Cos'è il merdocene e perché ci stiamo vivendo senza saperlo
Il termine "merdocene" descrive una società dominata dalle piattaforme tecnologiche che seguono sempre lo stesso pattern di decadimento programmato e di "merdificazione".
Tempo stimato per la lettura: 16 minuti
Una premessa importante: questa newsletter settimanale nasce, cresce e si concretizza nel giro di qualche ora, rubata al mio tempo libero e alla mia famiglia. A volte capita che abbia il tempo di rileggere tutto a distanza di giorni, altre volte non ho nemmeno il tempo di riguardarla. Se trovi degli errori, piccoli o grandi che siano, porta pazienza. Magari segnalameli, te ne sarò grato.
» PENSIERI FRANCHI: Se il diverso ti offende
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale, i miei pensieri in libertà. Se stai cercando l’approfondimento che dà il titolo a questa Insalata, prosegui un po’ più in giù.
In questa stranissima epoca in cui stiamo vivendo, puoi mostrare qualsiasi scena. Scene reali, assurde e sconvolgenti. Puoi anche mostrare immagini di leader internazionali che si abbracciano e sorridono a favore di camera e dopo pochi secondi danno l’ordine di bombardare case e ospedali di civili. Poi puoi mostrare adulti e bambini morti, feriti, in lacrime, davanti a quella che era fino a un momento prima casa loro. Tutto questo può essere trasmesso al TG della sera, e noi spettatori assistiamo tranquilli mentre mangiamo le polpette col sugo e discutiamo di dove andare nel weekend.
Eppure, quello che proprio non puoi fare, perché suscita lo sdegno di tutti, è mettere in scena degli uomini vestiti da donna. Quello no, è troppo offensivo. Se quegli uomini, mezzi vestiti e mezzi nudi - come Dio li ha fatti, direbbe qualcuno - mimano una scena tratta da un dipinto storico (in realtà, pochi minuti fa, lo stesso direttore artistico ha smentito questa ispirazione), che riprende un’altra scena celebre della cristianità, apriti cielo, interviene persino Elon Musk dal suo social X (si, quello delle due mogli e dei tre divorzi, nonché quello con i figli concepiti in vitro).
Ora non entrerò nella polemica del giusto, del non giusto, dell’artistico o del non artistico. Non entrerò nemmeno nel merito del fatto se fosse opportuno o meno inscenare una cosa del genere che, secondo i più, prende in giro il cristianesimo. Piuttosto mi sono preso la briga di capire il perché un vero cristiano si debba sentire offeso da quelle immagini.
Da ateo totale, ho il sospetto che chi critica quella scena abbia capito poco e niente della religione che professa. Magari sbaglio, non voglio passare da presuntuoso interprete delle scritture sacre, ma ho sempre pensato che Gesù, che dei cristiani è il messia, fosse un esempio di inclusione e di amore verso i reietti, gli esclusi e verso tutti coloro i quali vengono messi ai margini della società. Ci sono diversi esempi di questo genere nel Vangelo che non starò qui a citare, ma uno su tutti è sicuramente la prostituta da cui Gesù si fa lavare i piedi e che infine viene perdonata da tutti i peccati con lo sdegno dei suoi commensali (Luca 7:36-50).
Gesù nel Vangelo aiuta lebbrosi, donne adultere (da notare come i peccati delle donne siano quasi sempre di natura sessuale, ma vabbè, non è questo il discorso), samaritani e ladri. È, in qualche modo, attento a suscitare sempre la meraviglia e lo scandalo in chi assiste alle sue gesta. Perdona, elogia e dona amore a chi meno se lo aspetta e a chi meno se lo merita, secondo la sensibilità della società dell’epoca.
Gesù è un profeta rivoluzionario, lo dice anche il teologo Gustavo Gutiérrez nel suo testo “Teologia della liberazione”, che poi ha dato il via all’omonima corrente cattolica riportata alla luce anche dall’attuale Papa Francesco. Secondo Gutiérrez Gesù è una figura rivoluzionaria che si schierava con i poveri e gli emarginati. Gutiérrez sostiene che il messaggio di Gesù è profondamente politico e sociale, volto a liberare gli oppressi dalle strutture di peccato e ingiustizia.
