Cos’è il metodo FAFO e perché piace ai genitori della destra MAGA
Cos'è il FAFO parenting? Educare lasciando sbagliare o mascherare vecchie idee autoritarie? Un viaggio tra neologismi, ideologie e cattiva semplificazione.
Lo so, di educazione e di figli ne ho parlato forse troppo. Però qui c’è un fatto di assoluta attualità di cui parlare. E persino un termine nuovo, un neologismo, che per niente al mondo potete rischiare che venga pronunciato in vostra presenza senza che possiate dimostrare di conoscerne il significato e di essere quindi estremamente aggiornati sull’attualità.
Il termine l’avrete già letto nel titolo: FAFO, e al significato ci arriveremo tra poco. Anche perché il significato è duplice e questo è l’altro lato della medaglia di questa Insalata Mista. Da un lato il significato di un nuovo termine che spiega una tendenza recente, dall’altro il significato che sfrutta un certo schieramento politico per far passare un paradigma educativo molto negativo, estremo diremo, attraverso concetti all’apparenza di buon senso e largamente condivisibili.
Educare in un mondo come quello odierno, del resto, è diventato un campo minato. Ogni gesto, parola o omissione da parte di un genitore può essere letto alla luce di un “modello educativo”, un “approccio”, una “filosofia” che dice molto più su chi siamo noi che su chi saranno loro, i nostri figli.
Ed ecco qui che salta fuori un altro termine, questo meno d’attualità forse, quantomeno nel conio: si tratta di “parenting” – mutuato dalla lingua inglese e ormai onnipresente nei discorsi pedagogici – che non indica solo l’atto di crescere un figlio, ma racchiude in sé un mondo di teorie, tecniche, stili e aspettative. Si parla di gentle parenting, free-range parenting, attachment parenting (non starò qui né a elencarli tutti, né a spiegarli singolarmente), e poi arriva ovviamente lui, il protagonista dell’Insalata di oggi: il FAFO parenting.
Un nome che suona come uno scherzo, o come una minaccia. Un acronimo che condensa la ruvida essenza di un certo pragmatismo americano: Fuck Around and Find Out. In italiano: “Fai lo stupido e pagane le conseguenze”. Anzi, se volessimo cercare un parallelo nei più comprensibili proverbi nostrani, potremmo dire “chi la fa, l’aspetti”.
Dietro l’apparente brutalità del nome si nasconde una filosofia educativa che sta facendo breccia anche in Europa, specie tra chi guarda con fastidio ai “genitori chioccia” e alla pedagogia del dialogo. Sta nascendo, in pratica, una controbcultura simile a quella che si scaglia contro quella woke, trasformando tutto quello che è troppa “apprensione” e “tendenza al controllo” dei genitori verso i figli in qualcosa da combattere perché trasformerebbe gli ultimi — i figli — in persone molli, senza spina dorsale. E non è un caso se questa corrente abbia la stessa origine di quella anti-woke, ovvero la destra MAGA americana. Da qui l’esigenza di coniare un termine che indichi un modo di educare più forte, più severo, più autoritario e nostalgico dei vecchi tempi (ma quali, esattamente?). La domanda però è un’altra: davvero lasciar sbagliare è un atto educativo? O è solo il travestimento trendy di un vecchio autoritarismo?
E qui arriva la seconda questione di questa Insalata, che tento di intersecare con quella principale, cercando di lasciarvi uno spunto di riflessione in più, che è anche il mio personale obiettivo più ambizioso (chissà se ci sarò mai riuscito).
Appena ho sentito parlare di FAFO — nel prossimo paragrafo scenderemo un po’ più nel dettaglio — ho pensato: «questo è il mio ideale di educazione!». Eppure io sono l’esempio vivente di chi ha scelto e incarnato un modello opposto a quello di chi predica questo paradigma. Lì mi sono scontrato con qualcosa di ben più subdolo e forse noto nel mondo della comunicazione politica moderna: cercare delle formule che possono cambiare radicalmente senso a seconda che vengano raccontate in modo semplice o più complesso e articolato.
