Il social detox funziona davvero? Forse no, ecco perché
Il social detox è davvero la cura al tecnostress o solo un’illusione? Tra studi, adolescenti ribelli e adulti in crisi, ecco cosa dicono le ricerche.
Sento sempre più spesso di gente che decide di uscire dai social network. A volte soltanto da uno, più spesso da tutti quanti. Io la chiamo "desocializzazione", ma esiste un termine specifico per la volontà di allontanarsi dai social network (figuriamoci se in America non coniavano un termine o un acronimo anche per questo). Si chiama social detox e nasce in risposta al tecnostress, all'ansia da notifica, da risposta, da costrizione alla presenza online a tutti i costi tutti i giorni, in tutte le ore.
E così, mentre siamo ancora qui a fare discorsi sulla dipendenza da smartphone, da internet e dai social network e a pontificare su quanto la sensazione di piacere provocata dalla dopamina renda schiavi dei social, in realtà in moltissimi stanno reagendo cercando strade alternative per allontanarsene. Tra questi - lo vedremo poi nei paragrafi successivi - ci sono anche moltissimi adolescenti. Il che è paradossale: mentre siamo qui a lanciare l'emergenza dipendenza da smartphone, gli adolescenti stanno autonomamente cercando soluzioni, riuscendoci.
Alla fine ne viene fuori che gli unici a essere realmente vittime di questi dispositivi siamo solo ed esclusivamente noi adulti. E siamo anche quelli che trasformano tutto questo in odio e frustrazione, con commenti e altre bestialità. Lo vediamo proprio in questi giorni con la chiusura di siti e gruppi Facebook dedicati al revenge porn e alla diffusione criminale di contenuti privati.
Tutto questo ricalca anche quello che accadde qualche generazione fa. Con la mia generazione, ad esempio, quella degli attuali quarantenni e la TV. I nostri genitori avevano l'ossessione per la TV e il livello di caccia alle streghe che scatenarono era su per giù sovrapponibile a quello che oggi gli adulti (che sono la stessa generazione tormentata per l'uso eccessivo della TV) fanno contro lo smartphone. Solo che anche noi, all'epoca, eravamo già capaci di allontanarci dalla TV e coltivare altri interessi. Per esempio i videogiochi o altre forme di intrattenimento. Per noi la TV era più un monitor, uno schermo su cui visualizzare altre cose.
Chi invece era realmente schiavo della TV e lo vedeva come un totem al quale inginocchiarsi con un rituale sacro che si ripeteva ogni sera, dopo cena, stravaccati su un divano o su una poltrona, era proprio la generazione dei genitori di allora, ovvero quelli che gridavano al pericolo "dipendenza da tv". Come non ricordare la liturgia della partita di calcio raccontata da Paolo Villaggio nel suo Secondo tragico Fantozzi?
La storia si ripete oggi: gli adulti gridano all'emergenza per la dipendenza dei giovani da smartphone e social network, ma loro sembrano aver già trovato una soluzione; mentre tutti gli altri sono qui a cercare strategie per applicare il social detox. Strategie che, però, avranno davvero senso? Serve davvero imporsi un limite massimo giornaliero all'uso di internet e dei social? Oppure imporsi un periodo di disconnessione di qualche settimana, per poi rigettarsi tutto d'un colpo nell'inferno delle interazioni sociali, è completamente inutile?
Di tutto questo parliamo in questa in Insalata Mista: cos'è il social detox, perché sempre più persone cercano di metterlo in pratica e quali sono i dati a favore di questa pratica e quali invece ci dicono che serve a poco.
Le ragioni della fuga digitale
Negli anni ’90 si cominciava a parlare di internet. La usavano in pochi e sembrava più un gioco per nerd che qualcosa di realmente utile. L’esplosione e la diffusione arrivò nei primi anni 2000, dopodiché divenne un fenomeno di massa con l’arrivo e la diffusione dei social network, che conobbero la massima espansione a partire dagli anni 10 del duemila. Si può dire che quel decennio è quello della consacrazione del digitale, della rete che pervade ogni nostra attività. È quindi inevitabile che si cominciarono a incrociare le prime ripercussioni dell’uso eccessivo.
