Cultura digitale? Produttività? Efficienza? No grazie, siamo italiani.
L’Italia è online ma non sufficientemente digitale: competenze minime, servizi non utilizzati e ritorno alla carta. Il rapporto "Cittadini e ICT 2024" di ISTAT è un pugno nello stomaco.
Il 28 aprile l’ISTAT ha pubblicato il rapporto “Cittadini e ICT 2024”, ovvero una fotografia sulla situazione di competenze e adozione del digitale in Italia. Credo che si tratti del primo anno in cui, colpevolmente, dedico la giusta attenzione a questi dati, da cui rimango francamente sorpreso.
Sorpreso perché, nonostante sia opinione comune che in Italia si faccia fatica a utilizzare i servizi digitali, la diffusione dei servizi digitali della pubblica amministrazione e una certa “digitalizzazione dei processi” in azienda, mi aveva illuso che la situazione non fosse così negativa. Invece lo è, eccome.
Il report mostra in apertura tre dati sintetici sull’uso di internet, soprattutto da parte dei più anziani. Quello che però davvero deve spaventare è la seconda parte del report, quello che parla sostanzialmente di competenze digitali e di adozione del digitale in ambiti che migliorano la vita di chiunque senza controindicazioni.
Parlo per esempio del richiedere un certificato o scaricare i risultati degli esami medici. È incredibile quanto sia ancora così bassa la percentuale di chi utilizza sistemi che potrebbero evitare una giornata persa, code da fare in piedi o spostamenti da una parte all’altra della città. E tutto questo non vale solo per gli adulti, ma anche per i più giovani. Segno che questo paese ha messo un’enorme ipoteca sul futuro e sull’uso delle tecnologie. Le cose, in altre parole, non potranno che peggiorare.
Usare la rete per la formazione
Il rapporto ISTAT sull’uso della rete da parte degli italiani è abbastanza desolante. Poca formazione, poco uso degli strumenti digitali messi a disposizione dalla pubblica amministrazione, persino poco shopping online (seppure in crescita), bensì tanto intrattenimento e social.
Sembra un po’ una conferma dei Pensieri Franchi di due settimane fa, ma in realtà non è altro che una conferma di quello che Google ci aveva già mostrato: gli italiani, con internet, fondamentalmente ci passano il tempo libero.
ISTAT dedica un intero paragrafo alla formazione online, sia formalizzata che non. Rispetto al 2023, il 2024 ha visto un magrissimo aumento percentuale (+1,1%) grazie alle fasce di età 25-34 anni e 45-54. Quello che però colpisce (e andrebbe sottolineato in rosso fuoco) è che la fascia di età 11-14 è in totale controtendenza con un -5,3% anno su anno.
Se vi stupite, non fatelo troppo, perché è proprio del 2024 il divieto firmato Valditara di utilizzare i dispositivi mobili a scuola anche a fini didattici. Il divieto è entrato in vigore nell’anno scolastico 2024-25 e pertanto è legittimo pensare che abbia influito su questa statistica che, tra le altre cose, contempla nelle attività formative anche quelle offline con l’ausilio di materiale digitale.
Non è un caso infatti che il 60% dei giovani tra i 11 e i 19 anni che utilizza la rete per scopi formativi, lo fa proprio per finalità scolastiche. Ecco che il cerchio si chiude.
Purtroppo, nel report di quest’anno, ISTAT non ha aggiornato il dato forse più interessante dell’anno passato: In Italia, nel 2023, il 45,7% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni aveva competenze digitali “almeno di base”. Percentuale che sale al 61,7%, sempre con competenze “almeno di base” nella fascia di età 20-24 anni.
Questo forse è il dato che più di tutti mi ha lasciato sbalordito, perché da ragazzi poco più che ventenni ci si aspetterebbe un livello di competenza un po’ più che “di base”. Ma che significa, nel dettaglio, “competenze almeno di base”?