Quindi, se dico a una persona «sei d’accordo che i figli vadano anche lasciati sbagliare per imparare le cose?», chi è che risponderebbe, almeno razionalmente, di essere contrario? Mentre se poi articolassi questo pensiero un po’ meglio e andassi a fondo nello specificare che non è un “lasciar sbagliare” ma piuttosto uno “spingere a sbagliare perché prendere le sberle fa diventare uomini”, allora si comincerebbe a intravedere un’altra ideologia, ben più pericolosa e dalla quale io, personalmente, non posso essere più distante.
Che poi è l’ideologia che riassunse benissimo il Ministro dell’Educazione e del Merito (pensa un po’), l’illustre Valditara, quando dichiarò:«Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione».
Dunque non uno scivolone in seguito all’imboscamento di un giornalista senza scrupoli, bensì un razionale ragionamento su cosa porterebbe alla crescita e alla responsabilizzazione del giovane. L’umiliazione, l’atto di pagare pegno, di pagare per qualcosa a cui volutamente è stato spinto per poter appunto maturale una crescita personale.
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Che cos’è il FAFO e da dove nasce
Il FAFO non è strettamente un’ideologia o una teoria pedagogica, piuttosto è una moda nata online, una di quelle cose che si diffondono sui social e che diventano dunque virali. Il FAFO si diffonde prima su Reddit e poi trova la sua sacralizzazione su TikTok, per poi sbarcare sulle testate giornalistiche fino ad arrivare al The Wall Street Journal.
Su tutte le fonti che ho trovato, a proposito del FAFO, ho sempre ritrovato lo stesso esempio del giubbotto. «Tuo figlio vuole uscire senza giubbotto? Che prenda freddo. Vuole uscire senza ombrello? che torni zuppo d’acqua». Di nuovo, un’idea terribile mascherata dal buon senso. Chi potrebbe mai obiettare nulla di fronte al rifiuto di un ragazzino di fare quello che gli si consiglia? In fondo l’abbiamo fatto tutti: piuttosto che imporre qualcosa con le cattive, lasciamo che ci sbatta la testa da solo. È un principio di buon senso, messa in questo modo. Soltanto che chi adotta questa strategia, il FAFO, in realtà fa ben di più. Farà in modo che il figlio esca senza giubbotto, riprendendo l’esempio di prima, per fare in modo che il tornare a casa infreddolito o bagnato tempri il suo carattere “da uomo”.
È il trionfo delle conseguenze naturali, un’idea che in realtà ha radici antiche. Già Jean-Jacques Rousseau, nell’Émile, parlava di educare attraverso l’esperienza diretta. Ma qui l’accento è diverso: non si tratta di accompagnare dolcemente l’errore, ma di lasciarlo accadere senza intervenire. In fondo, FAFO è il lato “cattivo” del gentle parenting: meno empatia, più risultati. E infatti piace. Piace a chi è stanco del “parlare sempre con i bambini”, a chi rimpiange la scuola severa, a chi sogna il ritorno dell’autorità.
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Perché non piace ai pedagogisti italiani
Nel dibattito educativo italiano, l’approccio FAFO suona come un’eresia. I pedagogisti lo guardano con sospetto, e non senza ragioni. È di qualche giorno fa l’intervista su Repubblica di Daniele Novara, celebre pedagogista autore di diversi libri, che sostiene quanto questo metodo sia addirittura agli antipodi di quello Montessori. Sostiene Novara (col quale personalmente, nel mio piccolo, sono d’accordo quasi su nulla), prendendo un virgolettato di Repubblica, che il FAFO sia “Un’idiozia, i bambini non sanno decidere da soli”.
