Chi perderà il lavoro nei prossimi 5 anni per colpa dell’IA?
L’intelligenza artificiale non ruba solo i lavori: riscrive il modo stesso di lavorare. Dal mondo al web, tra mestieri che spariscono e un nuovo dio chiamato Atlas.
Prima di iniziare, vi chiedo un parere:
È la domanda delle domande, quella che preoccupa non solo chi un lavoro ce l’ha già, ma pure chi deve intraprendere un percorso di studi con l’obiettivo di entrare nel mondo del lavoro attraverso quello che ha sempre sognato fare.
Il più grande cambiamento che ha investito l’umanità da decenni a questa parte — l’arrivo dell’intelligenza artificiale nella vita quotidiana — avrà un impatto certo sul mercato del lavoro. Forse, più che parlare di impatto, sarebbe più corretto parlare di cataclisma, simile a quello che seguì le principali rivoluzioni industriali, come l’arrivo delle macchine, dell’elettricità e dei computer.
Ma allora, quali sono i posti di lavoro che verranno sostituiti da una chat e quali invece verranno creati? Chi ci rimetterà? Chi deve cominciare a preoccuparsi? Cosa conviene studiare a un ragazzo che deve scegliere il percorso universitario?
Sono tutte domande a cui molti articoli hanno cercato di rispondere. Se cercate su internet troverete innumerevoli fonti, quasi tutte straniere. E sapete perché? Perché in Italia, come spesso capita, siamo abbastanza impermeabili ai grandi cambiamenti in arrivo, salvo poi subirne inesorabilmente tutte le devastanti conseguenze di chi non ha fatto nulla per prepararsi.
Vedremo più in là come tutto questo è stato recepito proprio in Italia, a differenza di molti altri paesi che stanno investendo pesantemente sul tema dell’IA. Ma soprattutto vedremo come un problema concreto che sta investendo moltissime aziende è quello che, nel tempo, si erano abituate a ricevere una certa quantità di traffico - declinato in contatti, richieste, registrazioni, acquisti, ecc. - dai motori di ricerca e oggi, invece, cambia tutto anche sotto quel punto di vista. Un bel po’ di utenti non chiedono più a Google, bensì direttamente a ChatGPT. Soprattutto ora che ChatGPT è anche un browser, Atlas (parleremo anche di questo).
Insomma, tutto cambia: il lavoro che si pensava essere il futuro - lo sviluppatore - rischia di essere quello più a rischio nei prossimi anni. O forse no? All’arrivo di questi modelli di linguaggio si diceva che a perdere il lavoro sarebbero stati giornalisti e scrittori, perché le capacità di scrittura di questi sistemi è stato fin da subito stupefacente. Eppure sono bastasti pochi anni di utilizzo pratico per farci capire che no, forse non sarà chi scrive a subire per primo le conseguenze di questa rivoluzione.
E allora come si evolverà il mercato del lavoro? Proviamo a dare una risposta con questa Insalata che non deve preoccuparvi, anzi, deve darvi (dovrebbe, questo è l’augurio) gli strumenti giusti per non farvi travolgere da una rivoluzione annunciata.
Il mondo sta cambiando. Di nuovo.
Mentre in Italia il dibattito sull’intelligenza artificiale resta confinato tra entusiasmi e sospetti, nel resto del mondo la trasformazione è già in atto — e ha i numeri di una rivoluzione industriale. Secondo il World Economic Forum, entro il 2030 l’IA creerà circa 170 milioni di nuovi posti di lavoro ma ne trasformerà o cancellerà almeno 90 milioni. Non è un cambiamento, è una sostituzione di massa: un gigantesco ricollocamento della forza lavoro in cui vincerà chi saprà adattarsi più in fretta.

I primi a tremare non saranno gli operai o gli artigiani, come fu in passato con l’introduzione delle macchine, ma i lavoratori della conoscenza: data analyst, copywriter, traduttori, grafici, operatori del customer service; persino i programmatori, contrariamente a quanto sarebbe naturale pensare.
Tutte le professioni che vivono di regole, procedure e routine mentali — il terreno ideale per un algoritmo - sono a rischio. Forbes e Microsoft Research concordano: i mestieri più a rischio sono proprio quelli in cui la creatività è più un metodo che un fine, dove la decisione umana è sostituibile da una previsione statistica. Al contrario, resistono i lavori manuali specializzati, quelli educativi, quelli che richiedono empatia o contatto umano diretto: insegnanti, infermieri, artigiani, progettisti.
Il paradosso è che l’IA non sta solo “rubando” i lavori di bassa manovalanza cognitiva: sta riscrivendo l’intera mappa della produttività. In molti paesi — dagli Stati Uniti alla Corea del Sud — i governi stanno già investendo miliardi in programmi di reskilling1 e AI literacy2, perché la domanda non è più “quanti posti spariranno?”, ma quanti potranno sopravvivere al cambiamento.
