L’Italia che cade in piedi. Ovvero: come ci rialzeremo ancora una volta
Nonostante crisi e stagnazione, l’Italia dimostra ancora una volta di sapersi reinventare: dai distretti alla green economy, un Paese che cade ma si rialza sempre. O meglio: cade in piedi.
Non sono di certo uno storico, però, tolte le guerre, forse potremmo essere tutti d’accordo nel dire che l’Italia stia affrontando uno dei periodi più complicati della sua storia moderna, chiusa com’è tra un’economia stagnante, una demografia ampiamente negativa, un debito pubblico esagerato e la conseguente scarsissima capacità (e possibilità) di investire nella crescita e nel futuro.
Siamo, in altre parole, in un vicolo cieco, nell’angolo di un ring dove aspettiamo solo che il nostro avversario arrivi per sganciare il destro finale, quello che ci metterà KO una volta per tutte. Eppure, c’è qualcosa che ci fa dire che forse una speranza c’è ancora. Perché quando tocca il fondo, all’italiano scatta una capacità di reazione che non è comune ad altri popoli. E attenzione, questa non è una Insalata autocelebrativa dell’orgoglio nazionale, tutt’altro. È piuttosto una presa di coscienza e una speranza nei confronti di un futuro buio dove tante cose, probabilmente, cambieranno.
Recentemente abbiamo perso un altro treno che tutti abbiamo visto arrivare — non noi come italiani ma piuttosto noi come europei —, ovvero quello dell’intelligenza artificiale. E sempre noi europei ce la stiamo mettendo tutta per distruggere un altro settore industriale dove eravamo protagonisti assoluti, quantomeno in competenze e qualità, cioè quello dell’auto.
Se avete letto le ultime Insalate a questo proposito, saprete benissimo che non è né colpa dell’Europa né di un’isteria collettiva per il green e l’elettrificazione. Semplicemente abbiamo visto arrivare un cambiamento importante, quell’auto 2.0 (mi piace chiamarla così perché questo è), e non l’abbiamo colto con sufficiente anticipo e lungimiranza. Al posto nostro l’hanno fatto invece i cinesi, che ora sono pronti a invadere i nostri mercati con un prodotto affidabile, conveniente e tecnologicamente anni luce avanti rispetto al nostro.
E dunque? Siamo spacciati? Stiamo perdendo tutti i vantaggi dell’orgoglio manifatturiero europeo di cui l’Italia era grande protagonista? Nient’affatto, a quanto risulta leggendo i dati. Senza che ce ne accorgessimo, l’Italia ha saputo riciclarsi in altri settori industriali che prima ottenevano risultati modesti: dalla cosmetica all’aerospace, dal farmaceutico al green, una parte dell’Italia è già pronta a sopperire a un futuro dove probabilmente altri settori storici perderanno quote. E questo grazie a una capacità di riconversione che è scritta nel DNA delle nostre imprese da almeno un secolo. Ovvero da quando, lo vedremo, l’industria bellica si riconvertì creando e diventando protagonista nell’industria del caffè (sia in ambito domestico che professionale), della rubinetteria, del valvolame e della meccanica di precisione.
Un’Insalata che per una volta è onestamente ottimista e che guarda al futuro di un paese che ha ancora diversi assi nella manica e che seppur scassato, vecchio, disorganizzato e con i conti per aria, può ancora dire la sua in un contesto internazionale nervosissimo e teso come non mai.
Le origini del “miracolo del riciclo”: dalle armi al caffè
La capacità italiana di reinventarsi non nasce con la modernità, è anzi una tradizione antica, ma trova la sua forma più compiuta nel secondo dopoguerra. Nel 1945 il Paese era un cumulo di rovine, il PIL pro capite era dimezzato rispetto al 1938, oltre il 30% delle fabbriche distrutto o inservibile, la produzione industriale ridotta a un terzo di quella prebellica. Eppure, in meno di dieci anni, l’Italia divenne uno dei Paesi manifatturieri più dinamici del mondo. Un miracolo? Non proprio: fu una gigantesca operazione di riconversione, tanto creativa quanto disperata.