Come tutte le prime generazioni che approcciano una nuova tecnologia che è in grado di modificare il proprio stile di vita, prima o poi arriviamo a non saper più stabilire i confini tra quello che dovrebbe essere un uso normale e quello che invece diventa abuso. Qualcuno direbbe persino dipendenza. Arriva qualcosa di nuovo, l’annusiamo con diffidenza, poi iniziamo a utilizzarlo, capiamo le potenzialità e poi finisce che esageriamo, che non riusciamo a fare più niente senza.
È successo con internet, con i social network e pian piano sta succedendo anche con l’intelligenza artificiale. D’altronde siamo la “prima linea”, quella che si scontra con una tecnologia nuova contro la quale non abbiamo le naturali difese immunitarie che invece sviluppano naturalmente le generazioni che con quella tecnologia ci nascono. Dunque è più facile che i primi utilizzatori siano proprio quelli che in questa sorta di dipendenza ci cascano con tutte le scarpe. E il termine “dipendenza” forse non è utilizzato così a sproposito, perché una dinamica simile si osserva anche nella diffusione delle droghe, no? La prima generazione che si trovò faccia a faccia con l’eroina pagò un conto di vite umane salatissimo. La generazione dopo, quasi la ignorò del tutto.
Oggi è un po’ la stessa cosa con i social network: la prima generazione che li ha conosciuti, ne è diventata quasi schiava. Guai a togliere Facebook o WhatsApp a un adulto dai quarant’anni in su. Persino i sessantenni non riescono più a fare a meno delle catene di “buongiornissimo!!1!” su WhatsApp o a curiosare i post dei conoscenti su Facebook.
A un certo punto, però, frustrati dall’attenzione continua che queste reti sociali impongono, qualcuno ha deciso di mollare, di rispondere all’incapacità di staccarsene recidendo completamente il cordone ombellicale. Tagliando tutti i rapporti con i social network per tornare a vivere. Rispondendo a quello che viene chiamato tecnostress con il social detox.
La cosa stupefacente, ma a questo punto nemmeno troppo, è che al tecnostress abbiano trovato rimedio per prime gli adolescenti. E indovinate un po’? L’avrebbero fatto autonomamente. Secondo un articolo pubblicato dal Guardian, «il numero di ragazzi dai 12 ai 15 anni che si prendono pause da smartphone, computer e iPad è aumentato dal 18% al 40% dal 2022, secondo la società di ricerca GWI, attingendo a un sondaggio su 20.000 giovani e i loro genitori in 18 paesi».
Continua l’articolo:«Questo si riflette nella ricerca di Ofcom. Un rapporto del 2024 ha rilevato che un terzo (33%) dei ragazzi dagli 8 ai 17 anni che sono online pensa che il loro tempo davanti allo schermo sia troppo, mentre un altro rapporto ha scoperto che il 47% dei giovani dai 16 ai 24 anni che utilizzano i social media disattiva le notifiche e utilizza la modalità "non disturbare", un aumento rispetto al 40% nel 2023 e rispetto al 28% degli utenti adulti più anziani.».
Il report inoltre afferma che «Il trentaquattro per cento dei giovani aveva maggiori probabilità di prendersi una pausa deliberata dai social media (rispetto al 23% che ha detto che non l'avrebbe fatto), il 29% avrebbe cancellato le app perché ci passa troppo tempo (rispetto al 19% che non lo farebbe) e il 24% cancellerebbe le app per la propria salute mentale (rispetto al 13% che non lo farebbe).».