Per stabilire e classificare le competenze digitali viene utilizzata una specie di protocollo chiamato DigiComp 2.1, che è il Quadro Europeo delle Competenze Digitali per i cittadini, e definisce 8 livelli di padronanza raggruppati in 3 macro-livelli: base, intermedio, avanzato. Si intendono “competenze di base” quelle di livello 1 e 2.
Sono andato ancora un po’ più a fondo e ho cercato esempi pratici di cosa significasse avere competenze che rispondessero ai livelli 1 e 2. Ebbene, significa questo:
Area Alfabetizzazione su informazioni e dati
Competenza: Navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali
Livello 1: Esempio pratico: so aprire un browser, andare su Google e cercare “orari autobus Torino”.
Capacità: utilizzo di motori di ricerca con parole chiave semplici.
Livello 2: Esempio pratico: so cercare informazioni affidabili confrontando più fonti (ad esempio siti istituzionali vs blog privati).
Capacità: inizio a valutare la qualità dell’informazione e scelgo fonti più attendibili.
Area Comunicazione e collaborazione
Competenza: Comunicare attraverso tecnologie digitali
Livello 1: Esempio pratico: so inviare un messaggio via WhatsApp o email a un amico.
Capacità: uso strumenti digitali di comunicazione base, senza impostazioni avanzate.
Livello 2: Esempio pratico: so allegare un file a un’email, aggiungere destinatari in copia conoscenza e usare un gruppo WhatsApp.
Capacità: uso funzioni leggermente più complesse della comunicazione digitale.
Area Risoluzione di problemi
Competenza: Risolvere problemi tecnici
Livello 1: Esempio pratico: se il Wi-Fi non va, spengo e riaccendo il router.
Capacità: applico soluzioni base a problemi semplici e frequenti.
Livello 2: Esempio pratico: se il computer non si connette a Internet, controllo le impostazioni di rete o provo un altro browser.
Capacità: inizio a esplorare soluzioni e strategie più strutturate per risolvere problemi digitali comuni.
Da tutto questo devo, ahimè, dedurne questo: più di un ragazzo su tre con età compresa tra i 20 e i 24 anni non sa spegnere e riaccendere un router quando internet non va; non sa allegare un documento a un’email, non sa usare un gruppo WhatsApp (che ormai è evidentemente uno standard, tanto da rientrare ufficialmente nelle competenze digitali, prendiamone atto) e non sa cercare gli orari degli autobus su Google. Fantastico, forse questo è il mondo che sogna il Ministro Valditara. A me, sinceramente, fa decisamente paura.
Usare la rete per utilità
Ancora più stupefacente però è la scarsa adozione di internet quando potrebbe darci un vantaggio pratico evidente, tangibile. Non so a voi, ma io preferisco mille volte, forse milioni di volte, aprire la posta e mandare una PEC (posta elettronica certificata, non diamo per scontato niente a questo punto) piuttosto che scrivere una lettera, stamparla, firmarla, andare in posta e spedire una raccomandata aspettando poi giorni per la conferma di ricezione.
Ebbene, nonostante ciò — preparatevi a una serie di numeri in picchiata — secondo ISTAT, nel 2024 soltanto il 13% dichiara di aver utilizzato un sito web della pubblica amministrazione per richiedere certificati o documenti, l’11,6% di aver utilizzato internet per fare l’iscrizione alla scuola o all’università, il 9,8% ha compilato o modificato o approvato la propria dichiarazione dei redditi tramite siti web o app e il 9% ha richiesto prestazioni di previdenza sociale (per esempio pensioni o assegno unico).
Insomma, mediamente i siti della PA sono utilizzati da un italiano su dieci. D’accordo che spesso (ma non sempre, bisogna essere onesti) questi siti sono di difficile consultazione, ma al netto di questo, quanto è più semplice navigare un sito da casa che affrontare la complicazione — quella si certa al 100% — degli uffici pubblici?