Le aziende che durante la guerra producevano armi, proiettili e parti meccaniche per l’esercito si trovarono improvvisamente senza commesse. Alcune chiusero, altre capirono che la tecnologia della guerra poteva servire per la pace. Fu così che torni, presse e macchinari per bossoli si trasformarono in strumenti per produrre valvole, rubinetti, pentole e accessori domestici. Nel Nord Italia, in particolare tra Novara, Vercelli e il Lago d’Orta, nacquero centinaia di microimprese che riutilizzarono scarti e competenze militari per costruire oggetti civili.
Da quell’esperienza nacque il distretto della rubinetteria e del valvolame del Cusio-Valsesia, che oggi conta oltre 400 imprese, più di 8.000 addetti e un export che vale circa 400 milioni di euro nel primo trimestre 2025, in crescita del +3 % su base annua secondo il Monitor dei Distretti di Intesa Sanpaolo di luglio 2025.
Un percorso analogo seguì il settore del caffè espresso, che nacque anch’esso dalle ceneri dell’industria metallurgica. Alfonso Bialetti, ex operaio specializzato nella lavorazione dell’alluminio, sfruttò le competenze acquisite nelle officine di guerra per creare nel 1933 la celebre Moka Express, poi rilanciata nel dopoguerra dal figlio Renato. In pochi anni la caffettiera divenne un fenomeno mondiale: nel 1957 la Bialetti produceva già oltre un milione di pezzi l’anno, frutto della capacità di rendere “popolare” una tecnologia industriale.
Un destino simile ebbero le aziende che si occuparono di macchine da caffè professionali, come La Cimbali, fondata nel 1912 come bottega di lattoneria e riconvertita nel dopoguerra alla meccanica da bar. Grazie a innovazioni come il gruppo idraulico e il boiler orizzontale, nel 1960 Cimbali esportava già in oltre 60 paesi.
Anche in altri settori la logica fu la stessa: trasformare la precisione militare in affidabilità civile. Le fabbriche di armi di Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, divennero scuole di meccanica fine e ingegneria dei materiali, dando vita a un distretto che oggi produce componenti per automotive, robotica e biomedicale. Lo stesso accadde nel Veneto, dove la lavorazione dei bossoli e degli ottone bellici generò le basi per il futuro distretto dell’occhialeria di Belluno, guidato da marchi come Luxottica e Safilo.
Nel complesso, tra il 1948 e il 1963, la produzione industriale italiana crebbe di oltre il 95%, con un incremento medio annuo del 6,3% (fonte: ISTAT, Conti economici storici 1861–2011). Ma la cifra più significativa è un’altra: oltre il 60% delle imprese manifatturiere nate in quel periodo derivavano da riconversioni industriali. Non furono quindi “nuove” industrie, ma industrie rigenerate, costruite sulla stessa materia prima della guerra: acciaio, ingegno e ostinazione.
Questa straordinaria capacità di riciclo industriale — passare dalle munizioni ai miscelatori, dai proiettili ai percolatori — è ciò che ha reso l’Italia quello che è ancora oggi: un Paese dove il design nasce dalla necessità, e l’innovazione dall’arte di arrangiarsi.
I nuovi motori della crescita: farmaceutica, cosmetica, aerospazio
Mentre il mondo si preoccupa del declino dell’automotive e della deindustrializzazione europea, in Italia accade un fenomeno silenzioso: la nascita di nuovi campioni industriali, spesso invisibili ai radar dell’opinione pubblica ma vitali per l’economia nazionale. È la seconda vita della manifattura italiana, quella che si muove lontano dai riflettori ma tiene in piedi i conti del Paese.
Il caso più eclatante è la farmaceutica, oggi simbolo di un’industria che ha saputo trasformare ricerca, qualità produttiva e internazionalizzazione in una macchina economica potentissima. Nel 2007 la produzione nazionale di farmaci valeva 22,5 miliardi di euro; nel 2024 ha toccato 56 miliardi, di cui 49 miliardi generati dall’export. La crescita reale del comparto negli ultimi 15 anni è stata superiore al +150%, mentre nello stesso periodo la crescita complessiva del PIL italiano è rimasta sotto il 10%.