Le promesse del detox
Stando a quanto riportano diversi studi sperimentali, la riduzione dell’uso dei social media porterebbe a effettivi miglioramenti nel benessere e nella vita di chi l’ha sperimentato. In questo caso si tratta di un social detox non estremo, che non priva del tutto l’utente dell’uso, ma che lo limita a mezz’ora al giorno per un paio di settimane.
Mi riferisco allo studio di Behavioral Sciences (che è una rivista internazionale, peer-reviewed e ad accesso aperto su psicologia, neuroscienze, scienze cognitive, biologia comportamentale e genetica comportamentale ) pubblicato su MDPI.
L’abstract di questo studio dice che:«[…] Trentuno giovani adulti hanno completato un digital detox dai social media della durata di due settimane (preceduto da un periodo di due settimane di osservazione iniziale e seguito da un follow-up di altre due settimane), durante il quale il loro utilizzo dei social media è stato limitato a 30 minuti al giorno. Una serie di analisi statistiche a misure ripetute ha rivelato che un detox di due settimane dai social media ha migliorato i livelli di dipendenza da smartphone e social media, oltre che il sonno, la soddisfazione di vita, lo stress, la percezione del benessere e la qualità delle relazioni di supporto.».
Uno studio sperimentale pubblicato su BMC Psychology nel marzo 2024, intitolato “Effects of a 14-day social media abstinence on mental health and well-being: results from an experimental study”, ha indagato cosa accade quando ci si astiene dai social media per due settimane consecutive. I partecipanti, divisi tra gruppo di controllo e gruppo di astinenza, hanno compilato questionari quotidiani su ansia, depressione, solitudine, FoMO1 (fear of missing out), immagine corporea e tempo di utilizzo dello schermo. I risultati hanno mostrato che il social detox riduce in modo evidente lo screen time e migliora la percezione del proprio corpo, probabilmente perché si interrompe il confronto costante con immagini e contenuti idealizzati.
Per quanto riguarda gli altri indicatori di benessere – depressione, ansia, solitudine e FoMO – i punteggi sono diminuiti nel corso delle due settimane, ma senza differenze significative rispetto al gruppo di controllo: un calo quindi generale, che potrebbe riflettere anche altri fattori non direttamente legati all’astinenza. Interessante notare che sia la valutazione del proprio aspetto sia la soddisfazione per diverse aree del corpo sono aumentate in entrambi i gruppi, ma con una tendenza più marcata in chi aveva interrotto i social.
In sintesi, il beneficio più solido emerso da questo esperimento riguarda la riduzione del tempo davanti agli schermi e il miglioramento dell’immagine corporea, mentre per ansia, depressione e solitudine l’efficacia del social detox resta più ambivalente. Lo studio sottolinea così la necessità di ulteriori ricerche per capire meglio perché alcuni individui traggono più vantaggi di altri dall’astinenza digitale.
Anche perché, lo ricordiamo, tutti questi studi sono basati su questionari. È il più grosso problema di tutta la letteratura scientifica che indaga questi fenomeni. Purtroppo non c’è modo di misurare in maniera assoluta quanto un individuo si senta stressato, depresso o in ansia. Glielo si può chiedere, ma in questo caso, la risposta potrebbe essere influenzata da mille altri fattori. E infatti, come in questo caso, spesso il miglioramento c’è anche nel gruppo di controllo ed è quindi attribuibile, con tutta probabilità, a una semplice suggestione o effetto placebo.
I limiti e i lati oscuri
Quando sentiamo parlare di social detox, l’idea è semplice: staccare dai social per stare meglio. Ma funziona davvero? Una nuova revisione sistematica con meta-analisi pubblicata su Scientific Reports (Nature, quindi stiamo parlando di qualcosa di molto autorevole) ha provato a dare una risposta guardando tutti gli studi migliori sull’argomento: si chiama “The effects of social media abstinence on affective well-being and life satisfaction: a systematic review and meta-analysis”. “Meta analysis” significa che si prendono in rassegna tanti studi e si analizzano di nuovo con metodi scientifici e statistici. È lo studio degli studi, insomma.
