allora che importa se a rimetterci è la reputazione della testata? Tanto poi basterà fare un altro articolo di smentita e via con altre views.
Non escludo che qualcuno ci sia anche caduto realmente, ma in questo caso è ancora peggio, perché se credi a una storia del genere forse è meglio che cambi mestiere.
E così la notizia è stata riportata da praticamente tutte le testate più importanti. Inutile farne l’elenco, dentro ci sono praticamente tutte. Salvo poi, come al solito, l’arrivo dei titoli che svelano la fake news, che però contengono sempre l’amata parola chiave “Bali invece di Bari”. Fanpage, tanto per fare un esempio, titola infatti “Bali invece di Bari è una fake news? Cosa non torna nella storia dell’influencer che sbaglia aereo”.
Come l’IA ha rimescolato tutto
La domanda quindi è: ora che abbiamo modelli di linguaggio capaci di creare testi perfetti con una semplice chat, ponendo semplicemente una domanda, quanto tempo ci vorrà perché il web venga letteralmente invaso da fake news che redattori o caporedattori senza scrupoli non esiteranno a rilanciare?
Nonostante Google si prodighi nel rassicurarci sul fatto che ha sistemi potentissimi per smascherare contenuti realizzati con algoritmi di IA e nonostante in giro per il web siano nati tanti strumenti che dovrebbero svelare l’origine non umana di certi testi, diciamocelo francamente, basta un minimo di editing per ingannare qualsiasi strumento.
Mettiamoci pure la capacità che hanno le nuove intelligenze generative di creare immagini e il gioco è fatto. Tale è infatti il caso di Amnesty International, che ha pubblicato una foto generata da un’intelligenza artificiale per raccontare un fatto vero, le proteste del 2021 contro le violenze della polizia in Colombia.
Magari, semplicemente, nessun fotografo aveva potuto scattare foto, ma è ovvio che ci si ponga la domanda: è etico creare una foto finta? È deontologico usare un falso per documentare un fatto vero? E soprattutto: quanto tempo ci vorrà perché tutto questo venga utilizzato e sfruttato da chi ha interesse solo per la propaganda (ovvero la politica e i gruppi che sollevano l’opinione popolare tramite la diffusione di notizie false)? Poco, se ci riuscivano già prima che ci fossero questi mezzi.
L’intelligenza artificiale decreterà la fine dell’informazione? Il contrario
Arrivati qui, qualcuno penserà che è tutto finito, che non potrà mai più esistere una notizia che possa essere ritenuta affidabile. Notizie generate da un algoritmo, immagini create da un’intelligenza artificiale, video deep-fake con celebrità che fanno cose che non hanno mai fatto. Come si potrà distinguere ciò che è vero da ciò che è falso?
Timidi segnali di una soluzione però cominciano ad arrivare e la soluzione sta proprio, udite udite, nell’intelligenza artificiale stessa. "Ma come?”, direte voi. Se c’è qualcosa che può combattere chi dell’IA farà un uso malevolo, non etico, è proprio l’intelligenza artificiale stessa. Se c’è qualcosa che può scoprire se un’immagine è stata generata, se un testo è stato creato da un algoritmo e se un video è vero o falso, sarà sempre e solo un’ulteriore modello addestrato a riconoscere ciò che vero sembra ma vero non è.
Un timido esempio, dicevo, l’ho scoperto questa settimana. Si tratta di un’app chiamata Boring report: News by AI. Fa una cosa semplice: rende le notizie noiose. Ovvero, rielabora i titoli togliendo il sensazionalismo e il clicbait, trasformando gli articoli in quello che avrebbero dovuto essere prima dell’arrivo della maledetta SEO (si, l’ho detto, sputo nel piatto dove mangio) e della pubblicità che paga sulla base delle visualizzazioni. Un esempio:
Fox Business titola “Godfather of artificial intelligence say AI is close to being smarter than us, could end humanity” (Il padrino dell'intelligenza artificiale afferma che l'IA è vicina a essere più intelligente di noi, potrebbe porre fine all’umanità). Boring la trasforma più prosaicamente in “Geoffrey Hinton, pioneer of AI, warns about its potential dangers” (Geoffrey Hinton, pioniere dell'IA, mette in guardia sui suoi potenziali pericoli). Via la spettacolarizzazione, il terrorismo spiccio sulla fine dell’umanità e la funzione acchiappa clic del titolo di Fox, rimane il fatto: un esperto in AI mette in guardia sui suoi pericoli.
Un altro esempio: Deadline scrive “King Charles coronation: U.S. Networks play up Royal pomp with a dose of reality show drama” (Incoronazione di Re Carlo: i network statunitensi riprendono lo sfarzo reale con una dose di dramma da reality show). Boring lo modifica in “Americans tune in to King Charles coronation” (Gli americani si sintonizzano sull'incoronazione di Re Carlo). Ok, forse un po’ troppo asettico e semplificato, ma è quello che conta, alla fine.
Insomma, l’informazione è destinata a morire?