Ancora più deprimente è il costatare come alcuni utilizzi specifici della rete siano addirittura in calo drastico, quasi a doppia cifra. Un calo giustificato dal fatto che durante la pandemia si è stati costretti a usare siti web e app massicciamente. Ecco, se una cosa buona poteva effettivamente rimanerci in eredità dalla pandemia (due, con l’uso delle mascherine quando si è malati), abbiamo volutamente deciso di farne a meno e tornare alle buone vecchie abitudini: uffici, code, carta, penna e timbri.
Cala infatti drasticamente l’uso dei siti web per la stampa o il download di moduli ufficiali (-9,6%) o per prendere appuntamento (-8%) rispetto al 2023, dove pure la percentuale non era da strapparsi i capelli (33,3% nel primo caso e 31% nel secondo).
Se fin qui abbiamo visto l’utilizzo pratico dei siti web della pubblica amministrazione, come va invece con la consultazione delle informazioni? Andrà meglio? Un pochino, ma non troppo. Hanno cercato informazioni di vario genere (ad esempio su servizi, diritti, leggi, orari, ecc.) il 29,1% degli utenti di internet dai 14 anni in su, con un +1,3% rispetto al 2023. Il 25,3%, quindi uno su quattro, ha utilizzato i siti web della PA per consultare informazioni personali (salute, multe, pensioni, ecc.). Il 13,1% invece utilizza le banche dati o i registri pubblici della PA, con un incoraggiante (si fa per dire) aumento dello 0,7% rispetto al 2023.
Allora, per cosa la utilizziamo internet?
A questo punto, sorge una domanda marzullianamente spontanea: ma allora, gli italiani, cosa ci fanno con internet? In parte ho dato la mia risposta nei Pensieri Franchi di un paio di settimane fa, analizzando le ricerche più frequenti su Google. Non ero andato molto distante dalla realtà, visto che anche ISTAT certifica una situazione pressoché analoga.
Al primo posto assoluto ci sono infatti i servizi di messaggistica istantanea con il 73,4%. Per noi, internet è WhatsApp, ecco. Al secondo posto, che novità, sono le chiamate e le videochiamate, con il 66%; poi le email (menomale) con il 62%, guardare video sulle piattaforme nel 57,4% dei casi, ascoltare musica nel 49,4%, cercare informazioni sui prodotti nel 48,2% e poi social nel 47,9%, cercare informazioni sulla salute nel 46% dei casi e usare servizi bancari nel 44,3%.
Visto che impegnato nella ricerca di prodotto online c’è il 48% degli italiani che utilizzano internet, mi sembra utile citare il dato sugli acquisti online, che si direbbero essere ormai arrivati a una fase di maturità anche in Italia. Invece non è così, perché sebbene l’ecommerce sia costantemente in crescita anno su anno, siamo fermi a un’adozione inferiore alla media europea.
Secondo ISTAT, nel 2024 il 46,8% delle persone di 14 anni o più ha dichiarato di aver acquistato o ordinato merci o servizi per uso privato nel corso dell’anno. Tra questi, sono più propensi a comprare online gli uomini (50,5% negli ultimi 12 mesi contro il 43,3% delle donne), i residenti nel Centro-nord (50,0% rispetto al 38,4% del Meridione) e i giovani tra i 20 e i 24 anni (73,5%).
La stessa statistica di Eurostat mette in evidenza come l’Italia sia in coda ai paesi europei da questo punto di vista, più o meno in linea con la Romania e appena sopra la Bulgaria, che è ultima in classifica. La statistica di Eurostat parla di un 60% di italiani che comprano su internet, un dato differente rispetto a quello riportato da ISTAT probabilmente per via del campione differente preso in esame.
Un paese ancorato al passato non può essere competitivo
Quando si parla delle zavorre che tengono l’Italia costantemente ancorata a una crescita economica da elettro cardiogramma piatto, si cita spesso la produttività, un parametro difficile da leggere e da comprendere e che pertanto si fa fatica anche a capire come potrebbe essere stimolata (difficile per noi cittadini, dovrebbe esserlo un po’ meno per la classe dirigente ma, ahimè, che velo dico a fare?).