Gli autori hanno seguito le linee guida PRISMA2, preregistrato il protocollo (PROSPERO3) e cercato in sei grandi database (PubMed, Scopus, Web of Science, Communication Source, Cochrane Library e Google Scholar). Hanno incluso 10 studi sperimentali e semisperimentali, per un totale di 4.674 partecipanti, e hanno messo insieme 38 effetti su tre esiti chiave: affettività positiva, affettività negativa (misurate tipicamente con PANAS4) e soddisfazione di vita (SWLS5). Una cosa molto mportante: qui non si parla di “usare un po’ meno”, ma proprio di astinenza totale dai social per periodi brevi (in genere 28 giorni, ma spesso anche una settimana).
Il verdetto, guardando tutti i dati insieme? Nessun effetto significativo: in media, smettere temporaneamente con i social non aumenta la soddisfazione di vita, non riduce l’affettività negativa né accresce quella positiva. Anche la durata dell’astinenza (più o meno giorni) non fa la differenza. Tradotto: per la persona “media”, la pausa breve dai social non fa stare meglio né peggio. Gli autori notano anche un’ampia eterogeneità tra gli studi (durate, piattaforme, misure) e limiti pratici come la compliance non perfetta: non tutti riescono davvero a restare del tutto offline per una settimana. Perché di mezzo c’è la vita — che è fatta anche di interazioni sociali, ormai — e spesso questa disconnessione totale non si può proprio fare.
Perché questo sostanziale pareggio a zero? Una spiegazione plausibile è che i pro (meno distrazioni, meno confronti, più tempo offline) vengano annullati da alcuni contro (noia, FoMO, perdita delle parti buone della socialità digitale). La conclusione, quindi, non è sintetizzare affermando «il detox è inutile», tutt’altro, ma che la pausa breve e totale potrebbe non essere la strategia migliore per migliorare il benessere.
Gli stessi autori suggeriscono di esplorare approcci più sfumati (riduzione guidata, impostazioni che limitano le notifiche/il tempo, ne parlammo tra l’altro in una vecchia Insalata Mista dal titolo “Come disintossicarsi dallo smartphone in 5 mosse”) e studi longitudinali che guardino alle differenze individuali: a chi serve davvero, come e perché?
In sintesi: se vuoi provare il social detox, fallo, ma non aspettarti miracoli. Per molti funziona meglio saper gestire che eliminare: curare il feed, silenziare ciò che intossica, ridurre i picchi di uso invece di imporre digiuni drastici. Abituarsi a non mollare tutto e prendere lo smartphone in mano a ogni notifica. È difficile, anche contro natura, per certi versi, ma si può fare. Piano piano, quella di cedere allo sblocco del telefono per controllare l’ultima notifica, diventa un vizio. Ma il vizio si può gestire, combattere, controllare. E in ogni caso esiste la possibilità di gestire anche la frequenza delle notifiche. È la stessa lezione che arriva dalla meta-analisi: il benessere non sta nello “zero o cento”, ma nel trovare un rapporto sostenibile con i social.
Gestire, non eliminare
In tutte queste situazioni, per non sbagliare, io mi regolo sempre sulla giusta misura. Questo perché, per formazione personale, odio gli assolutismi, gli atteggiamenti estremi, quelli del “o tutto o niente”. C’è davvero bisogno di eliminare dalla propria vita la perte digitale? Online? Anche sociale? Perché, se non si è capaci di gestirla, bisogna per forza andare all’estremo opposto e parlare di eliminazione totale? Non sarebbe meglio o più intelligente provare ad autogestirsi?
Poi magari questa autogestione non è possibile. Succede anche col cibo, no? Ne parleremo in una futura Insalata (è anche appena uscita un’interessantissima puntata del podcast Wilson sull’argomento che vi consiglio), ma la scienza ci dice sì che spesso l’obesità è provocata dal mangiare troppo, ma anche che in realtà queste persone non hanno molte possibilità di fare altrimenti. Perché si tratta, banalmente, una patologia.
