Perché non votiamo più: astensione, consenso identitario e la democrazia che muta
Astensione, voto liquido e crisi delle identità: gli italiani votano sempre meno e sempre più per paura o appartenenza. Così la democrazia diventa un gesto saltuario, non più un progetto collettivo.
Nel 2025 si è votato in diverse regioni per l’elezione dei governi regionali. A prescindere dai risultati, l’affluenza è stata bassa — anzi, bassissima: 50% nelle Marche, 62% in Valle d’Aosta, 43% in Calabria, 47% in Toscana. Molte di queste regioni hanno perso in poco più di quarant’anni anche il 50% dell’elettorato.
Se allarghiamo lo sguardo alle elezioni nazionali e europee, il discorso non cambia. Alle elezioni europee del 2019 — che di solito attirano meno votanti rispetto alle politiche — aveva partecipato il 55% degli italiani; alle politiche del 2022, il 64%, la percentuale più bassa della storia repubblicana e, tra i quattro grandi paesi europei (Francia, Germania, Spagna e Italia), anche la più bassa in assoluto.
Come mai la gente non va più a votare? Eppure c’è stato un tempo in cui il voto era percepito come un diritto sacro, per cui molti italiani hanno dato la vita. Nel 1948, il 92% degli aventi diritto si recò alle urne; dal 1953 al 1976 l’affluenza non scese mai sotto il 93%. Percentuali quasi “bulgare”, più da stato totalitario che da democrazia liberale.
Per oltre vent’anni, gli italiani hanno esercitato quel diritto in modo massiccio e convinto. Ricordo ancora quando, il giorno delle votazioni, ci si alzava presto per evitare le lunghe code al seggio. Oggi, in qualsiasi momento ci si presenti, si esce in pochi minuti.
Questo fenomeno — diffuso ben oltre i confini italiani — si intreccia con un’altra tendenza evidente: in tutto il mondo avanzano le destre, di ogni grado e livello di radicalità. Non è una critica politica, sia chiaro. Le opinioni personali le lascio ai Pensieri Franchi. Qui parlano i numeri e l’osservazione dei dati che, pur interpretabili, in questo caso risultano difficili da smentire.
Gli italiani, come molte altre popolazioni occidentali, votano poco e, quando lo fanno, scelgono partiti forti, identitari, conservatori, che offrono sicurezza. Non si tratta di un terremoto improvviso, ma di un lento spostamento del terreno politico: un’erosione della fiducia e della partecipazione e un orientamento chiaro. Il consenso verso le destre non nasce solo da un’adesione convinta, ma anche da vuoti, sfiducia, paura e scelte sempre più fluide.
Un elemento cruciale di questo panorama è il voto liquido: l’elettorato italiano è mobile, instabile, pronto a cambiare partito con disinvoltura. Basta osservare il grafico con l’andamento dei principali partiti nelle ultime elezioni politiche per accorgersene: quasi tutti hanno guadagnato e perso percentuali enormi, a volte superiori al 20%.
Si può ancora parlare di ideologia, rappresentanza, fedeltà politica? Che rapporto può reggere un’istituzione democratica con cittadini che non si riconoscono più in un’idea, ma si spostano di volta in volta — persino tra partiti con visioni opposte dell’economia e del Paese?
Oggi proviamo a rispondere a queste domande, analizzando dati e tendenze che ci aiutano a capire tre punti chiave: chi smette di votare e perché, perché cresce il consenso per le scelte identitarie e polarizzate e quale ruolo ha la crisi delle identità politiche nel fenomeno del voto liquido.
Il declino della partecipazione e il fallimento della politica
La partecipazione al voto in Italia non è più ciò che era: di generazione in generazione, percentuale dopo percentuale, si è verificata una discesa costante. Dalle cifre che abbiamo visto emerge un quadro non di un “piccolo scivolone”, ma di un trend strutturale.
Secondo la piattaforma Openpolis, «il partito del non voto» ha raccolto alle politiche del 2022 più elettori di qualsiasi singolo partito.
Questo significa che non solo molti cittadini scelgono di non partecipare, ma che la non-partecipazione è ormai una scelta diffusa e stabile, non un episodio passeggero.