Il settore conta oggi 70.000 addetti diretti e oltre 200.000 nell’indotto, con investimenti in ricerca e sviluppo pari a 1,9 miliardi di euro annui — un record europeo. Solo nel primo trimestre del 2025, le esportazioni farmaceutiche sono cresciute del +4,6 % rispetto all’anno precedente, mantenendo un saldo commerciale positivo di oltre 30 miliardi (dati Farmindustria – Indicatori farmaceutici 2025) .
L’altro grande settore di successo è la cosmetica, un comparto spesso sottovalutato ma che oggi pesa più dell’automotive per crescita e redditività. In vent’anni, le esportazioni italiane di prodotti cosmetici sono passate da 2 miliardi a oltre 8 miliardi di euro, quadruplicando in valore e trasformando il Made in Italy della bellezza in un’industria hi-tech della pelle.
Nel 2024 il comparto ha registrato un fatturato complessivo di 16,6 miliardi di euro, con una crescita del +13,8 % rispetto al 2023 e un avanzo commerciale di 4,2 miliardi. Il 47 % della produzione è esportato, e l’Italia è oggi quarto esportatore mondiale di cosmetici, dopo Francia, Corea e Stati Uniti (dati: Cosmetica Italia).
Dietro questi numeri non ci sono solo shampoo e rossetti, ma centri di ricerca e innovazione chimica, laboratori di biotecnologia e packaging sostenibile. L’industria cosmetica italiana impiega oltre 36.000 addetti diretti e 250.000 con l’indotto, con più di 600 aziende, il 60% delle quali concentrate in Lombardia ed Emilia-Romagna.
È una filiera integrata che va dalla chimica di precisione ai macchinari per l’imbottigliamento, e che negli ultimi anni si è avvicinata alla farmaceutica attraverso la “cosmeceutica”, il settore a cavallo tra scienza e bellezza.
Ma il capitolo più interessante riguarda l’aerospazio, che rappresenta oggi una delle eccellenze tecnologiche italiane a livello globale. Secondo il CTNA – Cluster Tecnologico Nazionale Aerospazio, nel 2023 il settore ha registrato un fatturato complessivo di 18,3 miliardi di euro, con oltre 50.000 addetti. Di questi, 42.687 lavorano nell’aeronautica (velivoli, elicotteri, motori, avionica) e 7.454 nel comparto spaziale (satelliti, lanciatori, sistemi orbitali).
Il documento segnala una crescita media del 6 % annuo per l’aeronautica e del 10 % per lo spazio, con un incremento complessivo del +21 % nel triennio 2021–2023. Le spese in ricerca e innovazione rappresentano circa il 10 % del fatturato, un livello record per il manifatturiero italiano.
Il sistema è composto per oltre l’80% da piccole e medie imprese, coordinate da pochi grandi integratori — Leonardo, Avio Aero, Thales Alenia Space, Telespazio — e da una rete di 15 Distretti Tecnologici Regionali. I poli più attivi sono in Piemonte, Lombardia, Campania, Lazio e Puglia, dove si concentra il 75 % della forza lavoro del settore.
La capacità italiana di unire design ingegneristico, ricerca universitaria e produzione di precisione ha portato a risultati di rilievo: satelliti per osservazione terrestre, moduli abitativi spaziali, propulsori, radar e robot orbitali. Le esportazioni, secondo il Monitor dei Distretti 2025, sono cresciute del +7,2 % nel primo trimestre 2025, con Stati Uniti e Francia come principali destinazioni.