In un paese dove l’educazione è ancora fortemente legata all’idea di cura, attenzione e dialogo, la filosofia del “sbatti la testa e impara” appare quindi brutale. “Non tutti i bambini hanno la stessa capacità di elaborare un errore”, ricordano gli esperti. Per alcuni, una caduta può insegnare; per altri, può ferire. E poi c’è il tema della relazione: se l’adulto si ritira, se non media, se non accoglie, che tipo di messaggio lancia?
Il rischio, dicono in molti, è scambiare la responsabilizzazione con l’abbandono. In quella distanza che c’è tra il concetto di “lasciar sbagliare” e la sua estremizzazione, ovvero quello di “indurre all’errore”, c’è tutta la differenza del mondo.
Lasciare che un bambino fallisca non è neutro, e nemmeno sempre educativo. Dipende dall’età, dal contesto, dalla sensibilità. E poi dipende anche dall’errore che siamo disposti a lasciar fare. Voglio dire: non ci piace un’amicizia che sta frequentando? Lasciamo che lo capisca da solo. Vuole uscire per le strade della città da solo a 7 anni? Forse è meglio dire di no. Va insomma parametrato il rischio con una serie di fattori fondamentali. E a fare questa valutazione deve essere un genitore capace di farlo senza (possibilmente) essere schiavo di un’ideologia improntata sulla severità e la rigidità dogmatica. Insomma, stiamo crescendo giovani ragazzi, mica giovani reclute dell’esercito. O no?
Tutto dipende dalla presenza emotiva del genitore. FAFO può facilmente diventare l’alibi perfetto per non mettersi in gioco, per risparmiare fatica, per dire “te l’avevo detto” invece di dire “sono qui”. E questo, in una società già in bilico tra solitudini e prestazioni, può essere pericoloso.
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Perché il FAFO non è un’idea per forza cattiva
Eppure, a ben guardare, qualcosa di buono nel FAFO c’è. L’ho detto all’inizio e personalmente posso dire che, a una lettura più superficiale, sembra molto simile a quello che ho sempre messo in pratica: meno regole, meno dinieghi e più esperienza pratica.
Mi è capitato, per esempio, che in situazioni in cui l’esperienza da genitore mi diceva che quello che stava facendo uno dei miei figli non fosse corretto, piuttosto che vietare o calare la mannaia di verdetti troppo assoluti che avrebbero potuto generare una reazione contraria a prescindere (vi ricordate della “reattanza psicologica” di cui parlammo nell’Insalata sui divieti?), abbia lasciato andare in modo che fosse direttamente il figlio a rendersene conto. Magari dando soltanto un piccolo input in risposta alla domanda «ma tu che ne pensi?». In quel caso, ho ritenuto che fosse importante, di fronte a una richiesta diretta, che mio figlio non si sentisse solo, senza un appoggio da parte del padre. Ma poi ha fatto la sua scelta e quando si è reso conto da solo che quello che stava facendo non andava bene, ha capito e ha maturato qualcosa di suo, di personale, non imposta dall’alto.
In questo senso, l’educazione attraverso l’esperienza pratica credo sia il modo migliore di educare. Ma non come ideologia educativa, non come abnegazione totale del buon senso che cede a un ideale vecchio e ammuffito (ma tanto attuale) di vedere l’educazione più simile a un addestramento che al modo di crescere adulti capaci di pensare e di vedersi proiettati in una società e in un mondo di cui sono essi stessi responsabili e protagosti.
Questa ideologia, del resto, nasce come reazione a un altro eccesso: quello del controllo totale. In questi anni, tra app per localizzare i figli e pagelle emotive da compilare ogni sera, abbiamo forse dimenticato che imparare vuol dire anche sbagliare. I bambini – come gli adulti – crescono quando hanno lo spazio per provare. E se ogni caduta è evitata, ogni rischio sterilizzato, ogni errore corretto prima ancora che accada, allora dove finisce l’autonomia?