Il calo della partecipazione varia per territorio, età e grado di istruzione. Nell’indagine 2024 dell’ISTAT, ad esempio, si segnala che solo il 16,3% dei ragazzi tra 14 e 17 anni si informa di politica almeno una volta alla settimana. La partecipazione all’informazione politica è più alta al Nord che al Sud: nelle regioni del Mezzogiorno circa il 40% dei cittadini si informa regolarmente di politica, contro il 52–54% delle regioni del Centro-Nord.
Per quanto riguarda le elezioni vere e proprie, nel 2023 — in alcune regioni del Nord — l’affluenza media alle elezioni regionali è stata appena del 42%. Le motivazioni sono molteplici e spesso intrecciate.
La Commissione governativa sull’astensionismo ha individuato tra le principali cause la sfiducia nei confronti dei partiti, il disagio economico e sociale, il disinteresse crescente e la percezione che «il voto non cambi nulla».
Un dato significativo, riportato dal Corriere della Sera, collega direttamente l’astensione ai fattori socio-educativi: ogni punto percentuale di abbandono scolastico prematuro incrementa l’astensione di mezzo punto, e ogni punto percentuale di giovani NEET (Not in employment, education or training) la aumenta di 0,25 punti.
In altre parole, nel calo della partecipazione non c’è solo il “non me ne importa”: c’è anche il “non posso partecipare” o, più profondamente, “non mi sento parte di questo sistema”. Questo declino quantitativo ha conseguenze che vanno ben oltre il dato percentuale. Tocca la legittimazione democratica, il rapporto tra cittadini e istituzioni e l’idea stessa di democrazia come “governo del popolo”.
Quando un quarto, un terzo o più degli aventi diritto non si reca alle urne, la rappresentatività delle istituzioni — pur formalmente valida — diventa fragile nella sua autorità morale. Come osserva Pagella Politica, «a ogni elezione politica l’affluenza cala», e solo in pochissime tornate, dalla fine della guerra a oggi, si sono registrati piccoli rialzi.
Inoltre, quando la partecipazione diminuisce, il potere elettorale si concentra nelle mani di chi vota attivamente: ciò riduce la necessità per i partiti di conquistare grandi masse e favorisce la mobilitazione di minoranze compatte, con conseguenze sulla polarizzazione, sulla qualità del dibattito pubblico e sulla stabilità delle maggioranze.
Ma il dato più inquietante è forse quello simbolico. La memoria della partecipazione di massa — quando nel dopoguerra l’affluenza superava spesso il 90% — si scontra con la realtà attuale. Il gesto del voto, che un tempo era un rito civico collettivo, oggi assume spesso il tono di un’azione difensiva: “vado se mi conviene”, più che un impegno civico.
È un cambiamento linguistico e culturale profondo: non solo “non voto”, ma “non mi riconosco”, “non mi rappresentano”, “non vale la pena”. Il gesto di non votare, dunque, non è soltanto un atto di menefreghismo. Tutt’altro. Nella maggior parte dei casi è un gesto consapevole, un atto di condanna verso la classe politica e di sfiducia totale nelle istituzioni. È un modo per dire: “non vi credo più, potete raccontarmi quello che volete”.
È la certificazione, netta e definitiva, del fallimento di una politica che — da qualsiasi lato del Parlamento la si osservi — non riesce più a tracciare linee di pensiero chiare e coerenti. La sinistra non fa più la sinistra e la destra non fa più la destra. Gli ultimi governi di sinistra hanno tradito i lavoratori e stretto accordi con regimi che reprimono chi cerca di emigrare verso l’Europa; la destra non ha difeso il Paese né dall’“invasione straniera” (che non esiste, sia chiaro) né dal degrado e dai fenomeni criminali nelle città.
La fetta più ampia dell’elettorato è qui, a testimoniarlo, con uno striscione invisibile che dice: “non ci fidiamo più di voi”. Il resto è composto da chi vota per tradizione, per affezione, per convenienza o semplicemente per scegliere il meno peggio.
Una nuova grammatica del consenso
Negli ultimi dieci-quindici anni, il panorama politico italiano ha registrato un cambiamento profondo: non solo nei partiti, ma nella grammatica del consenso. Emergono temi che prima erano marginali — identità, sovranità, paure culturali, protezione — e scendono al centro del dibattito. In questo contesto, le forze di destra e populiste hanno raccolto un forte favore, spesso più per sentimento che per programma.
