No, la tecnologia non sta rovinando i giovani
I risultati di un nuovo, imponente e accreditato studio scientifico dicono che non c'è relazione tra l'uso delle tecnologie e i problemi che hanno le giovani generazioni. Ma dice anche molto altro.
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Una premessa importante: questa newsletter settimanale nasce, cresce e si concretizza nel giro di qualche ora, rubata al mio tempo libero e alla mia famiglia. A volte capita che abbia il tempo di rileggere tutto a distanza di giorni, altre volte non ho nemmeno il tempo di riguardarla. Se trovi degli errori, piccoli o grandi che siano, porta pazienza. Magari segnalameli, te ne sarò grato.
» PENSIERI FRANCHI: A forza di parlare, si finisce per crederci
→ “Pensieri Franchi” è il mio editoriale, i miei pensieri in libertà. Se stai cercando l’approfondimento che dà il titolo a questa Insalata, prosegui un po’ più in giù.
La scorsa settimana, OpenAI ha tenuto uno di quei keynote che tanto piacciono alle società americane. Prima di arrivare al dunque, è giusto fare un po’ di contesto: OpenAI è la società che ha creato ChatGPT, utilissimo strumento ormai noto ai più, che utilizza un modello di linguaggio chiamato GPT, arrivato ora alla versione 4o. Non quaranta, proprio 4o (lettera).
ChatGPT, per chi non l’avesse mai utilizzata, è una chat, con la quale si può dialogare come se dall’altra parte ci fosse un essere umano, ma invece c’è solo una quantità infinita di server, che a loro volta contengono le GPU (Graphic Processing Unit) di NVIDIA, società che non a caso è diventata la terza al mondo per capitalizzazione con 2,27 mila miliardi di dollari.
ChatGPT è in sostanza un modello di linguaggio (Large Language Model in gergo tecnico) - ne abbiamo già parlato - che è, in sostanza, capace di imitare il linguaggio umano. Poi, incidentalmente, visto che è stata allenata su grandissime quantità di testi e contenuti, sa anche un sacco di cose. E infatti a ChatGPT potete chiedere praticamente di tutto e lei risponde sempre, anche se a volte si inventa le risposte (ma questo è un altro discorso).
Perché ne stiamo parlando ancora oggi? Perché la novità presentata la scorsa settimana è piuttosto pesante. Ora ChatGPT infatti potrà parlare. E voi direte: “e qual è la novità?”. Parlano già Alexa, Siri, etc. Certo, ma il problema è il come. ChatGPT è capace di autoapprendere e riprodurre già oggi il modo di parlare (scritto) dell’essere umano. Allo stesso modo, può ora riprodurre il parlato dell’essere umano e riprodurre praticamente qualsiasi accento e qualsiasi inflessione, emozione, intonazione.
Durante la presentazione - probabilmente preparata a tavolino, ma non aspettiamoci sia troppo distante dalla realtà - i tecnici di OpenAI hanno dialogato con ChatGPT chiedendole di assumere toni di volta in volta molto differenti, dallo scherzoso al drammatico. Dall’altra parte sembrava esserci un’attrice. E magari c’era per davvero, non diamo nulla per scontato, ma non è che possono aver barato troppo, perché questa cosa arriverà a breve sugli smartphone di ogni persona.
Ebbene, non voglio dilungarmi troppo, ma mi sono posto una domanda banale: cosa può succedere a un essere umano quando per anni avrà parlato con il proprio telefono, rivolgendosi a una persona che parla come un essere umano, che è capace di assumere toni entusiasti e drammatici, che è capace di scherzare, di ridere, di ascoltarti e di risponderti sempre nella maniera giusta?
Cosa succederà quando ci accorgeremo che per qualcuno quella sarà diventata la forma di ascolto che ha sempre desiderato, quella voce amica che sa dire sempre la parola confortante? Cosa succederà quando qualcuno penserà di utilizzarla al posto della poltrona del proprio analista, perché in fondo ChatGPT potrà imparare anche quello, magari in modo un po’ troppo standardizzato e meno professionale, ma magari più che sufficiente per qualcuno?
Una voce amica sempre disponibile, a qualsiasi ora del giorno e della notte, che ti sta ad ascoltare quanto tempo vuoi, che ti conosce probabilmente meglio di chiunque altro e che ha sempre la risposta giusta per te.
