Vivere con un sacco di problemi, in fondo, ci piace
I problemi sono alla base delle vita di chiunque, ci impediscono di vivere sereni e di goderci quello che abbiamo. Eppure non riusciamo a farne a meno, a stare senza. Sarà che in fondo ci piace?
Tempo stimato per la lettura: 13 minuti
Una premessa importante: questa newsletter settimanale nasce, cresce e si concretizza nel giro di qualche ora, rubata al mio tempo libero e alla mia famiglia. A volte capita che abbia il tempo di rileggere tutto a distanza di giorni, altre volte non ho nemmeno il tempo di riguardarla. Se trovi degli errori, piccoli o grandi che siano, porta pazienza. Magari segnalameli, te ne sarò grato.
» PENSIERI FRANCHI: I jihadisti di Donald
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale, i miei pensieri in libertà. Se stai cercando l’approfondimento che dà il titolo a questa Insalata, prosegui un po’ più in giù.
Se mi chiedeste un pronostico su chi vincerà le prossime elezioni del presidente degli Stati Uniti risponderei, con la morte nel cuore, Donald Trump. Anche se immaginerete il perché di questa mia previsione, che sarà immagino anche la vostra, in realtà vi sbagliate. Non c’entra l’attentato, non c’entrano le continue pessime figure che fa il suo concorrente e attuale presidente degli Stati Uniti, c’entra un’altra cosa che mi è divenuta chiaao soltanto guardando le immagini dell’attentato.
Quello che mi è immediatamente sembrato palese è che Donald Trump non ha degli elettori, ha un vero e proprio esercito di fedeli. Di più, dispone probabilmente di gente che è disposta a tutto per il suo leader, persino ad assaltare il campidoglio, se il leader lo ritiene necessario, se il leader lo chiede. E in effetti i segnali di questo militantismo fanatico c’erano già tutti, ma con l’attentato mi sono sembrati ancora più evidenti.
Ora cercate di immedesimarvi per un attimo nella scena: siete a un comizio in una tranquilla cittadina della Pennsylvania, Butler, che conta poco più di diecimila abitanti. Siete lì magari con un famigliare o anche con i figli, che è anche una cosa frequente per come viene vissuta la politica negli Stati Uniti. Dicevo: siete lì, a un certo punto sentite sparare uno, due, tre colpi e forse di più. La gente urla, si scatena il panico, una persona non si rialza più da terra, la sicurezza scatta in tutte le direzioni. Cosa fate? Non vi prende il panico? Non tentate di scappare?
Certo che si, chiunque di noi se la sarebbe fatta sotto e avrebbe cercato di scappare il più velocemente possibile. Quello che succede però, a una larga parte dei presenti, è l’esatto contrario. Quando Trump, rassicurato dalla sicurezza sull’uccisione dell’attentatore, decide di sfruttare l’occasione con una maestria degna del grande personaggio che indiscutibilmente è, e alza il pugno aizzando gli spettatori al grido di “Fight! Fight!”, il pubblico risponde all’incitamento alzandosi in piedi, pugno in alto e sguardo truce, gridando a sua volta “Fight! Fight!” e poi “USA! USA!”.
Un leader che è capace di aizzare le folle in questo modo, facendogli superare in un batter d’occhio qualsiasi timore, persino la paura della morte, è una leader che potrebbe chiedere ai propri sostenitore di fare in suo nome qualsiasi cosa. E infatti l’ha già fatto e il suo esercito, prontamente e senza indugio, ha risposto. Ad accorgersene sono stati anche i quotidiani italiani, non è un mio pensiero isolato. La Stampa di qualche giorno fa titolava un articolo sullo stesso argomento “I miliziani di Donald”. Accanto al titolo, una foto di sostenitori in tenuta militare, che assomigliavano più a soldati jihadisti che a tranquilli cittadini statunitensi da grigliata nel backyard.
D’altronde la conversione di Trump da capo di partito a capo spirituale era in corso da tempo e l’attentato è solo il suo completamento. Alla convention repubblicana di Milwaukee, Trump ha esordito dicendo “Non dovrei essere qui stasera, non dovrei essere qui”. La folla è esplosa in urla di acclamazione e lui ha continuato:”Sono qui davanti a voi in questa arena per la grazia di dio onnipotente”. Un fatto che lui definisce “provvidenziale”.