L’Italia che si siede a guardare
Se nel resto del mondo si parla di piani di reskilling e AI literacy, in Italia il dibattito si è fermato alle paure da talk show: «L’IA ci ruberà il lavoro!», «ChatGPT distruggerà la scuola!». Intanto, però, gli altri Paesi si stanno muovendo.
Secondo ISTAT, appena l’8,2% delle imprese italiane con più di dieci dipendenti utilizza tecnologie di intelligenza artificiale. Tra le grandi aziende — quelle con oltre 250 addetti — la percentuale sale al 25%, ma resta comunque molto inferiore rispetto alla media europea. In pratica, l’Italia si sta affacciando alla quarta rivoluzione industriale con il passo di chi entra in un cinema a luci accese: in ritardo e facendo finta di niente.
Un’analisi Censis–Confcooperative pubblicata nel 2025 parla di “economia artificiale” e stima che entro il 2030 circa il 27% delle ore lavorative sarà automatizzato. Tradotto: più di un quarto del lavoro umano attuale potrebbe essere sostituito o profondamente modificato da processi automatizzati. Eppure, nel Paese dove il dibattito pubblico si accende per la chiusura dei call center, nessuno sembra preoccuparsi del fatto che gli algoritmi stiano per prendere il posto non solo degli operatori, ma anche degli impiegati che oggi gestiscono dati, contratti, report e contenuti.
Come nota Sebastiano Bavetta su Agenda Digitale, il fenomeno non va confuso con una semplice sostituzione: l’IA tende piuttosto a svuotare le mansioni, spostando il valore dalle attività operative a quelle di controllo, validazione e progettazione. In altre parole, non sparisce il lavoro, sparisce la parte noiosa — ma anche quella più diffusa.
Il problema è che, per riqualificare milioni di persone verso ruoli più analitici o creativi, serve un sistema educativo capace di anticipare il cambiamento. E lì torniamo al punto di partenza: in Italia l’educazione digitale è ancora un’eccezione, non la norma.
L’AIRI (Associazione Italiana per la Ricerca Industriale) ricorda che le PMI, cuore pulsante dell’economia nazionale, sono le meno pronte: mancano dati strutturati, competenze digitali, strategie di adozione.
Eppure un segnale positivo c’è: secondo AI4Business, in soli tre anni il numero di imprese che utilizzano l’IA per più di un compito è raddoppiato. È un passo piccolo ma non insignificante, il sintomo di un cambiamento che sta avvenendo sotto traccia, spesso più per necessità che per visione.
L’Italia, insomma, non è ancora nel pieno della rivoluzione IA, ma la vede arrivare da lontano come una perturbazione annunciata. E quando arriva una perturbazione, si possono fare diverse cose: si può decidere di prendere un ombrello, di non uscire di casa oppure di uscire lo stesso e sperare che non piova.
Fare business con internet. Ora sarà come cominciare da capo
E ora tocca a me, perché chi vi scrive subirà un fortissimo impatto dall’arrivo di queste intelligenze artificiali. Anzi, l’ha già subito, a dire il vero, solo che fino a oggi non è stato chiarissimo in quale modo.
Per oltre vent’anni, chi lavorava nel digitale ha vissuto sotto una regola non scritta: bisogna piacere a Google. Dagli uffici marketing ai giornalisti online, tutto ruotava attorno alla SEO — la Search Engine Optimization — cioè l’arte di scrivere pensando non ai lettori, ma agli algoritmi. Chi di voi non l’ha sentita nominare almeno una volta? Bastava capire come ragionava il motore di ricerca per salire di posizione: titoli scritti in una certa maniera, paragrafi densi di keyword, link ben piazzati. È una professione a metà tra la linguistica e l’astrologia, ma funziona. O funzionava?
Oggi però il motore di ricerca non cerca più: genera. Lo ha spiegato bene Wired in un articolo di Zoë Schiffer (“Forget SEO. Welcome to the World of Generative Engine Optimization”, ottobre 2025): la SEO sta lasciando spazio alla GEO, la Generative Engine Optimization. Non si tratta più di posizionarsi tra i primi risultati di Google, ma di farsi citare da un modello linguistico. L’obiettivo non è che l’utente trovi il tuo sito, ma che ChatGPT o Gemini riconoscano il tuo contenuto come fonte autorevole quando generano una risposta.
Il cambiamento è profondo. Le IA non amano i testi prolissi né i blog chilometrici pieni di introduzioni inutili: preferiscono informazioni brevi, strutturate e chiare, come schede prodotto, FAQ e liste puntate. Ai modelli di linguaggio servono dati da consultare per apprendere velocemente le caratteristiche salienti, la poesia poi ce la mettono loro. «Un’unica pagina di domande frequenti può rispondere a cento query diverse», ha spiegato Imri Marcus, CEO della società di consulenza Brandlight. In questo nuovo ecosistema, la sovrapposizione tra i link di Google e le fonti utilizzate dalle AI è scesa dal 70% al 20%, segno che i due mondi — il web e i modelli generativi — si stanno già separando.