Forse non sarà l’intelligenza artificiale ad annientare l’umanità. Forse sarà invece l’umanità stessa ad affidarsi alle macchine per chiedere a queste ultime di fare quello che ormai noi uomini non sappiamo fare più così bene: essere umani, appunto.
Buona lettura.
Franco A.
» TROPPO FACILE DARE LA COLPA ALLA TECNOLOGIA
Come saprà chi mi legge da un po’, pongo molta attenzione sulla tematica dell’uso della tecnologia, dei social network e dei videogiochi da parte dei più giovani.
Ho due figli adolescenti e lavoro con la tecnologia, pertanto i miei figli sono molto esposti a tutto quello che ho citato. In casa mia c’è un vero museo di tecnologia e di videogiochi, pertanto mi sono chiesto molto spesso se stessi sbagliando e in qualche modo corrompendo la loro crescita.
Ho protestato più di una volta sia di persona, sia scrivendo Insalata Mista, contro chi faceva un unico pastone tra smartphone, videogiochi, social network e addirittura ludopatia (!!!), ma ho sempre tenuto altissima l’attenzione sulla letteratura scientifica in questo senso. Ho segnalato infatti un numero recente di Internazionale dove si riportava un articolo apparso su The Atlantic a firma Jonathan Haidt, a sua volta parte di un libro che suppone una relazione tra uso della tecnologia e depressione nei più giovani. Internazionale però, da rivista obiettiva quale è, ha pubblicato di fianco anche l’articolo di Candice L. Odgers, apparso sulla rivista super autorevole Nature, che evidenziava invece come la relazione tra depressione e uso della tecnologia fosse solo una supposizione senza basi scientifiche.
La novità arriva oggi da un articolo che ho trovato su Valigia Blu, altra testata indipendente, obiettiva e che vi consiglio caldamente di sostenere. Nell’articolo di Tiziana Metitieri, si parla in particolare dell’arrivo dei risultati di uno studio enorme, che ha riguardato milioni di persone di tutte le fasce di età condotto in 168 paesi. E non è il solito studio dell’università vattelappesca della California, no, è lo studio di due professori noti nella comunità scientifica per la loro integrità nelle ricerche e l’accesso aperto ai risultati. Lo studio, peraltro, è stato pubblicato dalla rivista “Technology, Mind, and Behavior” dell’American Psychological Association ed è stato ripreso da Nature, BBC e Guardian. Ne avete letto sulle testate italiane? No, infatti.
I toni apocalittici fanno sempre più notizia
Il fatto che la notizia dei risultati di questo studio non sia passata sulle testate nazionali significa principalmente due cose: la prima è che, fondamentalmente, della salute dei più giovani in italia importa poco. La seconda è che i titoli sensazionalistici e apocalittici, tipo “i social network trasformeranno i nostri giovani in zombie” funzionano sempre molto meglio che non pubblicare il risultato di uno studio scientifico che - attenzione - non solo dice il contrario, ma mette in evidenza una serie di altri problemi che sono molto più complicati da sviscerare.
Ed ecco dove sta il problema di fondo. Ho letto un commento piccato di una persona all’articolo di Valigia Blu da cui ho preso spunto per questa Insalata. Si diceva, in sostanza, che la volontà di scagionare la tecnologia e i social network è un modo per risolverla in maniera semplice senza prenderci le nostre responsabilità di adulti e genitori.
Accetto e capisco questo modo di leggere il problema perché è evidente che in qualche contesto è anche questo. Quando vediamo al ristorante i genitori abbandonare i figli poco più che infanti al tablet pur di non rompere le scatole, stiamo vedendo un po’ quello: un genitore che preferisce togliersi dalle scatole il figlio, piuttosto che combattere contro la difficoltà oggettiva di educarlo a gestire la noia di una cena tra adulti.
Ma nel contesto globale di una società (e di una scuola, non dimentichiamo il ruolo fondamentale che ha in tutto questo) che preferisce appiccare un rogo perché convinta di dover fare una nuova caccia alle streghe, la vera semplificazione è proprio la demonizzazione dell’intero insieme di tecnologia/smartphone/internet/social proponendo come unica soluzione il caro, vecchio divieto di utilizzo.