Abbiamo sempre temuto i terroristi mediorientali perché disposti a tutto, persino a perdere la vita per un’ideale, il loro ideale folle di un modo guidato da un’unica religione, quella del loro profeta. In occidente abbiamo imparato quella lezione talmente bene che ne abbiamo ripreso le modalità, tanto da contrapporre a un leader politico stanco, balbettante e sicuramente troppo anziano per poter guidare per i prossimi cinque anni il paese più potente del mondo, un profeta capace di chiamare a raccolta un esercito disposto a tutto. Disposto a sacrificare la propria libertà in nome di un paese più identitario, forte e blindato davanti a quella che definisce “invasione”, leggasi immigrazione, che “avvelena il sangue degli americani”.
Più che un’elezione, messa così, sembra più una guerra santa e i seguaci di Trump, di conseguenza, assomigliano drammaticamente a quei jihadisti che abbiamo imparato a conoscere e a temere. Decisamente troppo per come siamo abituati a pensare alla democrazia in occidente.
Buona lettura.
Franco A.
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» IL PROBLEMA DI AVERE TROPPI PROBLEMI
Qualche tempo fa mi sono trovato in una conversazione in un cui un mio amico mi parlava dei suoi problemi. «Eh lascia stare, è un periodaccio!». «Che succede?» gli ho chiesto. «Eh ho l’auto dal meccanico e l’impianto di irrigazione del giardino che non va più». Sorrisi, lo confesso, senza farmi vedere. D’altronde è la prima reazione umana, quantomeno di chi ha sperimentato l’esistenza di problemi un pochino più rilevanti. Poi però ho cominciato a pensare al perché abbiamo sempre dei problemi, anche quando di veri problemi non ce ne sono.
I problemi vanno relazionati al contesto, inutile dirlo. Anche i problemi più grandi, più importanti, come per esempio quelli economici sull’incertezza o meno di arrivare a pagare il mutuo o l’affitto il mese successivo, diventano ridicoli davanti a un problema di salute che mette a rischio la propria vita o quella degli affetti più cari.
Anzi, arriverei a dire che tutto quello che esce fuori dalla sfera della salute, è in fondo un problema che non esiste realmente. Eppure abbiamo questo meccanismo mentale stranissimo per cui, anche se scaliamo verso l’alto eliminando tutti i problemi fondamentali - quindi salute e benessere economico - troviamo sempre qualcosa per cui essere preoccupati, di cui lamentarci con chi ci è accanto. Quasi come se non riuscissimo a vivere senza problemi, quasi come se sentissimo il bisogno di averne sempre un certo quantitativo.
I problemi sul lavoro
Esiste poi un altro tipo di problemi, quelli sul lavoro. In fondo il lavoro di ognuno di noi è riassumibile in una lunga sequenza di problemi da risolvere. C’è chi lo fa dalla scrivania di un ufficio e chi lo fa su una macchina che produce qualcosa, ma alla base di tutto c’è la risoluzione di un problema o di una lunga sequenza di problemi sempre uguali tra loro.
Ecco però: anche in questo caso, se ci ponete attenzione, noterete che c’è chi, per indole e inclinazione personale, tende a farsi carico più degli altri di problemi che non sarebbero nemmeno i suoi; problemi di cui potrebbe fare anche a meno. In altre parole c’è chi ama prendersi la briga di addossarsi altri problemi, probabilmente perché si sente capace di risolverli, oppure semplicemente perché non è capace di affrontare una vita sempre uguale, fatta sempre degli stessi problemi, che dopo un po’ diventano banali e che quindi trasformano la vita stessa in qualcosa di tremendamente noioso e statico.
Riempirsi di problemi è in fondo una grande sfida con sé stessi e anche un modo per mettersi alla prova, per testare quanto siamo ancora sul pezzo e capaci di tenere testa a qualsiasi genere di problema. Diventa a un certo punto una sfida quasi ludica, un voler passare anche questo livello, anche questo boss, per vedere se siamo capaci di andare avanti e sconfiggere tutti i nemici fino alla fine del gioco, che però non arriva mai.
È ancora molto diffusa, in ambito aziendale, quella che viene chiamata gamification, che è proprio questo: trasformare gli obiettivi in sfide di livello sempre più alto, per far si che il lavoro venga affrontato come un videogioco a difficoltà crescente. E cosa sono le sfide se non, stringi stringi, dei problemi? Perché ci piace così tanto riempirci di problemi? Siamo sicuri che tutti i problemi che ci riempiono la testa di ansia siano realmente problemi nostri e non cose che ci siamo auto attribuiti per sentirci, in fondo, tanto bravi a risolverli?
