Ma quale Made In Italy, ormai l'Italia è un bel set cinematografico
Mentre ci si riempie la bocca col Made in Italy e l’orgoglio italiano, le imprese più importanti finiscono in mano straniera. I marchi storici italiani ormai si contano sulle dita di una mano sola.
Sarà per via dell’ubriacatura sovranista, sarà perché, in fondo, è ormai un brand internazionale, fatto sta che in pochi si stanno davvero accorgendo di quanto, del Made in Italy, sia rimasto ben poco di italiano. Qualsiasi tipo di legame col passato, in particolare con gli anni gloriosi della nascita dei tanti marchi divenuti famosi a livello internazionale, si sta spezzando. Qualsiasi ponte con i grandi imprenditori del passato, che hanno fondato le aziende che ancora oggi rendono l’Italia il paese originario di alcuni dei prodotti più celebri e rinomati nel mondo, è stato distrutto.
I marchi però sono rimasti e continuano a fare fortuna nel mondo. Solo che, dettaglio non insignificante, a produrli non sono più aziende italiane. O meglio, magari sono anche fabbriche dislocate geograficamente in Italia, ma con un management straniero. Una gestione francese, tedesca, più spesso cinese o americana. Un po’ tutti sono arrivati in Italia a fare shopping. A basso costo, peraltro, perché il più delle volte le aziende e i loro marchi più importanti sono stati valutati con cifre modeste, se comparate alle cifre delle altisonanti acquisizioni dei giganti americani.
L’Italia, da decenni ormai, paga lo scotto di non aver mai saputo superare quella dimensione poco più che famigliare di aziende importanti anche a livello internazionale. Quello italiano è da sempre un tessuto industriale fatto di piccole e medie aziende che faticano a superare i limiti di un management che è quasi sempre affidato al fondatore e alla sua discendenza. Si fatica a fare il grande passo che trasforma una piccola impresa famigliare1 in un’azienda in grado di reggere ai passaggi generazionali.
E così i ricavi non crescono, ma crescono i competitor internazionali che invece si strutturano e acquisiscono altre aziende. In questo modo i primi rimangono i pesci piccoli che presto o tardi finiscono per diventare un pasto ghiotto per i pesci grossi che, pur non avendo l’estro e il genio italiano, hanno però i fondi, i maledetti soldi. E prima o poi si comprano tutto, esattamente com’è successo e oggi, a contare i marchi rimasti realmente italiani, bastano forse le dita di una sola mano.
🧾 L’Italia che si svende: storie di marchi emigrati
Dalla moka Bialetti ai cioccolatini Pernigotti, dalla Ducati ai marchi della moda come Gucci, Fendi, Valentino e Loro Piana. Marchi che dal dopoguerra hanno alimentato l’immagine di un Made in italy composto in egual misura da design, innovazione, grandissima qualità e capacità produttiva industriale. Oggi tutti questi marchi sono stati acquisiti da gruppi europei o asiatici.
Bialetti è forse uno dei casi più recenti di un oggetto che è praticamente in ogni cucina e famiglia italiana. Un simbolo non solo per l’oggetto in sé, ma per quello che ha rappresentato per il design, per un distretto industriale che dal dopoguerra non ha mai smesso di lavorare metalli, — costituendo tra l’altro un grande orgoglio italiano nel settore del valvolame e della rubinetteria — per la comunicazione e la pubblicità con il fenomeno di Carosello e il personaggio di Carmencita.
Bialetti è stata svenduta per pochi soldi a un fondo guidato da una famiglia cinese. Il fondo Nuo Octagon, propaggine lussemburghese della famiglia cinese Pao-Cheng —una delle più ricche di Hong Kong — spenderà 53 milioni subito per prendersi il 59% che è attualmente di Bialetti Investimenti e Bialetti Holding, e il 19,5% del fondo Sculptor Ristretto Investment. Poi lancerà un’offerta pubblica di acquisto sul totale delle azioni a un prezzo di 0,45 euro per ognuna (pochi anni fa le azioni erano quotate 2,7 euro), con l’obiettivo di ritirare la società dalla Borsa.