La produttività in realtà è qualcosa di molto, molto pratico. È, in soldoni, la misura dell’efficienza con cui vengono utilizzate le risorse per produrre beni e servizi e si calcola molto facilmente mettendo in rapporto l’output (quello che un azienda produce) con gli input (dipendenti, macchine, ecc.). Matematicamente si tratta di dividere il “valore aggiunto” per il “numero di ore lavorate”.
In Italia, il valore della produttività è, ancora una volta, rilevato da ISTAT. Si tratta pertanto di qualcosa di molto concreto. Se producete e vendere candele di cera, ad esempio, e per farne una impiegate 8 ore o 2, cambia tutto. Cambia il costo di quel prodotto, cambia il numero che dovrete produrre e venderne per poter sopravvivere.
La produttività, quindi, è un parametro che determina non soltanto la possibilità che un’impresa sopravviva o meno, ma anche di come quella stessa impresa sarà competitiva rispetto ad altre imprese dello stesso tipo nello stesso paese o in altri.
Nel 2022 ISTAT ha registrato un calo percentuale significativo della produttività italiana, scesa dello 0,7% (tra il 2014 e il 2022 era aumentata in media dello 0,5%) per effetto di un aumento delle ore lavorate maggiore dell’incremento del valore aggiunto. In pratica si è lavorato di più per ottenere un risultato proporzionalmente inferiore sul valore aggiunto.
Non so voi, ma non riesco a non mettere in correlazione le due cose: se nella vita privata non cogliamo l’opportunità di usare lo strumento digitale per risparmiare tempo e fatica (e ottenere un risultato migliore), come possiamo pensare che sul lavoro si abbia un atteggiamento diverso? Tutto questo si traduce non soltanto in un’arretratezza tecnologica sulla quale uno, a un certo punto, potrebbe pure dire un bel “chissenefrega”; no, tutto questo si ripercuote invece molto praticamente nella competitività di un paese, il nostro, che rischia davvero di rimanere nella preistoria industriale.
Se è vero che un treno importantissimo — quello dell’intelligenza artificiale — è passato senza nemmeno che lo vedessimo (altro che prenderlo, stavolta in stazione non ci siamo proprio andati), è sull’uso quotidiano delle tecnologie che dobbiamo darci una mossa, sia sul lavoro che nella vita privata.
Tutto questo sa moltissimo di quel vecchio motto per cui “squadra che vince non si cambia”. Del morbo del “si è sempre fatto così” che condanna le aziende a lavorare come si faceva cinquant’anni fa, dimenticandosi del fatto che là fuori c’è un mondo che invece galoppa sull’uso di strumenti che possono far risparmiare dipendenti — che piaccia o meno la cosa — e che quindi gira drasticamente la manopola del rapporto tra ore lavorate e valore aggiunto verso il segno più, facendo salire il valore della produttività a percentuali che, in Italia, possiamo soltanto fantasticare nei nostri sogni proibiti.

Diamo due numeri? Se abbiamo detto che la produttività si calcola come rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate, è chiaro come questo parametro si possa esprimere come “valore economico prodotto in un’ora di lavoro”. La produttività italiana si attesta quindi sui 54,47$ l’ora, mentre sono 67 in Francia, 82 in Svizzera, 100 in Norvegia e 125 in Irlanda. In Irlanda, per farla breve, un’ora lavorata rende più del doppio che in Italia.
Se uno volesse fare un puro esercizio matematico (per farsi girare la testa, d’accordo), potrebbe immaginare che con una produttività analoga all’Irlanda l’Italia potrebbe raddoppiare il PIL e vivere praticamente su Marte, ma volendosi fare un bagno di realtà, bisogna anche riportare tutto alle diverse realtà produttive.
In Irlanda infatti si producono in larga parte servizi, anche per via della massiccia presenza di multinazionali tecnologiche, per le quali è molto più facile creare valore economico che non producendo beni materiali come si fa in Italia. Per fare un esempio: se alzi i costi delle piattaforme pubblicitarie digitali, otterrai un incremento consistente del valore aggiunto nella stessa ora lavorata. Fare lo stesso quando si parla di manifattura non è altrettanto semplice, a meno di non stravolgere in maniera drasticamente più efficiente un processo produttivo. E in ogni caso, sarà difficile ottenere percentuali di miglioramento rapportabili a quelle che si possono ottenere sui servizi.