Fa persino sorridere il fatto che, dopo anni in cui avremmo dovuto imparare che nulla ha minor effetto sull’educazione di un adolescente come il divieto imposto, continuiamo a reiterare sempre la stessa soluzione, lo stesso errore senza mai porci la benché minima domanda sulla questione. Così come fa ancora più ridere che poi, tra chi sviluppa più dipendenza dagli smartphone e dai social network, siano proprio gli adulti, in maniera molto peggiore e violenta di quanto non facciano gli adolescenti, in quanto nativi digitali (seppure questo termine sia ritenuto avulso da diversi professionisti).
La strada più semplice dunque non è quella proposta da questi studi, che scientificamente vanno ad analizzare campioni enormi per capire se davvero c’è una relazione tra benessere mentale e uso della tecnologia. Piuttosto quella che, di fronte a un problema importante e complesso, sceglie la strada del divieto totale, piuttosto che indagare sulle ragioni complesse di un malessere adolescenziale.
Certo, è sicuramente più semplice risolvere i problemi di un ragazzo che sta affrontando un momento devastante come quello della crescita, magari complicato da una situazione sociale e scolastica difficile, soprattutto dopo aver attraversato una cosa enorme come la pandemia, dando la colpa allo smartphone, ai videogiochi e ai social network. Ecco si, quella è un’enorme semplificazione. Un bel divieto e la nostra coscienza da genitori/adulti/insegnanti è a posto. Ma il problema, signori miei, è ancora lì. Ce ne siamo solo liberati nella maniera più semplice e ipocrita possibile.
Cosa dice lo studio
Lo studio “A multiverse analysis of the associations between Internet use and well-being” è stato condotto da Matti Vuorre dell’Università di Tilburg in Olanda e Andrew K. Przybylski dell’Università di Oxford nel Regno Unito.
Lo studio si basa sui dati raccolti su circa 2,5 milioni di soggetti di età compresa tra i 15 e gli 89 anni, dal 2005 al 2022 in 168 diversi paesi. Qui c’è già una prima cosa da notare: questo studio, a differenza degli altri che prendono in considerazione soltanto il Nord America o l’occidente, prende invece in considerazione un bel pezzo di pianeta, mettendo a confronto paesi, culture e nazionalità molto differenti tra loro.
Gli autori hanno poi fatto riferimenti ai dati nazionali sull'adozione di Internet e dello smartphone nella popolazione e alle indagini nazionali sul benessere delle persone rilevati dall’istituto statunitense per le ricerche statistiche Gallup. Un altro particolare importante è il termine “multiverso” contenuto nel titolo. Il modello multiverso permette di stabilire se, cambiando le combinazioni e i pesi tra le variabili considerate, si ottengono risultati diversi. Si tratta quindi di uno studio cosiddetto “osservazionale”, che monitora l’andamento dei fenomeni e non di uno “causale”, che produce dei cambiamenti in alcuni fenomeni per rivelarne gli effetti.
Le conclusioni a cui sono arrivati gli scienziati, si possono sintetizzare in questa dichiarazione:«In tutti i paesi e per tutti i dati demografici, le persone che avevano accesso a Internet, accesso a uno smartphone o che utilizzavano attivamente Internet riportavano maggiori livelli di soddisfazione di vita, esperienze positive, senso di scopo e benessere fisico, comunitario e sociale, e livelli più bassi di esperienze negative».
Questo risultato si è dimostrato costante pressoché in tutti i paesi e in tutte le fasce di età, con una sola eccezione, rappresentata dalle donne di età compresa tra i 15 e i 24 anni che, se avevano usato Internet nell’ultima settimana, riferivano di essere meno soddisfatte del luogo in cui si trovano a vivere.
Dice Tiziana Metitieri, autrice del pezzo su Valigia Blu, che uno studio di questo genere, con caratteristiche trasversali alle fasce di età e paesi, non è in grado di rispondere a tutte le domande sui gruppi specifici. Per esempio il dato che riguarda questo gruppo, che andrebbe quindi approfondito con uno studio più verticale.
Scrive la Metitieri:«Si tratta di un risultato indicativo e da approfondire con studi dedicati e che potrebbe anche derivare dal fatto che non provando soddisfazione per la vita nella propria comunità, le donne giovani tendono a trascorrere più tempo online. Questa interpretazione rende chiara la bidirezionalità che possono avere i risultati di questi studi trasversali e non longitudinali: un maggiore utilizzo di Internet può associarsi a un aumentato benessere e viceversa oppure, in specifici sottogruppi, un minore benessere percepito nella comunità può portare a stare di più su Internet».
I social network fanno male alla salute degli adolescenti?