Una svendita conseguenza di un errore grossolano. Cito dal Fatto Quotidiano: nel 2007, quando la società si quotò in borsa, “a collocamento in corso, si scoprì che il rapporto prezzo/utile dell’azione Bialetti comunicato nel prospetto informativo era quattro volte superiore alla realtà (il responsabile del collocamento all’epoca era Unicredit). Da allora la società ha perso il 92% in Borsa, crollando intorno a 0,20 euro per azione (160 milioni persi di capitalizzazione)".
Ma l’elenco di eccellenze italiane finite in mano straniera è davvero lunga e dolorosa. Cominciando dalla moda, con marchi come Gucci, Fendi, Bulgari e Loro Piana acquisiti da gruppi francesi (rispettivamente a Kering e LVHM, con quest’ultima proprietaria di tre marchi su quattro); per passare all’alimentari con Galbani e Parmalat di nuovo in mano francese (Lactalis), Pernigotti alla Turchia (Toksöz Group), Perugina / Buitoni in mano Svizzera (Nestlé); per terminare con il settore dell’automobile, ampiamente saccheggiato da Germania e Asia. Basti citare due marchi storici come Ducati e Lamborghini in mano al Gruppo Volkswagen, Pirelli alla cinese ChemChina e Magneti Marelli e AnsaldoBreda in mano giapponese (rispettivamente Calsonic Kansei Hitachi).
Si potrebbe anche dire, per certi versi, «meglio così», visto che la gestione italiana di un altro marchio storico come Maserati (si fa per dire, visto che l’azienda è proprietà di Stellantis e che deve gli attuali risultati alla gestione di Carlos Tavares) ha visto i ricavi e il numero di automobili prodotte dall’azienda crollare inesorabilmente di un drammatico -50% nel primo trimestre 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024.
💸 Perché vendiamo tutto? Una questione di capitale (e di famiglia)
Dicevamo nell’introduzione che la situazione di crisi, che poi porta a una sostanziale svendita, è frutto di una caratteristica delle aziende italiane: la scarsa competitività e il familismo ampiamente diffuso. In un mondo come l’attuale, che cambia da un momento all’altro e che deve affrontare ogni anno una sfida differente, non si può pensare di affrontare l’imprevedibilità del mercato con le armi spuntate di un’azienda locale. Soltanto i grandi gruppi internazionali possono sedere al tavolo di chi decide e sperare di negoziare condizioni favorevoli. Diversamente, si rischia di finire schiacciati come moscerini e alla prima occasione si viene divorati da giganti che per quattro spiccioli portano a casa marchi di grande valore.
Per capire quanto questa situazione sia diventata ormai una prassi, basta guardare i numeri: a fine 2024, la capitalizzazione complessiva della Borsa italiana era pari al 38% del PIL, mentre in Francia è superiore al 90% (in alcune fonti viene riportato persino il 106%) e in Germania al 56%.
Le imprese italiane non crescono, non riescono a superare quella fase famigliare in cui sono nate. Basti pensare che soltanto il 30% delle imprese sopravvive al cambio padre-figlio, mentre appena il 13% arriva alla terza generazione. E quando ci si trova in questa situazione di difficoltà nel fare un passaggio da una generazione all’altra cosa si fa? Si vende, magari in una situazione di necessità e quindi, più che vendere, si svende al primo fondo straniero pronto a lanciarsi sulla preda in difficoltà.
Ci sono altri due fattori strutturali a pesare sul saccheggio delle aziende italiane: il primo è a carico dello stato, con un uso debole del Golden Power — ovvero della facoltà di intervenire bloccando l’acquisizione di un’azienda ritenuta strategica —, spesso troppo timido e altre volte forse a sproposito, come nel recente caso dell’uso del Golden Power nell’acquisizione di Banco BPM da parte di Unicredit, entrambe aziende italiane. Lo strumento è previsto in tutti quei casi in cui un soggetto straniero mette le mani su un’azienda nazionale dall’importante valore economico o strategico. In Italia però, evidentemente, è stato usato troppo poco.
Il secondo fattore riguarda un tessuto di private equity sostanzialmente inesistente. Negli USA o in Francia, una buona idea o un’azienda promettente può contare su fondi strutturati, club deal, venture capital evoluti. In Italia? Spesso il private equity arriva tardi e con cautela. Il risultato? Quando c'è da fare il salto, sono i fondi stranieri ad arrivare per primi. E quando arrivano ovviamente comprano tutto quello che possono.