Detto questo, si fare certamente di più. Molto di più, se si guarda ad esempio alla Germania, che è un paese in cui la produzione di beni materiali è comparabile a quella italiana. Per loro un’ora di lavoro rende 68$, che è il 26% in più rispetto all’Italia (e infatti nel 2023 la manifattura tedesca ha inciso per il 18% sul PIL tedesco, mentre in Italia il 15%).
ISTAT ci sta dicendo, in parole semplici, una cosa che in fondo sapevamo già, ma della quale in fondo non ci curiamo: in Italia vince la stasi, l’inerzia, l’indolenza, il lasciare tutto così com’è, sempre uguale a prima, sempre immutabile. Una visione del lavoro forse un po’ romantica, ma terribilmente preoccupante perché, se è vero che sono diversi ancora i settori dove possiamo produrre un bene unico nel suo genere (pensiamo alla moda, all’enogastronomia, ecc.), il mercato ci insegna che potrebbe non essere così per sempre.
Basti prendere il mercato dell’automobile, ad esempio, che sta per essere completamente spazzato via non solo dalla trasformazione in elettrico, ma soprattutto dall’arrivo di competitor nuovi, agguerriti e tremendamente veloci, come gli asiatici. Ci vuole un attimo che un’eccellenza produttiva venga relegata nell’angolino buio del dimenticatoio in seguito a una trasformazione tecnologica inaspettata e repentina.
Chi poteva immaginare lo scossone violento che l’intelligenza artificiale avrebbe dato al mercato del lavoro soltanto 3 anni fa? Quindi ok, magari “squadra che vince non si cambia”, ma uno sguardo alle nuove leve per vedere se ci sono promesse da poter tenere in panchina io lo darei. Visto mai che domani il gioco cambi del tutto e allora la squadra che fino ad allora ha vinto, potrebbe non vincerne più nemmeno una partita.
» COSE MOLTO UTILINK: Quando gli estremismi convergono
Suggerisco un articolo molto interessante di questo nuovo magazine che, colpevolmente, ho scoperto solo ora. La testata si chiama “Ossigeno” e l’articolo “Essere atei quando muore un Papa”. Molto interessante, sia che siate atei (come il sottoscritto), sia che siate dei fedeli.
» PENSIERI FRANCHI: I ChatBot ci stanno suggerendo che forse non sappiamo parlare
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale. O meglio, i miei pensieri in libertà.
Per ottenere ciò che si vuole da una chat basata su intelligenza artificiale bisogna scrivere un buon prompt. In altre parole, bisogna saper porre bene la domanda, perché se non si è capaci di essere estremamente chiari e circostanziali, il sistema non ci capisce e non ci darà una risposta soddisfacente.
In altre parole, in buona parte, la qualità del risultato di questi enormi modelli di linguaggio è data dalla qualità della nostra domanda. Se la poniamo male, se non forniamo i giusti dettagli e il giusto contesto, il risultato non sarà mai soddisfacente. Questo è anche il motivo per cui, nel tempo, è nata anche una figura specifica che si occupa di questo, di porre le domande nel modo corretto: il prompt manager o l’ingegnere di prompt.
Se seguite i consigli di questi esperti però vi renderete conto di una cosa molto particolare, cioè che per scrivere un prompt corretto non serve conoscere alcun segreto. Al contrario, bisogna semplicemente porre la domanda in maniera chiara e corretta. Mi è sorto allora un sospetto, anzi ci è sorto, visto che questo pensiero franco nasce da una conversazione sull’argomento con l’amico Massimiliano di Marco che pure mi faceva notare di quanto, per funzionare bene, queste chat hanno bisogno semplicemente che si sappia esprimere in maniera chiara un concetto, abilità che forse abbiamo perso da tempo.