La psicologia dei problemi
«Franco sei troppo cervellotico, smettila di crearti problemi inutili». Si certo, confermo tutto, ma non avrei trasformato questo pensiero in un’Insalata se non avessi trovato il supporto di un bel po’ di letteratura a riguardo.
In un articolo su psychologytoday.com intitolato “Why We Love Our Problems—and How to Stop” (perché amiamo i nostri problemi e come fermarsi), Julian P. Humphreys racconta il suo caso personale in cui, al passare degli anni, insieme alla moglie, hanno continuato ad accumulare oggetti del passato, non riuscendo mai a disfarsene seppure fossero inutili e inutilizzati da anni. Davanti a un problema, lo spazio inutilmente occupato da cose non più utilizzate, non hanno fatto altro che rimandare la soluzione del problema perché troppo legati al problema stesso.
Secondo lo psicologo, ripetere costantemente lo stesso errore, continuare a crearsi gli stessi problemi o a non risolvere gli stessi, sono atteggiamenti che hanno una base comune, che si chiama “inerzia psicologica”.
Secondo Wikipedia, “l'inerzia psicologica è la tendenza a mantenere lo status quo (o l'opzione predefinita). L'inerzia psicologica è simile al bias dello status-quo, ma c'è un'importante differenza in quanto l'inerzia psicologica comporta l'inibizione di qualsiasi azione, mentre il bias dello status-quo comporta l'evitare qualsiasi cambiamento che sarebbe percepito come una perdita. La ricerca sull'inerzia psicologica è ancora molto limitata, in particolare sulle sue cause, ma è stato notato che l’inerzia psicologica influenza il processo decisionale inducendo gli individui a scegliere o preferire automaticamente l'opzione predefinita, anche se c'è un'opzione più vantaggiosa a loro disposizione”.
L’inerzia psicologia è una sorta di apatia della persona, che la porta ad affrontare la vita sempre con lo stesso atteggiamento e dunque a crearsi sempre gli stessi problemi o a compiere sempre le stesse azioni che poi portano ad avere gli stessi problemi, facendo in modo che ritrovarsi nella stessa identica situazione, con gli stessi identici problemi, diventi quasi piacevole, confortante.
Scegliersi una relazione affettiva con gli stessi problemi di quella precedente ci porterà ad avere sempre gli stessi problemi da affrontare. Oppure gestire sempre nello stesso modo le proprie finanze in modo da avere sempre e costantemente problemi economici. Infilarsi dentro questioni lavorative che ci portano sempre a riempirci la scrivania di problemi da risolvere. Sono tutti atteggiamenti che, secondo queste teorie, deriverebbero da un problema di fondo che ci porta a scegliere sempre l’opzione predefinita, quella che conosciamo, che ci fa sentire al sicuro, protetti dalla difficoltà maggiore del dover scegliere qualcosa di nuovo e diverso.
Uscire fuori da questo binario significa affrontare una difficoltà ben più grande dei problemi stessi, perché significherebbe vincere appunto un’inerzia che è troppo complicata da rimuovere. Più che amore per i problemi, dunque, si tratta di amare lo stato delle cose, lo status-quo, perché cambiare è sempre più complicato che non lasciare tutto com’è, anche se “tutto così com’è” significa qualcosa che non ci piace.
Il dubbio patologico, ovvero la malattia del pensare troppo
Tutto questo percorso, che parte da una certa dipendenza dell’avere sempre la vita piena di problemi da risolvere, anche quando si potrebbe vivere tutto sommato una vita serena, poggia le basi su un altro atteggiamento, che è quello di pensare troppo, ovvero quella di - appunto - “farsi troppi problemi”.
Quante volte mi è stato detto che penso troppo e mi creo problemi per niente? Troppe. Il fatto è che probabilmente chi me lo diceva aveva ragione. Il cosiddetto dubbio patologico è appunto una patologia nota in psicologia. Ne parla, per fare un esempio, il libro “Cogito ergo soffro”. Non più “penso dunque sono”, ma “penso dunque soffro”, perché il pensare troppo porta a una stasi, a un accumularsi dei problemi per la difficoltà di prendere una decisione che sarebbe troppo difficile da affrontare o la cui soluzione comunque troppo complicata.