Da questo punto di vista, quindi, mi sembra di poter dire che la messa in scena della cerimonia di apertura delle Olimpiadi è profondamente centrata su quella che è l’essenza profonda della Francia e sul concetto che il direttore artistico delle Olimpiadi Thomas Jolly voleva imprimere alla cerimonia, ma anche sui veri e più profondi valori cristiani. Anzi, mi correggo, su quelli che dovrebbero essere i veri valori cristiani. Quelli che invece si sentono profondamente offesi da un uomo vestito da donna o poco vestito, sono probabilmente i nuovi cristiani, quelli che vediamo stringere con una mano il rosario e con l’altra lasciano affogare un altro essere umano in mare. Quelli che si sentono offesi per una scena teatrale con costumi, trucchi e parrucchi e invece non si sentono altrettanto offesi da scene reali in cui gente inerme muore sotto le bombe.
Da questo punto di vista, la scena dell’Ultima Cena (ma abbiamo già visto che l’ispirazione è stata smentita) reimmaginata da Jolly è l’esaltazione ultima della vera cristianità. Perché mette al tavolo di Gesù quelli che oggi sono gli ultimi, gli esclusi e gli emarginati. Che poi è proprio quello che faceva Gesù nelle scritture sacre. Ed è tanto vero questo fatto che subito una certa parte di mondo - quella più becera e conservatrice - si è subito fatta sentire parlando di offesa e di blasfemia. Ma offesa per cosa? Perché mi dovrei sentire offeso da un altro essere umano? Cosa c’è di male a rappresentare Gesù con le sembianze di una drag queen? Non è forse un/una figlio/a di Dio anche questo/a?
Nella conferenza stampa ufficiale delle Olimpiadi, Thomas Jolly ha detto di non volere una cerimonia scioccante o sovversiva, ma di voler rappresentare la Francia in tutta la sua diversità. “In Francia abbiamo il diritto di amarci l’un l’altro, come vogliamo, con chi vogliamo, in Francia abbiamo il diritto di credere o non credere. In Francia, abbiamo molti diritti”. Già, persino quello di metterlo il fatto stesso in scena, senza timore, davanti al mondo intero. E forse questa è la vera grandezza della Francia - che è lo stesso paese senza il quale probabilmente non avremmo gli stessi diritti e libertà di cui godiamo oggi - da cui dobbiamo ancora imparare molto.
Buona lettura.
Franco A.
» VIVERE NELL’EPOCA DELLA MERDA
Me ne stavo tranquillamente leggendo le mie newsletter preferite quando mi sono imbattuto in un termine che colpevolmente ignoravo e che ha immediatamente attratto la mia attenzione: “merdificazione”, tradotto dall’inglese “enshittification”. Il colpevole di questa mia tarda illuminazione è stato Mattia Ravanelli con la sua “Le parole dei videogiochi”, una delle migliori newsletter sui videogiochi che in realtà parla di cultura contemporanea (ce ne sono molte che vale la pena di leggere, ve l’assicuro).
Ebbene, ho voluto scavare più a fondo sul termine e ho scoperto che nel 2023 è stata addirittura eletta come parola dell’anno dall’American Dialect Society. Il termine “merdificazione” è strettamente legato al concetto di “merdocene”, ovvero l’epoca geologica in cui saremmo entrati da qualche anno senza nemmeno accorgercene. Ma, al di là del sorriso che può strapparci il termine, a cosa si riferisce e perché è davvero così rilevante sapere che viviamo nell’epoca della merda?
Cos’è la merdificazione e perché è una cosa così seria
Lo so, il termine fa sorridere e quindi avrete pensato che si tratta di una definizione un po’ così, scherzosa e tirata per i capelli. Invece Cory Doctorow, il giornalista che l’ha coniata, è intervenuto il 10 maggio al ciclo di lezioni del Politecnico di Torino (trovate il video qui sotto) per tenere appunto una lezione sul merdocene. Quindi è una cosa seria, non è il solito argomento leggero da Insalata Mista (si fa per dire), e si riferisce alla degenerazione delle piattaforme. Perché parliamo improvvisamente di piattaforme? Ci arriviamo.