Mi sono tornate in mente di colpo tutte le volte in cui mi è piombato addosso un collega con una questione che ha richiesto due, tre o addirittura quattro rielaborazioni (e altrettante domande da parte mia) per diventare chiara e comprensibile. Un quarto d’ora abbondante, in media, per poter decodificare la richiesta di un essere umano verso un altro, entrambi che lavorano nello stesso contesto e che dunque dovrebbero parlare la stessa lingua. Recentemente mi sono chiesto cosa avrebbe prodotto un ChatGPT o un Google Gemini con un prompt formulato così come il mio collega aveva posto la domanda. Di sicuro avrebbe dato una risposta completamente fuori luogo, ma a chi sarebbe stato imputabile l’errore?
Un altro caso molto frequente sono le email, di nuovo quelle di lavoro, ma in effetti anche non di lavoro. Email che non rispondono a una domanda, che rispondono in parte o che rispondono a una domanda sì, a un’altra no. Quelle email che sono così incomprensibili nella richiesta o troppo vaghe da richiedere una telefonata chiarificatrice ci devono far pensare a una cosa sola: non siamo più capaci di esprimerci, di porre una domanda, di fare una richiesta, di dare una risposta in maniera chiara e sintetica.
Ah, la sintesi, questa altra dote rarissima e sconosciuta! Per carità, chi vi scrive non riesce mai a stare nei 20.000 caratteri quando scrive la newsletter del lunedì, dovrei essere l’ultimo a parlarne, ma in effetti la sintesi è ben altro. Il dono della sintesi ce l’ha colui il quale non si perde in giri inutili quando deve chiedere o spiegare qualcosa e Gemini, soprattutto l’integrazione che Google ne ha fatto all’interno di Gmail, è la più grande cartina di tornasole per evidenziare in quante parole inutili e poco chiare ci perdiamo ogni giorno.
Provate a prendere qualsiasi email riceviate e chiedete a Gemini di riassumerne il senso. Accadranno due cose: la prima è che mediamente un’email di diverse righe o addirittura paragrafi diventerà una sola riga, al massimo una manciata di periodi. La seconda è che il contenuto sarà anche estremamente più chiaro. E questo esercizio si può fare anche al contrario: provate a scrivere una risposta a una richiesta, la più chiara e articolata possibile. Poi chiedete a Gemini di riassumerla per voi e cosa scoprirete? Lo stesso: potevate fare la stessa cosa con molte meno parole, in molto meno tempo e mandando un’email più chiara e formalmente corretta.
Cosa ci dice tutto questo? Che non siamo capaci a esprimerci, a parlare, a scrivere, a rapportarci. Forse perché abbiamo trascurato la forma per troppo tempo, focalizzandoci troppo e soltanto sul contenuto. E soprattutto dando per scontato che in fondo, dall’altra parte ci avrebbero capiti. È un po’ come quando parli una lingua straniera e non arrivi mai a padroneggiarla perfettamente perché dai per scontato che tanto il tuo interlocutore ti capirà e quindi va bene così, andare oltre sarebbe fatica sprecata. Sì, forse. Però, se andiamo avanti così, alla lunga torneremo a esprimerci a gesti. E soprattutto questi modelli di linguaggio non ci capiranno più e ci daranno risposte totalmente sconclusionate che giudicheremo sbagliate.
Oppure, prospettiva ancora peggiore, impareranno a capirci pure col nostro modo contorto e scorretto di esprimerci e allora sì che sarà un problema, perché significherà che le macchine avranno imparato a esprimersi molto meglio di quanto saprà fare chi le ha create.
Franco A.
» SFAMA LA FOMO!