E allora, se si parla di patologia nella dipendenza da social, è tutto un altro paio di maniche. Le patologie vanno trattate come tali, molto seriamente. Ma attenzione a non trasformare tutto in patologia, ad additare tutti gli utenti che semplicemente hanno preso il vizio di consultare lo smartphone compulsivamente come “malati patologici”: si farebbe più danno che altro.
Lo dice anche un articolo apparso su The Conversation, dal titolo “Why a social media detox may not be as good for you as you think – new research” (Durham University, novembre 2023), secondo cui le cose non sono così semplici.
Lo studio ha coinvolto 51 persone invitate ad astenersi dai social per una settimana, con monitoraggio tramite sondaggi quotidiani e compiti al computer in laboratorio. Pochi sono riusciti a interrompere del tutto, ma la maggioranza ha comunque ridotto l’uso da 3-4 ore al giorno a circa mezz’ora. E l’effetto è durato anche dopo l’esperimento: nessuno è tornato subito ai livelli di partenza.
Il punto è che i benefici non sono stati quelli attesi. I partecipanti hanno riportato meno emozioni positive (entusiasmo, divertimento) e anche meno emozioni negative (tristezza, rabbia). In pratica, un azzeramento delle montagne russe emotive che i social provocano: addio ansia da confronto, ma anche addio alle gratificazioni dei like e delle interazioni. Risultato: per molti, il saldo netto sul benessere è stato pari a zero. Esattamente come abbiamo visto prima nella meta analisi di Nature.
Un dato interessante: nessuno ha sperimentato sintomi da astinenza. Non c’è stato un “craving6” paragonabile a quello delle dipendenze da sostanze, e questo spinge i ricercatori a dire che il termine “dipendenza da social” va usato con cautela. Parlare di addiction rischia di patologizzare un comportamento diffuso e di oscurare altri problemi psicologici sottostanti.
La conclusione degli autori è pragmatica: meglio considerare l’uso dei social come l’alimentazione. Non serve “il digiuno assoluto”, ma imparare a dosare, riconoscere i propri limiti e scegliere ciò che fa bene: magari silenziare gli account che intossicano, smettere di inseguire like e coltivare interazioni più sane. Il vero detox, insomma, non è sparire dai social, ma cambiare il modo in cui li viviamo.
Anche perché — cerchiamo di essere onesti al 100% — davvero vi nutrite ogni singolo minuto della vostra giornata di fonti culturali? Le vedo anche io le pubblicità (sui social, tra l’altro, il che le rende già un po’ assurde) che ci dicono «Da quando ho smesso di scrollare ho letto cinque libri al mese!». Ok, d’accordo, scrollare in ogni momento libero è certamente uno spreco di tempo. Ma a volte si ha anche voglia di leggerezza, di farsi una risata con un reel sciocco su Instagram o con un account parodia su TikTok. Non è che si viva di sole attività culturalmente impegnative, no?
E allora, se dopo il lavoro ci concediamo una mezz’oretta sul divano a guardare reel scrollando col dito, non significa per forza che ci stiamo trasformando in decerebrati asserviti ai social network. Semplicemente stiamo sostituendo lo smarphone alla TV, cercando in quei video quel momento per rilassarsi e svuotare la testa che serve al proprio benessere esattamente come ogni altra attività sociale che comunque continueremo a fare, social network o meno.
Per sintetizzare: non è che togliendo lo smartphone di mezzo allora torno a casa dopo una giornata di 10 ore di lavoro e mi metto a leggere Kant. No, al massimo potrei sfogliare il volantino del supermercato, perché ho voglia di alleggerire e svuotare la testa. E in questo, i social network possono essere persino un’attività di decompressione e che stimola emozioni positive. Tutto sta nell’uso che se ne fa, ma questo riguarda ogni attività della vita. Può essere ugualmente dannoso diventare dipendenti da altre attività ritenute più positive. La dipendenza, del resto, può manifestarsi in mille forme differenti e non è mai positiva, perché dimostra una scarsa capacità di controllo.