Il termine merdocene è usato da Doctorow per descrivere l’epoca attuale in cui la merdificazione è diffusa e le piattaforme digitali dominano molteplici aspetti della vita economica e sociale. Le caratteristiche principali del merdocene includono:
1. La concentrazione del potere: ovvero un piccolo numero di grandi aziende tecnologiche domina il mercato, riducendo la concorrenza e limitando le scelte per i consumatori. Questo porta a una situazione in cui le piattaforme possono permettersi di peggiorare i propri servizi senza perdere utenti. In pratica, fanno il buono e il cattivo tempo senza che l’utente possa fare niente, neppure quando paga il servizio;
2. Lo sfruttamento economico: le piattaforme utilizzano pratiche commerciali aggressive per massimizzare i profitti, spesso a discapito degli utenti, dei lavoratori e dei piccoli venditori. Ciò può includere la riduzione dei compensi per i creatori di contenuti, l’aumento delle commissioni per i venditori e l’erosione dei diritti dei lavoratori;
3. La manipolazione dell’attenzione: le piattaforme progettano i loro algoritmi e le interfacce per massimizzare il tempo di permanenza e quello che viene chiamato “engagement” degli utenti, spesso tramite tattiche manipolative e tecniche di neuromanipolazione che possono avere effetti negativi sulla salute mentale e sul benessere degli utenti.
Probabilmente è esagerato determinare l’ingresso dell’umanità in una nuova epoca geologica, perché si parla più di una tendenza dell’occidente e delle società tecnologicamente evolute che l’umanità intera, tuttavia è un termine che rappresenta in maniera precisa l’attuale dipendenza dell’umanità dalle piattaforme e il loro indiscutibile declino. Un declino che rispetta ormai un processo ben definito e sempre uguale a sé stesso. Tanto che Doctorow ne ha definito le fasi principali.
Le fasi della merdificazione. La prima: attrarre quanti più utenti possibile
Che sia ormai una prassi ben definita e standardizzata oppure frutto del caso, le piattaforme da cui dipendiamo seguono sempre un percorso ben preciso e delineato. Ed è quello che Doctorow ha ben descritto nelle “fasi della merdificazione”. Le fasi sono tre, e si possono riassumere così:
1. Inizio promettente: nella prima fase, la piattaforma offre un servizio utile e gratuito o a basso costo per attirare quanti più utenti possibile. Durante questa fase, l’attenzione è centrata sull’espansione della base utenti con un’esperienza di alta qualità. Di solito è anche la fase in cui la piattaforma non guadagna e anzi accumula perdite economiche consistenti;
2. Monetizzazione: una volta raggiunto un numero critico di utenti, la piattaforma inizia a monetizzare l’attenzione degli utenti, spesso a scapito della loro esperienza. Ciò avviene tramite l’introduzione di pubblicità invasive, la raccolta e vendita di dati personali, o altre tattiche di monetizzazione di vario genere;
3. Sfruttamento: nella fase finale, la piattaforma sposta l’attenzione sui profitti, anche se questo peggiora significativamente l’esperienza dell’utente. Gli algoritmi vengono ottimizzati per massimizzare le entrate a breve termine, a discapito della qualità del servizio. Gli utenti diventano merce e il loro benessere è sacrificato per il profitto.
Cory Doctorow, durante le sue conferenze, usa dei casi pratici per spiegare e definire meglio queste fasi. L’esempio più classico è quello che fa di Facebook. Secondo Doctorow, Facebook è un’azienda destinata da sempre ad essere merdificata perché nata dalla voglia di Zuckerberg e dei suoi amici di valutare in modo non consensuale la “scopabilità” dei loro amici di Harvard (e se ci pensiamo bene oggi, alla luce di come si è evoluta la sensibilità pubblica nel 2024, è abbastanza aberrante).
All’inizio bisognava essere uno studente universitario, ma nel 2006 Facebook si è aperta al pubblico di tutto il mondo. L’ha fatto accusando MySpace, il primo vero social network della storia in senso stretto, di essere una piattaforma di proprietà di Rupert Murdoch, un miliardario che aveva come scopo solo quello di spiare i propri utenti (il miliardario australiano in realtà comprò la piattaforma nel 2005, un anno prima dell’arrivo di Facebook, per mezzo miliardo di dollari. La vendette nel 2011 per appena 35 milioni). Cosa che Facebook, secondo la promessa dell’epoca, non avrebbe mai fatto.
L’effetto rete e i costi di uscita
Facebook inizialmente permetteva ai suoi utenti di ritrovarsi con persone con cui si erano persi i legami, persone anche molto lontane, e condividere con queste e con gli amici di tutti i giorni pensieri e idee. Era il concetto stesso di “rete sociale” e venne visto per quello che realmente poteva essere: la promessa di una vera rivoluzione. Facebook infatti godeva e gode tutt’oggi di quello che veniva definito “effetto rete”: la piattaforma migliora quanti più utenti entrano a farne parte.