🏗️ La cantieristica che resiste: un'Italia che naviga controcorrente
Per fortuna, c’è anche una fetta di imprese italiane che resistono e che sanno competere con la concorrenza mondiale. Si tratta, non è un caso, di aziende che hanno fatto il grande salto, che sono cresciute e si sono strutturate per competere sui mercati internazionali.
Uno di questi settori è sicuramente la cantieristica navale, che nel 2023 ha raggiunto il record storico di 4 miliardi di export, in crescita del 15,9% rispetto al 2022. L’Italia è anche prima al mondo nel settore dei superyacht, con una copertura del 51,4% degli ordini globali con 600 unità in costruzione.
Il settore è uno dei fiori all’occhiello del motore economico nazionale, con circa 14.000 imprese e 180.000 addetti. Secondo un rapporto di Cassa Depositi e Prestiti, il settore nautico vanta un impressionante moltiplicatore economico, capace di generare, per ogni milione di euro investito nella costruzione di una nave, circa 2,7 milioni di euro in valore economico. Cito dal report:«L'attuale portafoglio ordini globali conferma la robustezza del settore, con 67 nuove navi entro il 2035, di cui il 56% sarà costruito in cantieri italiani, a conferma dell’importanza del nostro Paese come hub strategico. In particolare, Fincantieri gestirà la costruzione entro il 2035 di 37 nuove unità, per un valore di quasi 33 miliardi di dollari».
Fincantieri è protagonista in questo settore e si conferma il principale operatore del continente, con una presenza globale che include 18 cantieri distribuiti su quattro continenti. Seguono, a distanza, i francesi di Chantiers de l’Atlantique e i tedeschi di Meyer Werft, aziende anch’esse altamente specializzate nella costruzione di navi tecnologicamente avanzate.
La navalmeccanica italiana genera complessivamente circa 14,5 miliardi di euro di valore aggiunto, pari a circa l’1% del PIL nazionale. Il comparto impiega quasi 180.000 addetti, ovvero lo 0,7% dell’occupazione complessiva in Italia. Pur collocandosi solo al 19º posto per peso su PIL e occupazione, il settore si distingue per una filiera lunga e articolata, capace di coinvolgere decine di migliaia di imprese, competenze specialistiche e tecnologie complesse. Come dicevamo, si contano oltre 14.000 imprese coinvolte: il 40% opera nell’industria manifatturiera, il 5% nell’edilizia, il 22% nel commercio, il restante 33% nei servizi.
Interessante notare come il 47% degli input utilizzati nella costruzione navale italiana è di origine nazionale, mentre il restante 53% proviene dall’estero, a conferma del ruolo centrale dell’Italia in una filiera produttiva pienamente inserita nel sistema industriale globale.
🔁 L’Italia tra nostalgia e futuro
Cos’è alla fine questo benedetto Made in Italy? È così vero che quando l’azienda viene acquisita da un gruppo estero si perde il DNA italiano dell’azienda? Spesso no, in molti casi infatti le aziende vengono acquisite come investimento, ma non vengono toccate nei loro organi più importanti. Altre volte, quando l’azienda viene acquisita in uno stato economico complicato, allora ne vengono riviste completamente le priorità.
Ci sono aziende riconosciute come vero Made in Italy che in realtà hanno subito uno smembramento profondo, per poi ritrovare le proprie origini. È la storia di Lamborghini, per esempio, lasciata quasi subito dal suo fondatore per passare poi in mani francesi, americane e indonesiane. Ognuno di questi proprietari ha cercato di modificarne il concetto di base, cercando di ottenerne un tornaconto diverso a seconda delle proprie finalità. Poi l’azienda è stata acquisita da Audi, quindi dai tedeschi, che però ne ha mantenuto le radici nella Motor Valley italiana. Il risultato di questa operazione è oggi un’azienda in tutto e per tutto italiana, se pur di proprietà tedesca, che vanta una solidissima struttura economica e industriale.