Nel complesso mondo della tecnologia, ci sono due argomenti che suscitano un’attrazione particolare da parte di adulti ed educatori: i social media e i videogiochi. Si tratta di due strumenti facilmente demonizzabili e dunque da utilizzare alla bisogna come soluzione a tutti i mali. Vai male a scuola? Sarà colpa dei social media. Hai problemi con gli amici? Per forza, stai sempre a giocare con lo smartphone. Devi uscire a giocare all’aria aperta.
Di nuovo, il divieto semplice, ottuso e superficiale, come risposta a problemi complessi, acuiti da una società che porta ancora addosso una ferita profonda e forse inguaribile come quella della pandemia e che non ha le risposte alle domande che ci vengono fatte da chi si affaccia a un mondo così complesso.
Per fortuna c’è la scienza a dirci come la variabile del tempo trascorso sui social media sia completamente insufficiente per essere messa in relazione ai problemi degli adolescenti. Abbiamo ipotizzato che ci fosse un rapporto tra il tempo trascorso sui social network e lo stato di benessere dei ragazzi come se si trattasse di una dose giornaliera di qualche droga. Nessuno nega che ci sia una relazione tra l’uso degli smartphone e la produzione di dopamina e dunque con un certo senso di soddisfazione, ne ho parlato io stesso, ma quante attività provocano lo stesso effetto senza per questo essere trattate come il male assoluto o la droga del nuovo millennio?
Giocare a calcio non crea forse lo stesso stato di soddisfazione ed esaltazione? Forse lo fa molto di più, eppure nessuno penserebbe mai di vietare ai propri figli di giocare a calcio. Oppure di fare un’altra attività all’apparenza più nobile, come studiare il pianoforte. Chi mai parlerebbe di dipendenza e di problemi relazionali riferendosi a un adolescente che passa i pomeriggi chiuso in camera a studiare il pianoforte?
Scrive ancora la Metitieri:«Continuare su questa linea non va a vantaggio della conoscenza scientifica e delle raccomandazioni generali a gruppi vulnerabili (sulle modalità d'uso, sulla progettazione, ecc.). Diventa sempre più chiaro che raccomandare di vietare l'uso è ingenuo e controproducente, così come è azzardato parlare di "dipendenza" e "assuefazione", soprattutto per chi fa ricerca e clinica e sarebbe tenuto a una comunicazione responsabile. Se vogliamo osservare con onestà intellettuale la complessità delle vite e dei fenomeni nello spazio digitale è tempo di superare le impostazioni riduzionistiche e tecnodeterministiche dominanti».
Il concetto di affordance e una conclusione illuminante quanto banale
C’è un altro studio che mette sul piatto un altro concetto importante, che è quello delle affordance. È un concetto complesso eppure estremamente significativo. Viene citato nell’articolo“Mechanisms linking social media use to adolescent mental health vulnerability” a firma Amy Orben, Adrian Meier, Tim Dalgleish e Sarah-Jayne Blakemore.
Nell’articolo pubblicato sulla rivista Nature Reviews Psychology, vengono definitivi i tre livelli di studio dell'adolescenza nell'ambito delle scienze dello sviluppo, ovvero neurobiologico, cognitivo e comportamentale.
Si scrive nell’articolo:«Le caratteristiche dei social media sono componenti della tecnologia progettate intenzionalmente per consentire agli utenti di eseguire specifiche azioni, come mettere mi piace, ripubblicare o condividere una storia. Al contrario, le affordance [funzionalità intuitive] descrivono la percezione delle possibilità di azione che gli utenti hanno quando interagiscono con i social media e le loro caratteristiche, come l’anonimato (la difficoltà con cui gli utenti dei social media riescono a identificare la fonte di un messaggio) e la quantificabilità (quanto siano numerabili le informazioni)».
Capite la differenza? Un conto è quello che l’utente più fare in un social network, in base alle funzioni che l’applicazione offre, quindi mettere like o condividere. Un altro conto è la percezione che l’utente ha di quello che può fare con un social network, come la possibilità di rimanere anonimo o al contrario di ottenere visibilità.