Giusto per citare qualche contributo “eccellente” e popolare che le aziende italiane hanno dato a progetti internazionali di grande risonanza, basti pensare che i moduli abitativi Leonardo, Raffaello e Donatello della Stazione Spaziale Internazionale sono stati interamente costruiti da Thales Alenia Space Italia a Torino. Sempre in Italia sono stati progettati e realizzati anche i moduli Node 2 (Harmony) e Node 3 (Tranquility), oggi parte stabile dell’ISS, nonché il Cupola, il celebre “osservatorio panoramico” da cui gli astronauti fotografano la Terra. Il Cupola, definito dalla NASA “la finestra più bella dello spazio”, è stato costruito a Torino e lanciato nel 2010 a bordo dello Shuttle Endeavour.
L’aerospazio non è più un’industria “di nicchia”, ma un moltiplicatore di innovazione per altri settori: materiali avanzati, sensori per l’agricoltura di precisione, logistica intelligente, telemedicina, mobilità elettrica. È un esempio perfetto del “riciclo industriale” italiano: partire da una competenza specifica e trasformarla in tecnologie trasversali.
E mentre altri Paesi cercano ancora un’identità industriale nel dopo globalizzazione, l’Italia sembra averla trovata proprio nel cielo.
La biodiversità industriale italiana: un mosaico che non smette di cambiare
Se la farmaceutica, la cosmetica e l’aerospazio sono le punte di diamante del presente, il vero cuore dell’Italia industriale batte ancora nei distretti, in quelle costellazioni di piccole e medie imprese che sanno rigenerarsi come un ecosistema naturale. La loro forza non è la dimensione, ma la diversità, quella che oggi potremmo definire biodiversità economica: filiere autonome ma interconnesse, specializzate ma flessibili, capaci di mutare forma al mutare del clima economico.
Secondo il Monitor dei Distretti 2025 di Intesa Sanpaolo, in Italia ci sono oggi 149 distretti industriali che generano oltre 100 miliardi di euro di export e rappresentano il 22 % dell’occupazione manifatturiera. Sono l’eredità diretta del dopoguerra e del “capitalismo molecolare” di Aldo Bonomi: non grandi concentrazioni produttive, ma reti di saperi, di relazioni e di comunità economiche. Ed è proprio questa rete diffusa che rende l’Italia meno fragile: quando un settore soffre, un altro prospera.
Nel 2025, tra i distretti più dinamici troviamo quelli del mobilio e del design di Pesaro e della Brianza, che hanno riconvertito la produzione tradizionale investendo in arredi sostenibili e materiali riciclati, con un export in crescita del +5,2 % su base annua. Il distretto ceramico di Sassuolo, un tempo sinonimo di piastrelle, è oggi un polo di automazione, robotica e stampa digitale su superfici, e da solo esporta oltre 4 miliardi di euro l’anno. Il distretto della meccanica di Reggio Emilia, storicamente legato all’agricoltura, è oggi un laboratorio di meccatronica e sensoristica applicata, dove le macchine agricole dialogano con software e satelliti.
Anche distretti più piccoli, come quello di Prato, hanno saputo sopravvivere a crisi che sembravano definitive. Dopo aver perso il 40 % della produzione tessile negli anni 2000, Prato è diventato un centro internazionale per il riciclo delle fibre e la rigenerazione dei tessuti, anticipando la circolarità molto prima che diventasse una parola di moda. Oggi l’80 % della lana rigenerata in Europa proviene proprio da lì, e il distretto pratese esporta oltre 2 miliardi di euro di materiali tessili riciclati ogni anno (Symbola & Unioncamere – GreenItaly 2024).
Questa capacità di adattamento è ciò che permette ai distretti italiani di entrare ora nella loro terza rivoluzione industriale, quella verde e digitale.
Secondo il rapporto GreenItaly 2024, oltre 531.000 imprese italiane — circa il 35 % del totale — hanno investito tra il 2018 e il 2023 in tecnologie e prodotti sostenibili: energie rinnovabili, materiali circolari, efficienza energetica, packaging compostabili, digitalizzazione dei processi. E il dato più interessante è che le imprese “green” esportano di più (+17 %), innovano di più (+22 %) e assumono più giovani e laureati rispetto a quelle che non hanno investito nella sostenibilità.