Per esempio, secondo un’analisi del Pew Research Center, «in Italia circa quattro elettori su dieci (≈ 40 %) hanno votato per uno dei tre grandi partiti populisti di destra nelle elezioni recenti, contro circa un terzo nel 2018». Non è solo un dato tecnico: significa che la scelta elettorale sta diventando meno una vicinanza ideologica o un progetto politico chiaro, e sempre più una dichiarazione identitaria — «mi identifico con questa visione», «mi sento protetto da questa forza».
In Italia la forza del partito Fratelli d’Italia è un esempio paradigmatico: da poco più del 4% nel 2018 a circa il 26% alle politiche del 2022. Ciò segnala che una forza politica è riuscita a intercettare non solo voti, ma significati: rafforzamento del “noi”, antidoto all’incertezza, promessa di ordine.
Il contesto in cui si muovono questi partiti-sentimento non è neutro: la sinistra e le forze moderate hanno perso progressivamente quell’“egemonia culturale” che consentiva di dettare i temi e i valori pubblici. Allo stesso tempo, le istituzioni politiche tradizionali hanno dato segnali di debolezza: frammentazione, linguaggi tecnici, difficoltà a generare speranza.
Il risultato? Le forze identitarie hanno trovato terreno fertile. Lo studio di CIDOB “Turning right: Italy’s political landscape and EU elections” (maggio 2024) documenta come la polarizzazione intorno ai temi dell’Unione Europea, dell’immigrazione e della sovranità nazionale abbia permesso alla destra di far propri spazi simbolici che un tempo erano contesi.
Questo processo ha due effetti: primo, la mobilitazione di un elettorato che cerca “protezione” più che “promessa”; secondo, lo spostamento dei margini verso posizioni più nette, perché la competizione non è più solo economica o gestionale, ma culturale e identitaria.
Un altro aspetto chiave riguarda la distribuzione del voto: con la partecipazione in calo e il paesaggio politico frammentato, non serve più ottenere percentuali massicce per vincere. Serve piuttosto una base coerente, compatta e facile da mobilitare.
In questo scenario, le forze identitarie-destra riescono spesso a ottenere risultati elevati fra chi va a votare, anche se l’affluenza generale cala. Per esempio, nelle elezioni europee del 2024 in Italia, il partito di destra Fratelli d’Italia ha ottenuto circa il 28% dei voti, superando il dato delle politiche del 2022 (che era circa il 26%).
Ciò significa che la percentuale sulla massa elettorale potenziale è inferiore, ma la percentuale sul corpo elettorale attivo resta elevata — amplificando il peso politico di queste forze. In parallelo, la debolezza delle forze centriste si traduce in un elettorato più disperso, meno fidelizzato, più incline all’abbandono o al cambio — il che rafforza ulteriormente le forze che restano stabili. In altre parole: la destra identitaria vince non solo grazie ai propri voti in più, ma anche grazie ai voti che gli altri perdono.
Questo assetto ha implicazioni per la qualità della democrazia: la competizione si sposta verso la mobilitazione continua, la comunicazione d’urto, la personalizzazione, e tende a marginalizzare il tema della visione di lungo periodo e della programmazione politica.
l voto liquido e la crisi delle identità politiche
Tra le trasformazioni più radicali della politica italiana c’è quella che sociologi e analisti chiamano “voto liquido”. Non si tratta solo di un’espressione suggestiva, ma della fotografia di un elettorato che ha smesso di appartenere. Gli italiani non restano più fedeli a un partito, a un’ideologia, a una storia: votano, cambiano, si spostano. Secondo diverse analisi dei flussi elettorali — tra cui quella pubblicata da Repubblica dopo le politiche del 2022 — circa un quarto degli elettori ha cambiato partito rispetto al 2018.
Questa fluidità non è una patologia momentanea, ma un sintomo profondo di trasformazione culturale. L’elettore italiano non è più “di sinistra” o “di destra” nel senso tradizionale: è un consumatore politico, che sceglie e cambia in base all’offerta del momento, alle emozioni, alle paure, ai volti che incarnano — per un attimo — un’idea di cambiamento o di protezione. È il segno di una società politica liquida, dove la stabilità è un ricordo e la fiducia un bene raro.