Cos’è la F.O.M.O.?1
Xbox Series X ora costa 600 euro: aumenti globali per console, giochi e accessori
Microsoft ha annunciato un aumento dei prezzi per le sue console Xbox in tutto il mondo. In Europa, Xbox Series X passa da 549 a 599 euro, mentre la Series S arriva a 349 euro (512 GB) o 399 euro (1 TB). Aumenti anche per gli accessori: il controller standard costa ora 64,99 euro, mentre l’Elite parte da 149,99 euro. La decisione è legata, secondo Microsoft, a “condizioni di mercato e all’aumento dei costi di sviluppo”. Anche i giochi subiranno rincari: negli Stati Uniti, il prezzo dei nuovi titoli salirà a 80 dollari. Una scelta che segue una mossa analoga già compiuta da Sony con la PS5.
Fonte: DDay.it
Nvidia al Congresso USA: “Huawei diventerà un rivale di primo livello nei chip per l’IA”
Jensen Huang, CEO di Nvidia, ha avvertito i legislatori statunitensi che le restrizioni alle esportazioni di chip verso la Cina stanno indirettamente favorendo Huawei. Il colosso cinese, ha spiegato Huang in un incontro con la Commissione per gli Affari Esteri, potrebbe presto competere direttamente con Nvidia grazie allo sviluppo di chip ottimizzati per l’IA, specie se supportati da modelli open-source come DeepSeek R1. Con il blocco del chip H20, progettato per il mercato cinese, Nvidia rischia di lasciare spazio a rivali locali proprio in un settore strategico per la leadership tecnologica USA.
Fonte: DDay.it
Nuovo caso di spyware contro un giornalista italiano: colpito Ciro Pellegrino di Fanpage
Apple ha notificato al capo della cronaca di Napoli di Fanpage, Ciro Pellegrino, che il suo iPhone è stato preso di mira da uno spyware mercenario, simile a Pegasus. È il secondo caso in pochi mesi: a gennaio, il direttore Francesco Cancellato era stato spiato via WhatsApp con il software Graphite. Apple invita a prendere molto sul serio l’avviso, riservato a casi mirati e sofisticati.
Fonte: DDay.it
Tesla, reputazione in calo: è l’unico brand elettrico con saldo negativo negli USA
Secondo un sondaggio dell’Electric Vehicle Intelligence Report su 8.000 consumatori americani, Tesla è l’unico marchio elettrico con più opinioni negative (39%) che positive (32%), chiudendo con un saldo di -7%. Le cause? Le controversie legate a Elon Musk e la percezione negativa anche sulle wallbox domestiche. L’unico punto di forza resta la rete Supercharger.
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Un italiano su tre è pronto a comprare un’auto elettrica cinese
Secondo McKinsey, il 33% degli italiani considera l’acquisto di un’auto elettrica cinese, sopra la media europea del 27%. Attraggono prezzo competitivo e tecnologia, specie tra i giovani. Restano però forti ostacoli: autonomia limitata, infrastrutture carenti (solo il 4% le ritiene adeguate) e differenze di prezzo con le auto tradizionali.
Fonte: insideevs.it
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Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Dovresti adeguarti anche tu a questi dati e farci recapitare l'insalata mista imbustata nella cassetta delle lettere!
Vuoi mettere sfogliare l'insalata dopo un po' di small talk col postino, borbottare sullo stato del nostro Paese e poi andarsene alle Poste per socializzare con gli altri in fila?
Buongiorno Franco.
Leggendo la tua newsletter di questa mattina mi è venuto istantaneamente in mente l'esprimento fatto sui topi nel 1968, "Universo 25" in cui uno scienziato creò una "città utopica" per i topi costruita per le loro esigenze, in cui avevano lo spazio per i loro nidi, cibo e acqua in abbondanza, e nessun nemico naturale, una specie di villaggio vacanze insomma.
Inizialmente entrarono 4 coppie di topi, ogni 3 mesi la popolazione raddoppiava, dopo un anno e mezzo raggiunse il massimo di 2200 unità, ma poi le cose iniziarono a cambiare.
Smisero di riprodursi, cominciariono ad avere comportamenti violenti, divennero privi di stimoli sessuali e apatici.
Dopo 5 anni l'intera popolazione si estinse.
A me ricorda molto l'Italia.
Grazie e buona giornata
Ivano Bosello