L’ho scritto più volte: dietro un certo disagio giovanile c’è senz’altro — molto più che l’onnipresente scusa valida per tutti i genitori in cerca di una scusa per autoassolversi, ovvero lo smartphone e internet — l’assenza di libertà a cui li costringiamo. Troppa attenzione a non farli sbagliare, a far sì che gli venga evitato qualsiasi dolore, qualsiasi difficoltà, qualsiasi contatto con argomenti complessi come la morte e il dolore che però, ahimè, fanno parte della vita fin da quando sono giovanissimi.
Il FAFO, in questo senso, può essere letto come un invito a fidarsi di più dei figli. A non temere ogni errore come un fallimento genitoriale. A capire che dire “ti lascio fare, ma ci sono” è più educativo di “fai come vuoi” o “fai solo quello che ti dico”. Il punto non è buttare i bambini nel mondo e chiudere la porta, ma lasciare entrare il mondo, accompagnandoli nella scoperta. Che poi, guarda un po’, e anche la stessa cosa che dovremmo fare con internet, con i social e con i dispositivi digitali. Se usato con intelligenza, dosato con empatia, integrato in un contesto di relazione intelligente con l’adulto, il FAFO può diventare un ingrediente utile. Forse un po’ amaro, ma utile. Addirittura necessario.
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FAFO o non FAFO, è la semplificazione il problema
L’educazione FAFO divide perché tocca un nervo scoperto: quello del potere. Chi decide cosa è giusto per un figlio? Fino a che punto si può sbagliare? Dove finisce la libertà e dove comincia l’incuria? Dove inizia l’interesse per crescere un adulto responsabile e dove finisce invece l’incoscienza del far sbagliare deliberatamente un giovane ancora inesperto delle cose del mondo?
Le mode educative sono spesso lo specchio delle ansie di un’epoca, e questa – tra crisi ambientale, lavoro precario e algoritmi che ci valutano – è un’epoca che pretende risultati immediati. Crescere però, oserei dire per fortuna, è ancora una questione lenta, imperfetta, umana.
Uno potrebbe chiedersi anche:«possibile che in tutti questi anni, nessuno abbia scritto un “Manuale del buon genitore”?». La risposta sarebbe persino banale: ma certo che è stato scritto! Anzi, ne sono stati scritti a fiumi. Peccato che nessuno di questi abbia valore e il perché è semplice: nulla come l’educazione ha bisogno di essere tarata nel contesto e attualizzata nel periodo vissuto. Perché se nei principi generali nulla è cambiato, nella pratica il mondo di oggi non c’entra nulla, ma proprio nulla, anche soltanto con quello di vent’anni fa.
Il FAFO non è la panacea, anzi. Però può essere, se usato bene, un richiamo a non voler controllare tutto. A lasciare spazio all’imprevisto. A educare senza pretendere la perfezione. Perché anche noi adulti abbiamo fatto, abbiamo sbagliato, e abbiamo trovato la nostra strada. Sbagliando, sì. Ma anche imparando. E anche se non l’ho scritto esplicitamente, so che ci avete letto un banalissimo “sbagliando s’impara”. Già, che banalità, ma questa è quella pagina del manuale del buon genitore che — forse l’unica — andava bene cento anni fa e che va bene ancora oggi.
Poi c’è l’altra questione a cui accennavo nell’introduzione: quella del FAFO è l’ennesima truffa ai danni dei più sprovveduti o di quelli che semplicemente non hanno tempo o testa per andare ad approfondire tutto (e per loro, però, c’è Insalata Mista). Se la racconti in maniera superficiale, chi è che non è d’accordo con il concetto ultra semplificato del “sbagliando s’impara”? E però, quando lo vai a declinare nel più pericoloso significato intrinseco nell’acronimo stesso “FAFO”, capisci che c’è di più. C’è quella volontà di selezionare e poi addestrare una nuova classe di uomini forti, che non hanno paura di niente. Uomini duri, vecchio stile, non femminucce.