Paradossalmente, se dovesse esistere una “dipendenza da lettura”, sarebbe ugualmente negativa e dannosa, seppur libera dallo stigma sociale perché generalmente vista come attività “sana” dalla maggior parte delle persone.
Insomma, l’ho già detto e lo hanno detto anche studi autorevoli: la cosa giusta, come sempre, è regolare, misurare, dosare. Gli estremismi sono sempre negativi, o peggio inutili. Anche se dire «ah, io non uso i social network» oppure «ho smesso, mi sono cancellato da tutti i social» dona, lo ammetto, un’aura di misticismo e di autocontrollo affascinante. Io stesso ne sono stato attratto: il pensiero di essersi liberati da una schiavitù e di esserne usciti, a differenza degli altri, può far sentire subito meglio. Ma, ahimè, essere davvero liberi significa saper controllare certe situazioni senza doverle rifuggire.
» PENSIERI FRANCHI: La storia non la scriveranno più i vinti. Forse.
Inizialmente volevo scrivere i pensieri Franchi su tutt’altro argomento. Poi, sfogliando Internazionale, mi è saltata agli occhi una statistica, che parla delle vittime civili nei conflitti. La notizia è che The Guardian e +972 Magazine — un magazine indipendente israeliano — hanno rivelato dei dati provenienti dall’intelligence israeliana che parla di una percentuale impressionante di civili uccisi dall’esercito israeliano. Si parla dell’83%, il che proietta questa guerra al quarto posto dei conflitti con più vittime civili della storia, appena dopo quello del Ruanda (1994) con il 99,8% dei civili, l’assedio di Mariupol nel 2022 con il 95% delle vittime civili, il genocidio di Srebrenica (1992-1995) con il 92% di vittime civili e infine il massacro di Gaza, con l’83% di vittime civili.
La prima riflessione che ho fatto è che gli anni recenti hanno visto aumentare il livello di crudeltà nei confronti dei civili. Tutti questi massacri si concentrano sostanzialmente in trent’anni di storia, la storia più recente. E così, anziché sognare un mondo sempre più evoluto, civile e tecnologico — dove la tecnologia dovrebbe risolvere i conflitti tra le stesse macchine senza più coinvolgere l’uomo — stiamo scoprendo che, al contrario, la tecnologia viene utilizzata sempre di più per scovare l’uomo e non lasciargli scampo (c’è un’Insalata Mista sull’argomento).
Ma a un certo punto mi sono sorpreso anche a riflettere su quanto sono stato sciocco nel fare questa valutazione: per forza i conflitti peggiori per i civili sono quelli degli ultimi trent’anni, prima non c’era modo di documentarli. O meglio, dal novecento in avanti si, ma la vera svolta c’è stata con l’arrivo della tecnologia e della rete. I fatti lo dimostrano, dagli anni in novanta in avanti la quantità di dati e testimonianze è andata via via aumentando fino a permettere ciò che vediamo oggi: immagini, video, podcast realizzati tramite messaggi vocali, appelli pubblicati sui social e giornalisti che riescono a svolgere il proprio lavoro anche in condizioni precarie (quando riescono a sopravvivere).
Dopo un’Insalata Mista quasi tutta scritta contro internet e i social network, mi piaceva l’idea di scrivere i Pensieri Franchi contrapponendo invece quello che di buono la rete ha portato, perché non è poco. Non sta a me dire se gli aspetti positivi compensano quelli negativi, quello lo dirà la storia, ma di certo oggi abbiamo mille e più modi per farci un’idea precisa di quello che sta accadendo, non siamo costretti ad affidarci soltanto a un mezzo di informazione (magari filo governativo). Possiamo leggere, guardare, confrontare. Addirittura parlare con gente del posto, se volessimo. E l’unico problema, l’unica cosa a cui dobbiamo fare davvero attenzione è la contraffazione, la manipolazione, la capacità di creare materiale e documentazione falsa, soprattutto dall’arrivo dell’IA in avanti.