Dallo studio di questi meccanismi, gli autori dell’articolo arrivano a una conclusione che è illuminante quanto drammaticamente banale:«È probabile che lo stato di salute mentale influenzi l’uso dei social media creando cicli di comportamento rinforzanti, qualcosa che è stato trattato nella letteratura delle scienze della comunicazione come 'effetto transazionale dei media'», scrivono Orben e colleghi. «Giovani con disturbi d'ansia o alimentari tendono a fare più confronti sociali rispetto a individui senza questi disturbi", "Adolescenti con depressione riportano confronti sociali più sfavorevoli sui social media rispetto a adolescenti senza depressione».
Scrive ancora Valigia Blu:«Nella ricerca di determinati feedback sociali (positivi o negativi) o nei contenuti condivisi (positivi o negativi) sui social, pertanto, incidono i tratti o gli stati individuali e quei feedback vanno poi a rinforzare i vissuti di quel momento (abbassando l'umore o aumentandolo, abbassando l'autostima o aumentandola)».
Capite dunque il punto? È lo stato di partenza dell’utente a “leggere” un particolare feedback dei social network: se non hai nessun problema ne uscirai con una sensazione di benessere maggiore, mentre se parti da uno stato di depressione o di cattivo umore, tenderai a cercare di più il confronto sociale e a leggerlo in maniera sfavorevole, andando a scatenare un meccanismo di rinforzo che peggiorerà la situazione.
Dunque non è lo strumento tecnologico in sé a causare una reazione, ma lo stato di partenza. Poi, questo non si può mettere in discussione, lo strumento tecnologico può ampliare questo stato. Così come lo potrebbe fare un altro contesto sociale, però, come la scuola. Immaginate di entrare in classe in uno stato di scarsa autostima e depressione e di essere deriso o bullizzato dai compagni. Non funziona anche questo come un rinforzo negativo?
Siamo arrivati quindi a un dunque, risolutivo quanto banale, e cioè che è fondamentale cambiare il paradigma con cui studiamo questi fenomeni. Gli studi devono focalizzarsi di più sull’individuo che utilizza i social network e non sul tempo che ci passa.
I problemi in un adolescente che sceglie l’interazione digitale piuttosto che quella fisica possono essere molteplici, ma quasi sempre hanno cause diverse. D’altronde lo dice anche Jonathan Haidt, autore dell’articolo apparso su Internazionale che ho citato all’inizio, ovvero quello che crea un legame tra depressione e uso delle tecnologie. Lui stesso scrive:«L’intrusione degli smartphone e dei social network non è l’unico fattore ad aver modificato la vita infantile. C’è un retroscena importante, che comincia già negli anni ottanta, quando abbiamo cominciato a privare sistematicamente i bambini e gli adolescenti della libertà, del gioco senza supervisione, delle responsabilità e delle possibilità di correre rischi, che favoriscono la competenza, la maturità e la salute mentale».
Ecco, dunque, dove sta la vera difficoltà di base, la vera complessità: prendersi e proprie responsabilità di adulti e genitori, lasciare andare i nostri figli, accettare il rischio e la casualità e dunque permettergli di crescere, senza cercare di volta in volta demoni a cui attribuire le colpe che sono, in fondo, soltanto nostre. Una volta era la TV, poi sono arrivati i videogiochi, oggi smartphone e social network. Nulla di tutto ciò è probabilmente responsabile dei problemi dei più giovani, così come a niente serviranno i divieti. Semplicemente, bisognerà che ci si rimetta a fare i genitori come hanno fatto i nostri, con un po’ più di sana incoscienza e una minore inclinazione al controllo e alla privazione della libertà, nascosta sotto le false spoglie della protezione.
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Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
La F.O.M.O., un acronimo che sta per Fear Of Missing Out, è la deriva moderna del tam tam dei social network unita all’enorme disponibilità di strumenti di informazione e di intrattenimento. In pratica, è la paura di perdersi qualcosa e di non essere sempre al passo con i tempi. Con questa rubrica rispondiamo a queste paure, riassumendo in breve le notizie più significative della settimana, pescate dal mondo della tecnologia, dell’entertainment e del lifestyle.
Sempre sul pezzo, Franco. Nell'ultimo anno da rappresentante di classe, troppe volte ho ricordato ai genitori di lasciare tranquilli i ragazzi, che controllarli meno fa bene a noi ma meglio a loro. E tutte le volte a lamentarsi perché non possono dare il cellulare in gita così da sapere dove si trovino i propri figli, e che hanno il diritto di sapere cosa facciano. A volte perdo la voglia di continuare ma lo faccio per i ragazzi. Condividerò questo articolo sul gruppo, così mi farò odiare ancora di più 😁