Sarà il parere personale di un inguaribile ottimista, ma ci sono buone speranze che, alla fine, l’informazione sopravviverà e anzi tornerà a guadagnarsi la fiducia dei lettori. In fondo è semplice, basta lavorare bene. Lo dimostrano, tra gli altri, quelli del Il Post, che hanno pubblicato anche quest’anno le statistiche sull’andamento del giornale online. Trattandosi di un giornale online, i guadagni arriveranno dalla pubblicità, giusto? E invece no, il 70% dei ricavi arriva dagli abbonamenti. Cioè da persone che (come il sottoscritto, chiaro) hanno deciso di pagare una certa somma ogni mese per leggere quello che avrebbero potuto leggere anche senza pagare (tranne l’accesso a qualche podcast, che di fatto fanno da traino per gli abbonamenti).
Di numeri precisi non ce ne sono, ma proviamo a fare due conti: Il Post ha fatturato 3,5 milioni nel 2021 e nel 2022 è cresciuto ulteriormente (l’articolo fornisce dati sugli utili, non sul fatturato). Se tanto mi da tanto, nel 2022 gli abbonamenti hanno fruttato circa 2,5 milioni di euro, che diviso una media di 88€ ad abbonamento all’anno (ho fatto la media tra le due opzioni di abbonamento: gli 8€ mensili e gli 80€ annuali) dà circa 28.500 abbonati. Non può essere una cifra esatta, sia chiaro, ma ci fornisce almeno un ordine di grandezza. Qualche decina di migliaia di persone hanno deciso di pagare per un’informazione di qualità.
Non è per niente poco, certo è molto distante dai circa 231.000 che hanno acquistato una copia (cartacea o digitale) del Corriere della Sera a Febbraio 2023 (dati ufficiali della FIEG1), ma in quel caso parliamo del primo quotidiano nazionale, distribuito in tutte le edicole del paese e non solo.
Un ultimo dato interessante: quanti quotidiani vengono venduti in un mese? Nell’ultimo mese censito si parla di 1,6 milioni di copie totali. Il che non ci dice quanti sono gli acquirenti unici, ma ci dice comunque che sono pochi, troppo pochi. Soprattutto se paragoniamo le copie vendute a quelle di circa dieci anni fa (dicembre 2012), quando il totale ammontava a 9,3 milioni.
Ecco, speriamo che da qui, con l’intelligenza artificiale o meno, si possa solo risalire.
SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?2
Google si è decisa a fare un passo oltre le classiche e noiosissime password. La novità si chiama Passkey e permette, già da ora, di fare l’accesso a Google senza usare la password, ma non ovunque. Il sistema funziona infatti con i principali sistemi operativi ma c’è un “ma”. Se oggi le password vengono memorizzate nel browser (ipotizziamo Chrome), posso utilizzare quelle password ovunque abbia Chrome legato al mio account. Con Passkey, invece, le password verranno legate al sistema operativo e se questo non prevede la condivisione delle password con altri dispositivi, allora sarò legato a quel dispositivo. Non è un caso se il sito passkeys.dev mette giù uno schema abbasta complicato secondo cui se creo una password su MacOS potrò usare quella password soltanto sui dispositivi Apple e se la creo su Windows… beh, potrò usarla soltanto su quel preciso dispositivo Windows dove l’ho creata. Mi sa che c’è ancora un po’ da lavorare.
Nell’Insalata N.12 ho scritto di come i videogiochi siano una cosa seria. Lo sono talmente tanto da poter rappresentare l’unica fonte di informazione libera per certe popolazioni. Mi riferisco alla popolazione russa, la cui informazione è completamente controllata dal governo. Un’importante testata finlandese ha utilizzato allora il popolare gioco Counter-Strike per inserire, in una mappa dal nome evocativo (“de_voyna”, dove “voyna” in russo significa guerra) una stanza in cui è possibile leggere le notizie sul conflitto russo-ucraino senza la manipolazione effettuata dei media russa. Una notizia che fa il paio con il tema di questa newsletter: l’informazione libera, l’unico baluardo a difesa della libertà dei popoli.
Nella newsletter ho scritto che Google è il principale motore di ricerca, almeno per ora. Mi riferivo al fatto che, con l’arrivo dei chatbot basati su intelligenza artificiale, la cosa rischia di cambiare. Attenzione, uso il termine “rischia” perché non è che Google stia a guardare. Ha già lanciato infatti il suo chatbot che si chiama Bard, ma è un dato di fatto che Bing, il motore di ricerca di Microsoft, abbia battuto Google nella corsa all’integrazione di un chatbot basato su intelligenza artificiale nel motore di ricerca. Oggi l’accesso al chatbot di Bing diventa libero (prima era basato su una lista di attesa) e quindi tutti potranno utilizzare l’intelligenza artificiale di GPT all’interno di Bing, compreso il motore che genera le immagini (Bing Image Creator), che ora è pure in italiano. Cambia completamente il paradigma: prima cercavi delle cose, ora chiedi a un’intelligenza artificiale che ti fornisce direttamente la risposta. Provatelo.
TI SEI PERSO LE PRECEDENTI PUNTATE?
N.6 L’incredibile storia di un tweet che ha cambiato la vita a 7 milioni di americani
N.4 Apple TV+ è probabilmente il miglior servizio di streaming video
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La FIEG è la Federazione Italiana Editori Giornali, che ogni mese pubblica i risultati dettagliati delle vendite e della raccolta pubblicitaria.
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Incredibile la notizia dell’informazione contrabbandata attraverso la mappa di Counter-Strike. Sarà che anch’io da abbonato al Post sono sensibile alla pulizia dell’informazione 😅