Tuttavia, un paradigma assoluto della storia possiamo dire che sia stato abbattuto: oggi non è più vero quello che si dice tra gli storici, e cioè che “la storia la scrivono i vincitori”, perché è così alto il numero di fonti a cui attingere che c’è sempre più consapevolezza di quello che i governi vorrebbero tenere nascosto. E non è un caso se di mezzo ci finiscono sempre più giornalisti. Non è un caso se la guerra mossa da Israele contro Gaza abbia visto un numero di vittime tra i reporter come non ce ne sono mai state nella storia. In quelli che il premier israeliano insiste a chiamare “tragici incidenti”, hanno perso la vita fino ad ora un numero di reporter compreso tra 147 e 232, più di tutti quelli morti nella guerra civile statunitense, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, in quella del Vietnam e in quella in Afghanistan messe assieme.
Sarà un caso che si miri deliberatamente a uccidere chi cerca di fare informazione e portare la verità al di fuori del confini del conflitto? La risposta è persino banale quanto scontata. A me, in ogni caso, basta questo per scegliere da che parte stare: ogni qual volta di mezzo ci vanno i giornalisti — sarà anche un modo un po’ corporativista di sostenere la categoria, non lo nego — allora capisco che chi ha premuto il grilletto sta dalla parte sbagliata. Così come chi attacca in maniera deliberata e spudorata i civili. Non possono esserci giustificazioni o scusanti per chi fa tutto ciò; non può esserci una causa scatenante sufficientemente grave per giustificare il massacro di civili e reporter. Non può esserci mai una giustificazione valida dietro il massacro di civili e di chi fa informazione. Chi lo fa, deve evidentemente nascondere qualcosa di cui vergognarsi.
Franco A.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini
FoMO è l’acronimo di Fear of Missing Out, cioè “paura di essere tagliati fuori”. Indica l’ansia di perdere esperienze, notizie o interazioni sociali importanti, che spinge a controllare continuamente i social media per non sentirsi esclusi.
PRISMA sta per Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses. È uno standard internazionale che stabilisce come devono essere condotte e riportate in modo trasparente le revisioni sistematiche e meta-analisi (checklist, diagrammi di flusso, criteri di selezione, ecc.).
PROSPERO sta per International Prospective Register of Systematic Reviews. È un registro online dove i ricercatori preregistrano i protocolli delle loro revisioni sistematiche e meta-analisi, per garantire trasparenza e ridurre il rischio di bias (evitare che i metodi vengano modificati “a posteriori”).
PANAS, ovvero Positive and Negative Affect Schedule. È una scala psicometrica molto usata per misurare le emozioni positive (es. entusiasmo, energia, vigilanza) e le emozioni negative (es. paura, irritazione, senso di colpa)
SWLS, ovvero Satisfaction With Life Scale. È un breve questionario (5 item) che valuta la soddisfazione generale per la propria vita, molto impiegato negli studi di psicologia del benessere.
Il termine craving viene dall’inglese e significa letteralmente desiderio intenso, brama. In psicologia e psichiatria viene usato per indicare un bisogno irrefrenabile di assumere una sostanza o ripetere un comportamento (es. fumare, bere alcol, giocare d’azzardo, controllare lo smartphone). È uno dei sintomi tipici delle dipendenze, perché descrive quella spinta compulsiva che non si riesce a ignorare, anche sapendo che può avere conseguenze negative.