Insomma è un concetto tanto caro alla destra, soprattutto quella americana (l’acronimo arriva da lì), che già ha dato il natale a una nuova corrente di genitori “pronatalisti”, che non solo mettono al mondo una gran quantità di figli, ma li selezionano in base a caratteristiche precise che ne decreteranno il successo nella vita. Ideologia cara anche all’ex amico di merende di Trump, Elon Musk.
Di analogie con questa tecnica del racconto semplificato di certe ideologie, me ne verrebbero tante, da quella di raccontare il fenomeno dell’immigrazione come “invasione da parte di gente che viene qui per rubarci il lavoro” a quello dei sussidi di sostegno alla povertà come al “pagare i nullafacenti per stare sul divano a fare niente”. La semplificazione è sempre nemica della verità, perché sfrutta la brevità e la reazione di pancia per portare più gente possibile dalla propria parte. Ma la semplificazione non è semplicità. È voler buttare “in caciara” per fare in modo che non si capisca più niente e passi il messaggio più semplice e facile da capire.
Così, anche questa volta, sono sicuro che “sbagliando s’impara” diventerà facilmente quello che diceva Valditara, e cioè che “l’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”. D’altronde, è evidente come la scuola attuale creda più nel divieto e nell’imposizione che nella spiegazione. Toglie gli smartphone imponendone il non utilizzo come se poi, nel resto della giornata, gli stessi ragazzi non saranno liberi di utilizzarlo come e quanto vorranno.
Anziché assolvere al ruolo che dovrebbe avere la scuola — quello in cui si cresce e si impara il perché delle cose — la scuola diventerà il luogo del divieto. Là dove ci si aspettava che potesse essere insegnato il corretto uso, l’apprendimento del modo più giusto e responsabile di utilizzare questo strumento di cui tutti facciamo un uso compulsivo, arriverà invece soltanto un altro insegnamento, quello peggiore possibile, della negazione e del sequestro.
Il problema è che così non si educa, si addestra. Non si insegna a capire, si insegna ad aggirare la regola. E quando l’unico messaggio che passa è “non puoi”, quello che imparano davvero è solo a farlo di nascosto. Non è crescita, è teatro. Ma a forza di fingere, si finisce col crederci davvero. E intanto, mentre i ragazzi fanno (Fucking Around), nessuno gli spiega davvero perché. Così poi, quando ne dovranno pagare le conseguenze (Found Out), magari sarà troppo tardi.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
Lavorare in negozio mi ha fatto totalmente perdere fiducia nella classe degli insegnanti. Ogni anno arrivano frotte di insegnanti col loro bonus docente da 500€ a spenderlo in negozio sapendo a malapena come so accende uno smartphone. Ogni anno non sanno come fare un semplice accesso al portale e come generare un buono, il portale e la procedura è la stessa da ormai 6 anni ma ancora niente non riescono a imparare. La mia fiducia è a terra.
Aldilà di questa stucchevole tendenza di dare un'etichetta a qualsiasi cosa . Ora va di moda dire FAFO, in futuro cosa? Ritengo che gli ideali dietro al FAFO siano condivisibili. Educare applicando un eccessivo controllo convergente all'iper-protettività non solo è inutile ma diventa anche dannoso. In questo modo i figli si troveranno a fare determinate azioni, non perchè hanno veramente compreso il motivo, ma perchè gli viene loro imposto da genitori eccessivamente ossessionati dal controllo (ovviamente sto facendo un esempio estremo per rendere il mio pensiero più chiaro, ma ci siamo capiti).
Quando diventeranno adulti non avranno appreso internamente i giusti apprendimenti e quindi faranno più fatica.
Invece nel caso di lasciarli sbagliare autonomamente o citando Roussuau: "non si tratta di accompagnare dolcemente l’errore, ma di lasciarlo accadere senza intervenire", citazione che ho appreso grazie a questo articolo, i bambini e gli adulti del futuro acquisiranno internamente gli insegnamenti di cui hanno bisogno facendo meno fatica dei primi.