È una rivoluzione silenziosa, che unisce territori e generazioni. Il distretto della rubinetteria del Cusio-Valsesia, per esempio, oggi investe nella produzione di miscelatori a basso consumo idrico e nella sostituzione del piombo con ottone ecologico. A Treviso, il distretto delle calzature ha introdotto colle e materiali biodegradabili; mentre a Vicenza e Arezzo, la tradizione orafa si sta riconvertendo al recupero dei metalli preziosi e alla tracciabilità digitale delle filiere.
Tutto questo, è bene ricordarlo, con la spinta dell’Europa che — spesso forzando un po’ la mano — sta cercando di spingere la produzione verso un’eccellenza e una sostenibilità unici nel panorama mondiale. L’altro lato della medaglia è il rischio di zavorrare la produzione interna rispetto a quella importata da paesi molto meno scrupolosi, questo va detto.
Anche la transizione energetica sta ridisegnando la mappa industriale italiana. Secondo il rapporto The Geography of Innovation pubblicato dalla Banca d’Italia, l’Italia è oggi quinta in Europa per numero complessivo di brevetti depositati all’EPO, ma mostra una specializzazione marcata nelle tecnologie verdi, con un’incidenza sul totale dei brevetti più alta rispetto a Francia e Spagna, e vicina a quella tedesca.
La quota di brevetti “green” sul totale delle invenzioni italiane è infatti tra le più elevate d’Europa, segno che la riconversione ecologica è già parte integrante della strategia industriale nazionale. Le innovazioni riguardano in particolare la mobilità sostenibile e i sistemi energetici — come motori elettrici, stoccaggio, recupero termico e depurazione — con poli attivi in Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Trentino-Alto Adige. A differenza dell’intelligenza artificiale, dove il Nord concentra quasi tutta la produzione di brevetti, la transizione verde mostra una diffusione più ampia, con segnali di crescita anche in Puglia, Sicilia e Sardegna.
La Banca d’Italia evidenzia inoltre che, mentre la Germania domina per volume assoluto di brevetti, l’Italia si distingue per focalizzazione e qualità, con una maggiore incidenza di brevetti ad alto impatto (misurata da citazioni e dimensione delle famiglie brevettuali). Questo conferma il ruolo cruciale delle PMI innovative, che restano i principali motori del cambiamento: le imprese continuano a essere responsabili della grande maggioranza delle registrazioni, sostenendo un modello diffuso e resiliente di innovazione territoriale.

Ma la nuova frontiera non è solo ecologica: è umanistica e sociale. L’industria italiana sta riscoprendo che la sostenibilità è anche relazione con il territorio, e che il capitale umano conta quanto il capitale finanziario. I distretti che investono in formazione, ricerca e collaborazione universitaria sono anche quelli che crescono di più. Le imprese che condividono tecnologie e conoscenze — come nel distretto biomedicale di Mirandola o in quello dell’automazione di Bergamo — sono quelle che resistono meglio agli shock globali.
Il modello che emerge da questi dati non è quello della grande fabbrica, ma quello del laboratorio diffuso: una rete di microeconomie connesse, capaci di reagire come un organismo unico. È la stessa logica della natura: dove c’è biodiversità, c’è resilienza. E l’Italia, con i suoi 149 distretti, ne ha fatta una strategia di sopravvivenza.
In fondo, è questa la nostra vera energia rinnovabile: la capacità di adattarci, di cambiare mestiere senza cambiare identità. È la scintilla che ci ha fatto rinascere dalle macerie del dopoguerra e che oggi ci porta verso un futuro in cui — forse — il progresso potrà convivere con la memoria, la tecnologia con la bellezza, e l’innovazione con la misura umana.
L’Italia che cade in piedi
Forse la nostra straordinaria capacità di rialzarci nasce proprio da qui: dall’essere sempre stati un Paese sul filo del rasoio. Un Paese ricco, ma costantemente alle prese con problemi enormi da risolvere, con un debito che ci accompagna da decenni e un equilibrio fragile che non ci ha mai davvero permesso di rilassarci o di dormire sugli allori.