In pratica, più utenti entrano in Facebook, più l’utente che vuole trovare qualcuno, connettersi con la persona che sta cercando e parlarci, lo cercherà dentro Facebook. È un po’ quello che è successo anche con WhatsApp, diventato uno standard de facto nella messaggistica perché usato dalla gran parte del pianeta. Più utenti ci sono, più viene scelto dalla maggioranza come canale predefinito perché “tutti ce l’hanno”.
Dall’altra parte - racconta sempre Doctorow - Facebook ha goduto anche di un altro effetto specifico della rete, che è il cosiddetto “costo di uscita”, determinato da tutto quello a cui bisogna rinunciare se si abbandona un determinato prodotto o servizio. A cosa dovreste dire addio se oggi chiudeste il vostro account Facebook o Instagram? Cosa non potreste più fare se disdiceste il vostro abbonamento Netflix? Ecco, avete capito.
Se hai un gruppo su Facebook, per esempio, perderai la possibilità di interagire con quel gruppo. E pensare di migrare tutto il gruppo su un’altra piattaforma è davvero difficile ed è ben codificato con il nome di “problema dell’azione collettiva”. Doctorow dice «è già difficile mettersi d’accordo sul dove andare a bersi una birra il sabato sera, figuriamoci sposare un gruppo di duecento persone su Facebook».
Fase due, la monetizzazione
A questo punto, una volta che si è creato questo ciclo vizioso che rende molto facile l’ingresso nella comunità di un servizio (per via dell’effetto rete) e molto complicata l’uscita (per via del costo di uscita e del problema dell’azione collettiva), cosa ha fatto Facebook? Ha trovato il modo di monetizzare la piattaforma: è andato dagli inserzionisti e gli ha proposto la possibilità di mostrare un’inserzione pubblicitaria agli utenti profilati e targhettizzati con una precisione mai vista prima. Tradendo in qualche modo la promessa iniziale, cioè che non li avrebbe mai spiati, ma tant’è, le aziende devono pure stare in piedi in qualche modo, no?
Per creare però un vero valore e facilitare l’attaccamento alla piattaforma, a Facebook non bastava avere gli utenti e i soldi degli inserzionisti. Mancava un tassello, che sono gli editori, i publisher e il mondo delle notizie. Per Facebook poter includere le notizie (o meglio, un piccolo estratto delle notizie) poteva garantire l’innesco di un meccanismo basato sulle interazioni e sulle discussioni che naturalmente si scatenano dalla condivisione delle notizie. Mentre agli editori la viralità delle notizie all’interno del social network poteva garantire un’enorme fonte di traffico gratuita al sito, che poi avrebbe generato soldi dalla pubblicità. Un ciclo win-win insomma, che permetteva (e permette) sia a Facebook che agli editori di fare soldi, a scapito degli utenti.
Piano piano, però, sia gli inserzionisti che gli editori sono diventati dipendenti da Facebook e non solo, legando le proprie entrate a doppio nodo con il traffico (e le relative politiche) decise dalle piattaforme stesse. Un concetto che è noto anche nel mondo dell’editoria odierna per via della schiavitù da Google e dalle logiche dei motori di ricerca.
Fase tre: la merdificazione vera e propria
Nella terza fase, tutto il valore che la piattaforma aveva all’inizio viene prosciugato e viene mantenuto lo stretto indispensabile per garantire la permanenza degli utenti. Tutta l’attenzione e tutti gli sforzi vengono concentrati sulla massimizzazione dei profitti, gli utenti diventano meramente una somma di dati da poter vendere, la qualità del servizio scade sempre di più per puntare alle entrate a breve termine e per soddisfare gli azionisti, che sono quelli che hanno permesso all’azienda di crescere quando, nella fase uno, è stata per lungo tempo in perdita.
L’azienda deve quindi rispettare l’unica promessa che non può permettersi di non rispettare: quella che sarebbe diventata, dopo un tot di anni, profittevole soprattutto per chi quei soldi li ha investiti inizialmente. Ecco, nella fase tre l’attenzione è tutta rivolta a loro, a risarcire quel debito primordiale che ha permesso alla piattaforma di esistere e non più agli utenti che l’hanno resa grande.