Questa mobilità di voto ha effetti dirompenti. Quando la fedeltà scompare, ogni tornata elettorale diventa un azzardo: non si parte più da un consenso consolidato, ma da una massa da riconquistare ogni volta. I partiti non pianificano, ma sopravvivono; non costruiscono visioni, ma campagne. Governare diventa un’estensione della comunicazione: un esercizio di storytelling permanente per non perdere attenzione e consenso.
Il risultato è che la politica si trasforma in una competizione continua, dove le promesse durano meno di un ciclo di notizie e la progettualità è schiacciata sull’immediato. Si parla più ai sondaggi che ai cittadini. Ma la volatilità non produce solo instabilità: produce anche disillusione. Molti italiani, dopo aver cambiato partito una, due, tre volte, si ritirano. Il voto diventa un esperimento che delude, un’abitudine che si abbandona. E la politica, privata della lealtà del suo popolo, perde la propria voce corale, riducendosi a una somma di interessi individuali.
In questo contesto si consuma la vera crisi: quella delle identità politiche. Il voto liquido non è solo una questione di scelte instabili, ma di significati che non ci sono più. Un tempo il partito era un luogo fisico, un linguaggio, un senso di appartenenza: si andava in sezione, si discuteva, si condividevano valori e destini. Oggi il partito è un logo, una faccia, un post sui social. Non esiste più la fedeltà, perché non esiste più l’identità da cui nasceva.
È per questo che gli italiani cambiano con tanta facilità: non tradiscono un’idea, perché nessuno gliel’ha offerta davvero. La sinistra non parla più di uguaglianza, ma di compatibilità; la destra non parla più di patria, ma di percezioni di sicurezza. Nel mezzo, un elettorato che si muove come un fluido in cerca di contenitori solidi che non trova più.
Il voto liquido, in fondo, è la metafora perfetta della nostra epoca: un Paese che scorre, ma non si ferma, che partecipa senza appartenere, che sceglie senza credere. E in questo movimento continuo si dissolve anche l’idea stessa di rappresentanza: se nessuno rappresenta davvero nessuno, la democrazia diventa una successione di turni, più che un progetto comune.
Tutto questo fa della democrazia non più un fondamento stabile della nostra vita collettiva, ma uno strumento a intermittenza, che attiviamo solo quando ci serve o quando sentiamo che può incidere concretamente sulle nostre esistenze. Votiamo alle amministrative se c’è un candidato che conosciamo o ci convince, alle regionali se la posta in gioco ci tocca da vicino. Ma nelle politiche — quelle che dovrebbero orientare il destino di un Paese — ci ritiriamo. Lasciamo campo libero a un elettorato sempre più polarizzato, alla fanteria rumorosa dei tifosi da stadio, che non vota per scegliere ma per vincere.
Nel frattempo, però, a perdere è l’intero Paese. Perché una politica che vive di consenso immediato smette di pensare in prospettiva. Non elabora più idee, identità o visioni, ma si limita a inseguire umori e algoritmi. Governa come si aggiorna un feed: con la logica del mi piace e del non mi piace. E così, mentre ci abituiamo a una democrazia “a chiamata”, stiamo perdendo ciò che dovrebbe difenderci dai grandi cambiamenti che ci circondano: la capacità di immaginare il futuro.
Una società che non vota e una politica che non pensa si ritrovano disarmate di fronte a tutto ciò che avanza: le crisi economiche, le disuguaglianze, le derive autoritarie, perfino le guerre — quelle combattute e quelle, più sottili, che si combattono con le parole, con i mercati, con la paura.
E allora la domanda, forse, non è più “perché non votiamo?”, ma quanto a lungo possiamo permetterci di non farlo.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Non so se voti, ma hai centrato il punto, non è pigrizia, è non sentirsi rappresentati da nessuno che porta all'astensione.
L'unica cosa da aggiungere per quanto riguarda l'Italia è la mancanza di fiducia nei politici che abbiamo, la maggioranza è lì da decadi a scaldare le poltrone, parlano davvero per i sondaggi e si rimangiano le promesse appena eletti. Inoltre c'è la consapevolezza che sulle questioni veramente importanti (vedi economia) non decidono loro, ma organismi sovranazionali e allora sì, il popolo si riduce a pensare alla convenienza personale.
So che la classe politica deriva dal popolo che la vota, quindi forse ce la meritiamo, ma da noi è quasi una casta e chi arriva in quella posizione viene contagiato dal sistema che complice la burocrazia riesce a spegnere i buoni propositi iniziali.