Questa condizione di precarietà permanente ha però forgiato un modello unico: un sistema industriale fatto di piccole e medie imprese, spesso famigliari, che riescono a reagire con una velocità e una flessibilità che i grandi colossi internazionali non possono permettersi. È vero, l’Italia non è mai riuscita a trasformare in modo strutturale queste imprese in grandi gruppi organizzati, capaci di competere su scala globale. Il risultato è che, mentre si esaltava il mito del “piccolo è bello”, molte eccellenze sono finite nelle mani di multinazionali straniere — come ho raccontato nella precedente Insalata, “Ma quale Made in Italy, ormai l’Italia è un bel set cinematografico”.
Eppure, questa stessa struttura molecolare è la nostra forza. È ciò che rende l’industria italiana rapida nel cambiare rotta, nel riorganizzarsi, nel cogliere le trasformazioni globali prima che diventino irreversibili. Dai settori tradizionali che rallentano — materiali da costruzione (+1,5%), alimentari (+1,2%), meccanica (-1,1%), arredo (-2,2%) e moda (-4,3%) — emergono ora filiere nuove, nate proprio come reazione alle crisi: la nautica di Viareggio, la meccanica di Bergamo e Vicenza, la termomeccanica veronese, l’agroalimentare di qualità con i suoi distretti di frutta, salumi, dolci e caffè. Persino nei comparti della moda, dove Arezzo, Firenze ed Empoli segnano un calo di un miliardo di euro di export, ci sono distretti — come Vicenza, Perugia e Castel Goffredo — che continuano a crescere.
Anche la geografia industriale si sposta: la crescita non arriva più solo dall’Europa, ma dai mercati emergenti — Polonia (+10%), India (+11%), Emirati Arabi Uniti (+8%) e Algeria (+45%) — dove le filiere della meccanica strumentale e della food machinery trovano nuovi spazi. È il segno che l’Italia non si limita a difendere ciò che era, ma sa muoversi verso ciò che sarà.
L’Italia, insomma, cade ma si rialza sempre. O meglio: cade in piedi. La frammentazione del suo tessuto produttivo, che per anni è stata vista come un limite, è anche ciò che permette alle imprese di reagire ai grandi mutamenti della storia, di riconvertire le produzioni, di arrivare in nuovi mercati e di adattarsi prima degli altri.
Resta però una sfida aperta: l’invecchiamento demografico. Tutta questa capacità di reinventarsi servirà a poco se non ci saranno più giovani in grado di portare avanti il ricambio generazionale, di ereditare e trasformare questa energia produttiva. Ma di questo, come ricordavo in un’altra Insalata, parleremo ancora.
Per ora, vale la pena di godersi questa preziosa boccata di fiducia: i dati, questa volta, raccontano un’Italia che nonostante tutto è ancora viva, brillante e straordinariamente capace di reinventarsi — ancora una volta.
I PENSIERI FRANCHI
Mio padre chiamava le redazioni
Conciliare una vita in cui ho fatto tanti mestieri con quel tesserino che porto orgogliosamente in tasca non è sempre facile. Non lo è quando devi dirlo a un tuo cliente che ti chiede perché ti piace scrivere, lo è ancora meno quando chiedono a tuo figlio che mestiere fa suo padre e lui, preso dai dubbi e da domande eternamente senza risposta, risponde “il giornalista”. Al che, l’interlocutore di solito risponde maliziosamente “ah si? E per quale giornale scrive?”. Nessuno, ecco qual è il problema, non scrivo per nessun giornale.
Tuttavia non è nemmeno questa l’origine della mia sindrome dell’impostore. Per alcune testate ho scritto in passato e saltuariamente ci scrivo ancora, figuriamoci. Però scrivo di argomenti un po’ meno nobili rispetto a quelli che ritengo fare di un professionista un vero giornalista con la “g” maiuscola.
Attenzione, non è nemmeno questione di avere il tesserino da pubblicista, come il mio, o quello da professionista, ben più prestigioso. Quello non è solo questione di aver dato un esame o aver fatto un corso più o meno lungo e qualificante. C’è piuttosto un problema di libertà professionale: se sei un giornalista professionista non puoi fare altro e quindi mi sta bene il mio “modesto” tesserino da pubblicista. Ma ripeto: non c’è questo all’origine del mio senso di inadeguatezza nel definirmi “giornalista”.