Cito da Wikipedia: “Dal 1º luglio 2011 Automobili Lamborghini Spa, Lamborghini AntiMarca Spa e STAR Design Srl sono state fuse in Automobili Lamborghini Holding Spa, a sua volta rinominata in Automobili Lamborghini Spa, interamente controllata da AUDI AG. Alla Automobili Lamborghini SpA appartengono quattro principali sussidiarie: Ducati Motor Holding Spa, Italdesign Giugiaro Spa, MML Spa (Motori Marini Lamborghini) e Volkswagen Group Italia SpA (ex Autogerma SpA).
Dalla sua fondazione fino al 2002, prima del lancio della Gallardo, la Lamborghini produceva mediamente 300 veicoli all'anno; dal 2004 in poi la media di vetture costruite è stata superiore a 1.800 unità. Durante la crisi mondiale del 2008 le vendite subirono flessioni prossime al 50%, per poi risalire ai livelli precedenti solo nel 2012. […] Nel 2013 sono state complessivamente vendute 2.122 automobili, contro le 2.197 dell'anno precedente. Nel 2019 sono state complessivamente vendute 8.205 automobili, contro le 6.571 del 2018. Nel 2020 sono state consegnate 7.430 auto”.
Ma gli esempi di aziende rimaste solidamente italiane, anche nei capitali, sono tanti. Basti pensare a Ferrero, Barilla, Lavazza, Campari, Luxottica, Technogym e la già citata Fincantieri. In tutti questi casi, però, si parla di aziende che hanno saputo crescere e superare quella fase famigliare che spesso è fonte di stallo e di difficoltà nel competere con i concorrenti esteri.
Quindi, si può parlare ancora di Made in Italy? L’Italia rimane sicuramente un paese dove c’è una grandissima capacità produttiva e dove le competenze rimangono molto elevate, soprattutto nella manifattura. Proprio per questo, il rischio è che del Made in Italy rimanga soltanto una suggestione e che l’Italia diventi soltanto un’ambientazione. Un posto dove la multinazionale estera o il fondo di venture capital decidono di ambientare e raccontare un’azienda attraverso le suggestive immagini di una costiera amalfitana o di una città d’arte storica.
L’Italia, in altre parole, rischia di diventare un enorme set cinematografico, sfruttato nelle sue bellezze e nelle sue capacità di resistenza del tessuto industriale per portare avanti quello che, di fatto, è sempre più probabile che rimanga un bel marchio, un bollino da appiccicare a un prodotto che però, nei fatti e nella progettazione, è completamente straniero.
E capiamoci: non c’è niente di male. Se in Italia siamo più bravi nel fare e all’estero sono più bravi nell’organizzare e gestire, vorrà dire che ognuno sfrutterà le proprie capacità. Ma il rischio, da questo punto di vista, è che il coltello dalla parte del manico alla fine ce l’abbia sempre chi ci mette i soldi. E soprattutto, se le cose stanno realmente così, ha realmente senso riempirsi la bocca di orgoglio nazionale, chiudendo persino la porta alla ricerca e alla scienza in difesa di piccole lobby locali (mi riferisco all’insensata e antiscientifica lotta contro la carne sintetica, le farine di insetti, ecc.), quando i fatti raccontano di un paese ormai completamente in mani straniere per ciò che riguarda fondi e gestione della maggior parte delle grandi imprese? Insomma, siamo davvero sicuri che esista ancora un Made in Italy?
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Mi è caduto l’occhio su un ottimo pezzo di Domani in cui Lorenzo Santucci intervista Vincent Bevins, autore di “Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione” (Einaudi, 2024). L’autore investiga sulle più grandi rivolte e manifestazioni popolari degli ultimi decenni e arriva a concludere una cosa importante e anche sbalorditiva, se vogliamo: di tutte le rivolte o le manifestazioni che si sono organizzate velocemente e diffuse tramite social, non è rimasto più niente. Si sono accesi molto velocemente dei focolai che hanno divampato nella protesta sociale, hanno portato in piazza migliaia di persone, ma poi, alla fine, non hanno ottenuto nulla. Non si è attuata nessuna rivoluzione, nessun cambiamento. Quasi si potrebbe dire che questi movimenti, se non per l’aspetto simbolico, siano serviti a nulla.
