Obesità: vizio, malattia, stigma sociale e cure rivoluzionarie
Dieta e forza di volontà non bastano: la scienza dice che l’obesità è una malattia cronica. I nuovi farmaci potrebbero cambiare tutto, o peggiorare la frattura sociale.
Chi vi scrive è obeso. Anche se faccio sempre un po’ fatica a metterlo nero su bianco, è la realtà dei fatti. Il calcolo dell’IMC (Indice di Massa Corporea) non mente: 31,2, Obesità di classe I. E anche se chi mi conosce, ogni volta che lo dico, minimizza: «ma va! Al massimo sarai un po’ in sovrappeso!» — perché su noi alti il grasso ha più spazio dove “spalmarsi” — i numeri sono numeri.
L’Insalata Mista però non è i Pensieri Franchi, perciò non trasformerò questa puntata in uno sfogo personale. Piuttosto, anziché intervistare o coinvolgere qualcuno che vive sulla sua pelle la condizione di obesità, ho pensato che per una volta l’ospite potrei essere proprio io. In fondo, da obeso, conosco molte delle difficoltà che la caratterizzano. So di cosa parlo, in altre parole. Anche se il livello di gravità è — per fortuna — ancora il primo, vedo già in me molte delle dinamiche di cui parlerò più avanti.
Lo scopo di questa Insalata è duplice: il primo è fare chiarezza sull’obesità. Cos’è, cosa non è, da cosa è causata e perché è una malattia che nulla ha a che fare col vizio. E questo, purtroppo, è il più grande dei luoghi comuni radicati nel pensiero popolare. «Per dimagrire basta chiudere la bocca!», sento dire spesso. Ma quella è un’altra cosa. E comunque, anche in quel caso, non è detto che il bisogno di “aprire la bocca” sia tutto frutto della volontà.
Del resto, tutto ciò che si obietta all’obeso si potrebbe obiettare anche ad altri malati cronici. Io so benissimo che se perdessi venti o trenta chili, dormissi di più e con più regolarità e facessi un mestiere meno stressante, con tutta probabilità avrei l’ipertensione sotto controllo (sì, ho pure quella) e forse non avrei bisogno della terapia. Così come il cardiopatico, se trattasse meglio le sue coronarie controllando l’alimentazione e facendo il giusto movimento, ridurrebbe il rischio di eventi. Eppure siamo più portati a riconoscere lo stato di cardiopatico o iperteso come “patologico”, legato a una malattia da curare, mentre all’obeso attribuiamo una sorta di colpa, di peccato di fondo: «vabbè, te la sei cercata».
Poi c’è anche un altro fatto, innegabile, che affronteremo in questa Insalata Mista: l’obeso è considerato “brutto”. Se confronto le mie foto da magro (non sono mai stato magrissimo, ma durante un periodo di agonismo podistico ho raggiunto il peso ideale) con quelle di adesso, mi vedo più goffo, più tondo, più pacioccoso. Faccio quasi tenerezza, insomma. E quando uno ti fa tenerezza sei portato a pensare che sia debole, fragile e quindi più incline ad aprire il frigorifero di notte e svuotarlo in preda a un raptus di cui poi si sentirà colpevole.
Indipendentemente dal fatto che il raptus possa capitare o meno, ciò che è profondamente sbagliato è associare una forma estetica al pregiudizio che collega quell’aspetto a un vizio — addirittura uno dei sette capitali: la gola. Vedremo quindi, dopo aver analizzato cos’è realmente l’obesità, in cosa consiste lo stigma sociale, cosa provoca e perché l’obesità va trattata come malattia cronica. Infine, analizzeremo cosa si può fare e come un farmaco (di cui ho già parlato tempo fa) potrebbe rappresentare una terapia molto efficace per questa patologia.
Che cos’è davvero l’obesità e perché considerarla “malattia” non è soltanto un problema lessicale
L’obesità è innanzitutto — prendendo a prestito la definizione dell’OMS — «un’anomala o eccessiva accumulazione di grasso che può compromettere la salute». L’OMS la definisce operativamente attraverso l’IMC: sono considerati obesi i soggetti con IMC ≥ 30 kg/m², mentre gli individui con IMC compreso fra 25 e 30 kg/m² sono in sovrappeso. Secondo stime OMS, nel 2022 gli adulti sopra i 18 anni in condizione di sovrappeso erano 2,5 miliardi, di cui oltre 890 milioni con obesità.