C’è piuttosto un’idea alta, altissima, della professione del giornalista. C’è una considerazione che va al di là di qualsiasi altra professione che deriva dalla mia gioventù. Per mio padre, infatti, non poteva esistere un giorno che potesse essere definito tale senza che si andasse a comprare il giornale in edicola. Il Messaggero, ovviamente, il quotidiano di Roma. In settimana lo comprava lui, il sabato e la domenica invece mandava me che ho incorporato, settimana dopo settimana, quel gesto rituale, quasi sacro, liturgico. Andavo all’edicola di quartiere, allungavo le mille lire al giornalaio e pronunciavo una sola parola: “Messaggero”. Tanto era inutile, l’edicolante già lo sapeva che papà leggeva quello.
Poi tornavo a casa e di colpo la casa veniva invasa da un silenzio totale, sacro, irreale. Papà il giornale lo leggeva tutto, dall’inizio alla fine. E lo commentava ad alta voce, borbottando a volte parole incomprensibili, alcune volte imprecava, altre volte emetteva qualche suono di sberleffo.
Lo stesso capitava anche sul lavoro, perché leggere il giornale era una cosa tollerata. Era, anzi, un diritto acquisito come la pausa per andare in bagno o per fumare una sigaretta. A volte lo sentivo lamentarsi: «oh stamattina ancora non sono riuscito a leggere il giornale». E non è che lo faceva di nascosto. Ci andai diverse volte al lavoro con lui. A un certo punto, quando aveva svolto tutte le mansioni urgenti, apriva il giornale sulla scrivania e partiva il rito quotidiano della lettura dalla pagina della cronaca a quella sportiva. Capitava che entrasse qualche superiore, ma nessuno dei due accennava al giornale perché non era qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi. Leggere il giornale era qualcosa di normale, che faceva parte della giornata di ogni essere umano.
Papà però faceva anche un’altra cosa quando si incazzava: si alzava, andava all’ingresso di casa, prendeva la cornetta del telefono e chiamava le redazioni. La redazione, in quel caso. “Vorrei parlare con…” e pronunciava il nome del giornalista che aveva scritto qualcosa sulla quale non era d’accordo. E allora discuteva, si alterava e polemizzava con il cronista dall’altro lato del telefono. E in questo modo, per come l’ho vissuta io, nobilitava quel mestiere. Il suo incazzarsi non era una maniera per insultare chi aveva scritto qualcosa che non gli stava bene, ma anzi un modo così alto, prezioso e importante di valorizzare il lavoro del giornalista, tanto da pretendere di intervenire e dire la sua. Perché sentiva il giornale un po’ una cosa sua.
Il giornalismo era questo: informazione, partecipazione, parte della vita quotidiana di ogni persona. Non iniziava la giornata senza quel rito sacro, senza che il prete avesse officiato quella particolare messa. In qualche modo, tutto questo mi ha infuso un senso così alto e sacro di quella professione che poi, appena ne ho avuto modo, ho cercato di farne parte in qualche modo, pur rendendomi conto di aver abusato certamente delle maglie larghe di un ordine professionale che ha disperato bisogno di membri che tengano a galla una professione morente.
Eppure così non è: finché a qualcuno rimarrà dentro la concezione e la considerazione così alta e pura di una professione come quella che mio padre mi ha trasmesso, il giornalismo rimarrà una professione di verità, di libertà e di resistenza. Anche se tutti i giorni viene attaccata duramente e messa alle corde soprattutto dal giornalismo stesso — da un certo giornalismo di cui nessuno va fiero — io continuo a pensare a questa professione con un rispetto e un’ammirazione quasi irrazionale. E il merito è tutto di mio padre e di quel gesto semplice e quasi istintivo di alzare la cornetta e chiamare le redazioni.
P.S. Auguri mamma
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Davvero interessante, grazie!