Molto interessante, ma rispetto alla mia esperienza personalissima e singola devo dire che disinstallare FB dallo smartphone è stata l'unica cosa che effettivamente abbia cambiato la mia qualità di vita rispetto alla dipendenza da social e rispetto al "brainrot". Ho 39 anni, approdata su FB a 26 ma da sempre con notifiche disattivate, mai riuscita ad appassionarmi ad Instagram (ho account ma non lo apro mai), zero Tiktok o altri social. Ma su FB finivo comunque trascorrere troppo tempo e usarlo "in automatico", senza sceglierlo davvero... da un paio d'anni usavo il limitatore a 30 minuti al giorno, ma sul lungo periodo mi sono resa conto che non bastava. Un po' perché c'è sempre la possibilità di "aggiungere tempo" (cosa che, negli ultimi 6 mesi mi capitava di frequente), un po' perché a mio parere negli anni il livello di contenuti completamente vuoti, inutili o addirittura falsi (con conseguente folla di commenti ignoranti) è aumentato a dismisura. Gli effetti sul mio cervello erano mestamente evidenti: calo drastico dell'attenzione, dipendenza dallo scroll come se fosse l'unica attività sostenibile, addormentamento ritardato, sensazione (dopo l'uso di FB, fosse anche solo 30 minuti) di aver perso neuroni e tempo prezioso. Quest'estate (circa 45 giorni fa) ho detto "basta" e una sera ho disinstallato FB dallo smartphone. A parte il primo giorno, quando mi rendevo conto che prendevo in mano il cellulare in automatico senza poi riuscire a completare quell'azione abitudinaria, mi sono stupita di quanto non mi mancasse. Sono tornata a guardare con più attenzione film e serie TV, leggo più volentieri (fosse anche il volantino della spesa, è tempo utile impiegato per la vita vera), faccio più cose concrete ma al contempo utilizzo lo smartphone per contenuti di valore che finalmente nutrono, non assopiscono, il mio cervello...leggo (ad esempio qui su Substack) articoli lunghi, articolati e di validità scientifica. Resta un uso forte dei vocali su Whatsapp, ma trovo profondamente diverso impiegare tempo ed energie per parlare con amici, rispetto allo scroll decerebrato. Insomma... gli studi dicono senz'altro quanto hai brillantemente esposto tu, ma nella mia esperienza togliere FB è stato davvero un gesto che ha cambiato la mia qualità di vita, il limitatore di tempo a 30 minuti al giorno non faceva tutta questa differenza. Termino dicendo che ho lasciato FB sul tablet che uso per lavoro e, circa una volta a settimana, se mi viene voglia o necessità di consultare una pagina FB specifica, impiego quello. Ma ecco, in quel caso è un gesto deciso effettivamente da me, è una precisa scelta e una volta consultato ciò che cerco, metto via in massima libertà. Mi sento tornata io "al comando" del mio cervello, è impagabile.
Ciao Franco, Insalata molto interessante su un argomento che mi sta molto a cuore e che mi riguarda da vicino. Da circa sei mesi ho infatti eliminato i social network (Facebook e Instagram, a TikTok non sono mai arrivato) dalla mia routine giornaliera: non ho cancellato gli account né le app dallo smartphone, semplicemente ho smesso di utilizzarli. Mi capita ancora di entrarci se devo cercare un'informazione specifica, o quella volta al mese che spammo la newsletter: li tratto, insomma, come degli strumenti da usare alla bisogna.
La cosa più sorprendente - e ne ho scritto nella newsletter che ho fatto partire oggi - è che è stato semplicissimo lasciarseli alle spalle. Ho provato nel tempo ad affinare l'algoritmo, ma alla fine mi restituiva comunque una mole impressionante di contenuti che reputavo inutili, e che finivano col nascondere le cose che mi interessavano davvero. Oggi, con gli amici mi sento/aggiorno in altri modi, mentre per tutto il resto mi affido a un caro vecchio feed RSS.
Sono conscio che prima o poi mi toccherà usarli di nuovo (spero sempre di far ripartire la mia carriera di scrittore 🙂), ma per il momento sto benissimo con questo nuovo assetto.