Secondo Bevins, ci sono stati diversi fattori scatenanti che hanno portato all’altissima partecipazione alle tante manifestazioni che hanno caratterizzato gli anni dal 2010 in poi — dal Brasile a Hong Kong, dal Cile alla Turchia, passando naturalmente per le primavere arabe —, di cui il primo è sicuramente la risposta alla crisi finanziaria del 2008, partita dagli Stati Uniti e propagatasi presto in tutto il resto del mondo.
Il secondo fattore determinante, però, sono certamente i social network. Dice Bevins:«Spesso, la narrazione di allora era che queste rivolte erano tutte legate ai social media, e che questo fosse un bene. Il mio punto di vista è che si tratta solo in parte dei social media e che, nella misura in cui è vero, non è una cosa positiva. I social network hanno reso più facile la mobilitazione rapida, ma non hanno certo reso più semplice la vera organizzazione. Forse l'hanno addirittura resa più difficile».
La teoria che espone è piuttosto semplice e riassumibile nell’assunto secondo cui sui social network le notizie si diffondono in fretta, gli animi si accendono altrettanto velocemente, ci si organizza facilmente, ma poi tutto questo non ha uno sfogo perché di base manca l’organizzazione. Quando si arriva al dunque, in altre parole, si scopre che persino la necessità primaria che ha portato tanta gente a scendere in piazza, si è sciolta nelle bandiere e negli striscioni.
In molti casi l’organizzazione di questa proteste «È stata incredibilmente efficace nel portare in strada o nelle piazze molte più persone di quante si potesse mai immaginare» continua Bevins su Domani. «Questo ha creato opportunità reali, rovesciando un governo esistente o convincendolo che, per salvarsi, avrebbe dovuto cedere in qualche modo al popolo. Ma quando si sono create queste opportunità si è scoperto che una protesta, in particolare una protesta di questo tipo, era molto poco adatta a sfruttarle. Nei casi specifici che ho esaminato, in nessuno di essi è stato il movimento di protesta a trarre vantaggio». Prosegue:«Una protesta strutturata orizzontalmente, senza leader, spontanea, riunita dai social media, non poteva colmare un vuoto di potere per formare un governo provvisorio e nemmeno far parte della transizione verso un nuovo esecutivo. Quando i vari governi hanno cercato di andare in piazza per capire cosa chiedevano, questi movimenti non sono riusciti nemmeno a elaborare una serie di richieste chiare».
Tutto questo mi ha ricordato molto da vicino un caso simile successo in Italia a fine 2019, quando un gruppo di quattro amici creò su Facebook un evento denominato “6000 sardine contro Salvini”, sfruttando l’occasione di un comizio della Lega in Piazza Maggiore a Bologna per le elezioni regionali che si sarebbero tenute di lì a pochi mesi. Il movimento ebbe un successo incredibile e nel giro di pochi mesi replicò la manifestazione in molte città italiane arrivando a coinvolgere 40.000 persone, un numero enorme. Poi, nel giro di un anno, il movimento si spense con l’assorbimento del suo leader di fatto, Mattia Santori, all’interno del PD.
Di nuovo: un movimento nato ed esploso sui social network che però, al momento dei fatti, non ha ottenuto praticamente nulla, se non dare una spallata mediatica al partito che in quel periodo aveva la maggioranza dei consensi in Italia. Se abbia contribuito o meno alla vincita della sinistra alle elezioni regionali non lo sapremo mai. Certo è che, dei punti programmatici che il movimento comunque si diede, poco o nulla è rimasto appena un paio d’anni dopo.
Come dice Bevins, i social network sembrano funzionare come una candela che si accende in fretta e altrettanto in fretta esaurisce la sua energia, per sciogliersi poi all’aria senza lasciare nulla di concreto. Forse perché anche le idee, i movimenti e i leader che li portano avanti hanno bisogno di tempo per fare attecchire le idee, per consolidare la propria presenza, per organizzarsi e darsi una struttura che poi possa reggere il confronto con le istituzioni, con i governi, con lo status quo.
Le rivoluzioni, in qualche modo, hanno bisogno di svilupparsi nel tessuto sociale e sfociare naturalmente cavalcando le necessità e i bisogni primari del popolo. I social network, perfetti per far arrivare velocemente il messaggio ovunque, non possono però sostituirsi a tutto questo.
Franco A.
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La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.