E come se non bastasse, all’orizzonte arriva Atlas, il nuovo browser di OpenAI: una piattaforma che unisce ChatGPT a un vero e proprio motore di ricerca, capace di navigare il web in tempo reale e rispondere con sintesi verificabili. In pratica, una fusione tra il vostro browser preferito (Chrome, Safari o quello che è), Google e un assistente personale. Che tra l’altro si ricorda tutto quello che avete cercato, può ragionare e soprattutto agire, addirittura mettendo nel carrello e acquistando dei prodotti che gli avete chiesto tramite chat.
Secondo Adobe Analytics, nel periodo natalizio 2025 i retailer statunitensi vedranno un incremento fino al 520% del traffico proveniente da chatbot e AI search engine rispetto all’anno precedente. E se gli utenti non chiedono più a Google, ma direttamente a un assistente, l’intero ecosistema di chi vive di visibilità — SEO, agenzie, publisher, brand — dovrà reinventarsi da zero.
Nel vecchio web si scriveva per essere trovati. In quello nuovo si scrive per essere riconosciuti da una macchina. Rimane soltanto una speranza: che ad addestrare la macchina rimanga un essere umano, altrimenti il loop infernale della macchina che addestra la macchina ci porterà chissà dove.
Adattarsi, non resistere.
Alla fine di ogni rivoluzione industriale c’è sempre stato un momento in cui l’uomo ha dovuto imparare di nuovo a fare il suo mestiere. È successo con la macchina a vapore, con l’elettricità, con i computer, e succede oggi con l’intelligenza artificiale. La differenza è che, questa volta, la rivoluzione non ha un fumo di ciminiera ma una finestra del browser.
L’errore più grande sarebbe pensare che tutto questo riguardi solo chi lavora nel digitale. In realtà, l’IA non si limiterà a cambiare i lavori: cambierà il concetto stesso di lavoro.
Non esisteranno più ruoli fissi, ma competenze mobili; non carriere lineari, ma riqualificazioni continue (reskilling, l’abbiamo visto prima). Vi faccio un esempio banale: a che servirà conoscere a memoria le formule di Excel quando basterà scrivere in un prompt “estrai i valori più alti e riassumili in un grafico a torta”? E chi non imparerà a usare l’IA come strumento — non come minaccia — rischierà di restare escluso da un mercato che premia la curiosità più della fedeltà.
Il futuro non è degli specialisti, ma dei traduttori: di chi saprà spiegare alle macchine come ragioniamo, decidiamo, sentiamo. Forse non stiamo davvero perdendo i mestieri, ma stiamo perdendo l’illusione che fossero eterni. E forse l’abilità fondamentale diventerà quella che non ci saremmo mai aspettati: essere capaci di spiegare alla macchina quello che vogliamo. Saperci esprimere, insomma. Perché la macchina è capace di fare qualsiasi cosa, d’accordo, ma bisogna essere capaci di chiedergliela.
In fondo, il lavoro umano è sempre stato questo: trovare un modo per restare necessari. Di continuare a essere indispensabili anche per le macchine che noi stessi abbiamo creato. E se il nuovo motore del mondo digitale si chiamerà Atlas, forse il suo ruolo sarà quello di reggere il peso del mondo digitale e il nostro quello del mondo reale.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
È il processo di riqualificazione professionale che permette a un lavoratore di acquisire nuove competenze per adattarsi a un cambiamento tecnologico o organizzativo.
È la competenza di base nell’uso e nella comprensione dell’intelligenza artificiale: saper dialogare con un modello, interpretarne i limiti, usarlo in modo critico e consapevole.





Grazie dell'articolo Franco!
In parole povere: nulla di troppo nuovo sotto al Sole.
Un mio cavallo di battaglia (da tecnico lavoratore nel campo dell'AI da anni) è sempre stato e continua a essere che gli strumenti vanno capiti prima di criticarli o elogiarli. Capendo cosa essenzialment fanno si può poi valutare con tutte le cautele del caso quali saranno le mansioni per cui gli uomini potrebbero diventare inutili (con l'avvento della stampa si è dopotutto detto addio agli amanuensi e a tutti i loro bellissimi disegni!)
Con taglio divulgativo, proprio per fare ciò, sto scrivendo una sezione ad hoc della mia newsletter (I Sogni delle Macchine). Per chi fosse interessato al tema può farsi un giro 🫡
Grazie ancora! Ci si legge
Eh...alla fine l'idraulico vince sempre...;-)