Il dubbio patologico è anche visto come una sorta di stallo, di labirinto in cui si perde la mente senza mai trovare l’uscita. Quando l’uscita, in realtà, sarebbe facilissima da trovare, se solo si cambiasse prospettiva e si iniziasse col fare qualcosa. Spesso infatti ci si annoda in ragionamenti che si allontanano molto dal contesto pratico e che quindi non arrivano mai a una conclusione perché le premesse stesse si sono allontanate dalla realtà.
Chi si fa meno problemi, chi non soffre di dubbi patologici, semplicemente adotta un approccio più realistico, più pratico, magari più banale e semplicistico, trovando però una soluzione al problema che magari era molto più semplice di quanto la nostra mente ci abbia portato a pensare. Spesso, in altre parole, bisognerebbe agire di più e pensare meno.
A questo proposito è quasi illuminante l’aforismo (anonimo) con cui si apre Cogito ergo soffro:”Se c’è soluzione, perché ti preoccupi? Se non c’è soluzione, perché ti preoccupi?”. A volte la soluzione ai problemi è così spietatamente semplice eppure sempre altrettanto complicata. Perché poi assumere questo atteggiamento iper razionale (non c’è soluzione e quindi non mi preoccupo) e tutto fuorché facile, soprattutto per chi soffre appunto della malattia del troppo pensiero, di dubbio patologico e di tutte quelle patologie che sono strettamente intrecciate a questa, come il perfezionismo e i disturbi ossessivi compulsivi.
Il dubbio patologico è una modalità di pensiero limitante, perché impegna tantissime energie nel cercare soluzioni e risposte a problemi che in realtà o non hanno una soluzione, oppure ne avrebbero una molto semplice se banalmente si provasse ad assumere un approccio più semplice, addirittura semplicistico. Sapete quella citazione spesso attribuita a Mark Twain (pur non essendo affatto certa l’attribuzione) che dice «Non sapevano che era impossibile, allora l’hanno fatto»? Ecco, una cosa del genere.
Si, lo so che è una frase spesso utilizzata da squallidi pseudo motivatori, insieme all’altra, che viene attribuita a Einstein, che recita più o meno così:«tutti pensavano che fosse impossibile, poi è arrivata una persona che non lo sapeva e l'ha fatto!». Prendiamo la parte positiva di questi aforismi e portiamoci a casa il fatto che spesso, per risolvere alcuni problemi che ci sembrano insormontabili, bisogna forse usare un pizzico di ingenuità ed essere un po’ più sprovveduti di quello che siamo solitamente. Pensare meno e agire di più.
Di mezzo c’è sempre la scarsa autostima?
Riempirci la vita di problemi è sicuramente un buon modo per rinforzare la nostra autostima. Più mi creo dei problemi, più alla loro risoluzione mi sentirò bravo, capace e indispensabile. È forse questo il segreto che c’è dietro l’atteggiamento di quelle persone che sul lavoro si sobbarcano il lavoro di molti altri colleghi, non riuscendo mai a dire di no. Sentirsi capaci di risolvere qualsiasi problema, metterci costantemente alla prova e farci carico di problemi che non sono direttamente i nostri è forse una dimostrazione di debolezza e di scarsa autostima. Oppure, forse, è un disperato bisogno di dopamina, perché anche la risoluzione di un problema, specie di un problema che nessuno ha avuto la voglia o la capacità di risolvere, porta certamente al rilascio di questo tipo di droga del cervello.
In ogni caso, la soluzione c’è e passa per la volontà di cambiare atteggiamento nei confronti della vita e dei problemi. «Si, lo dici come se fosse facile». Ma certo che non lo è, lo dice uno che in questa categoria ci rientra con tutte le scarpe, ma alla fine, stringi stringi, di questo si tratta. Abituarsi a non accettare sempre la soluzione a cui siamo abituati, a non fare sempre la stessa cosa e a non indugiare troppo nelle cose. Agire di più e pensare di meno quando il pensiero diventa un labirinto che porta all’immobilismo. Sfuggire all’inerzia psicologica e al dubbio patologico. Forse non è così facile senza l’aiuto di un professionista, ma magari si possono fare dei passi in avanti anche senza.
Se ci riuscite, mi raccomando, fatemelo sapere.
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Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Qualche anno fa, seguendo il consiglio di un'amica psicologa, scrissi con la matita, su un foglio, i problemi che erano solamente miei e che potevo risolvere solo io.
Due.
Finti.