Chiaramente non è detto che il giochino funzioni sempre, perché in quest’ultima fase l’equilibrio tra l’utente che continua a collegarsi per quello che abbiamo visto nella fase due, ovvero l’effetto rete e il costo di uscita, e l’utente che decide di uscire a prescindere dal costo, è veramente molto labile. E allora la piattaforma rischia di imboccare seriamente la strada del declino.
Doctorow a questo punto cita anche il tentativo disperato di Zuckerberg di trasformare una piattaforma ormai completamente votata agli investitori in qualcosa di diverso e quasi etereo, come il metaverso. Doctorow lo descrive come la trasformazione in una vera montagna di merda, quindi nella merdificazione totale.
Come siamo entrati nel “merdocene” senza accorgercene?
Ma la merdificazione dei servizi e dunque l’ingresso nel merdocene è attribuibile soltanto alle big tech? Un po’ si e un po’ no, perché le aziende, in fondo, rispondono soltanto a una domanda con un’offerta. Una domanda che, è vero, hanno contribuito a creare, ma che poi prende il sopravvento innescando un cortocircuito molto pericoloso.
D’altronde è un fatto che vediamo tutti i giorni: i servizi nascono sempre con un’offerta innovativa e dirompente. Pensiamo a Netflix, che inizialmente è nato negli Stati Uniti con la promessa di poter vedere tutti i contenuti (tanti) a un prezzo quasi ridicolo di 7,99$ al mese. Oggi Netflix ha aumentato drasticamente la sua base di utenti in tutto il mondo, ma pur avendo espanso così tanto il numero di abbonati, ha comunque aumentato significativamente il costo dell’abbonamento, che è arrivato a costare 7.99€ al mese per la versione in bassa definizione su un singolo schermo, ma può raggiungere anche i 18,99€ per il piano da 4 schermi in 4K.
Il meccanismo è sempre lo stesso: prima creo un servizio indispensabile e lo faccio con la doppia promessa: agli utenti di avere appunto un servizio innovativo ed eccezionale per pochi dollari e agli investitori promettendo che la piattaforma farà enormi profitti tra qualche anno. Poi, col passare del tempo, rendo sempre più alto il costo di uscita dal servizio (aggiungendo stagioni su stagioni alle serie a cui l’utente si è legato, per esempio) e infine alzo i prezzi e riduco la qualità del servizio per massimizzare i profitti e dunque mantenere fede alla promessa fatta agli investitori.
È un ciclo dato dalla pretesa di ottenere sempre più contenuti, sempre più servizi innovativi a un costo sempre più basso. Provate a proiettare questo ragionamento su tutti i servizi che utilizzate quotidianamente e vedrete che è una formula sempre uguale che si può riscontrare in tutti servizi che utilizziamo. Per questo Doctorow parla di merdificazione della società, di merdocene.
C’è una soluzione a tutto questo? Si può uscire dal merdocene e da questo ciclo chiuso che spinge le aziende a proporre sempre qualcosa di nuovo, che faccia sempre più profitti e che le faccia crescere sempre di più e dall’altro lato gli utenti a pretendere sempre di più, sempre di meglio a costi sempre più bassi? Probabilmente la soluzione è solo una, quella di rallentare.
Perché poi c’è anche un’altra soluzione, che è l’esplosione del sistema, che però coinciderebbe con il collasso di interi settori economici, cosa che non è mai auspicabile (ma che in fondo sta succedendo nel mondo dei videogiochi, come racconta bene l’amico Massimiliano Di Marco nella sua newsletter dedicato all’analisi dei videogiochi dal punto di vista del mercato e non solo).
Se vi interessa sviscerare l’argomento, comunque, vi consiglio la lezione di Doctorow al Politecnico di Torino che trovate linkata qui, da qualche parte. Che ci sia una soluzione o meno, è comunque importante avere coscienza del fatto che stiamo vivendo in un mondo in cui le aziende e i relativi servizi, presto o tardi, verranno merdificati. E la responsabilità, forse, è anche un po’ la nostra e il nostro insaziabile desiderio di quella merda.
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Cos’è la F.O.M.O.?1
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Bella puntata come sempre!
Aggiungo solo che Cory Doctorow è anche uno scrittore di libri di fantascienza, e non posso che consigliare a tutti la lettura di "Radicalized": quattro racconti lunghi che parlano in maniera lucidissima del nostro futuro imminente.
Vedi? Si parlava di enshittification e nelle pillole di F.o.m.o ecco la notizia che Disney + farà pagare extra la condivisione dell'account: ciao ciao Disney