La questione principale è proprio quel termine, “malattia”, che fa tutta la differenza perché ha ricadute dirette sulla spesa sanitaria. Se consideri l’obesità una malattia, devi fare in modo che le persone possano curarsi senza difficoltà e quindi prevedere un sostegno pubblico (laddove esiste un SSN). In altre parole: costo per il sistema sanitario. Dove il sistema sanitario non è pubblico, le difficoltà politiche ad accettare l’obesità come malattia sono spesso meno pressanti. Negli Stati Uniti l’obesità è stata riconosciuta dall’American Medical Association già nel 2013, seguita da Canada, Germania e Portogallo; in Italia è formalmente inserita nelle classificazioni cliniche, senza tuttavia un vero riconoscimento politico-parlamentare.
Nel Regno Unito se ne discute ancora, nonostante il Royal College of Physicians si sia espresso a favore già nel 2019. Se ci avete fatto caso, parliamo comunque di riconoscimenti recenti: persino gli USA, tra i primi, l’hanno fatto poco più di dieci anni fa. Questo perché il problema dell’obesità è in continua crescita. L’OMS stima che dal 1975 la prevalenza sia triplicata. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, riguarda circa il 12% degli adulti e il 9% dei bambini. Numeri che non possono essere liquidati come un semplice “problema di scelte individuali”.
Dicevamo che il riconoscimento dell’obesità come malattia è collegato direttamente alla spesa sanitaria. Vedremo più avanti che uno dei farmaci efficaci a lungo termine ponga questioni importanti di sostenibilità. Ma il non riconoscimento come malattia ha a sua volta ripercussioni negative sullo stigma: porta la società a considerarla una sorta di “vizio alimentare”, di cattiva abitudine, in sostanza il frutto di una cattiva gestione personale.
La scarsa considerazione dell’obeso non è solo questione sociale e di costume: ha importanti ripercussioni sulla qualità e sull’aspettativa di vita. Considerarla come malattia garantirebbe vantaggi enormi: riduzione dello stigma, maggiore legittimità clinica, formazione specifica dei medici, accesso a terapie e fondi dedicati (tra cui i farmaci di cui parleremo).
Bisogna però citare anche i rischi di questa nuova concezione. La medicalizzazione eccessiva che non incide sui comportamenti quotidiani, la possibile nascita di un nuovo stigma “biologico” (essere percepiti come “inferiori” per genetica) e un sovraccarico sui sistemi sanitari già sotto pressione, per esempio. In Inghilterra, a titolo di esempio, il NHS spendeva 6,1 miliardi di sterline nel 2014/2015 per curare obesità e sovrappeso; ma, con una spesa totale di 166 miliardi l’anno (dato 2021), la voce “obesità” compariva in meno dell’1% delle diagnosi codificate: segno che i costi reali sono largamente sottostimati.
La questione quindi non è soltanto sanitaria, ma economica e sociale. L’Institute for Employment Studies ha coniato un programma dedicato a queste dinamiche, PURPOSE (Promoting Understanding & Research into Productivity, Obesity Stigma & Employment). Secondo il loro studio, nel Regno Unito le donne con obesità guadagnano in media tra il 9 e il 13% in meno rispetto alle coetanee normopeso, con picchi fino al 20%; l’impatto macroeconomico stimato sfiora i 15 miliardi di sterline l’anno.
Definire l’obesità malattia non è dunque solo lessico: ha un impatto reale sulla vita delle persone e sull’economia. Da un lato si sviluppa una considerazione sociale meno colpevolizzante; dall’altro ci sarebbero ricadute sui costi del SSN, che però potrebbero essere mitigate da più produttività e minori complicanze a lungo termine. Se l’obesità venisse curata, in altre parole, forse costerebbe di più in farmaci e terapie, ma meno in termini di ricoveri e gestione delle conseguenze gravi.
Cosa provoca realmente lo stigma sociale contro gli obesi
Di obesità ne ho già parlato in passato, ma recentemente ho trovato nuovi spunti (e stimoli) ascoltando una puntata del podcast Wilson, dove il dott. Edoardo Mocini ha trattato in modo molto efficace il tema del riconoscimento dell’obesità come malattia. Ve ne raccomando l’ascolto:
L’obesità, questo è il punto, non è solo un problema clinico: è un marchio sociale. Secondo una revisione su Public Health Reports, lo stigma legato al peso è ormai tra le ultime forme “accettabili” di discriminazione. Lo si ritrova ovunque: nei media (che associano l’obesità a pigrizia o mancanza di autocontrollo), a scuola (bullismo e commenti inopportuni), al lavoro (minori opportunità) e perfino negli ospedali (meno tempo dedicato, tendenza ad attribuire tutto al peso).
Le conseguenze sono misurabili. Un’analisi su BMC Medicine mostra che lo stigma non solo aumenta ansia e depressione, ma porta a evitare le visite mediche per paura dei giudizi. Questo problema riduce le diagnosi precoci e peggiora gli esiti clinici. Non è psicologia astratta: se la persona obesa evita i controlli, le complicanze aumentano. E anche il corpo reagisce: lo stress cronico da discriminazione eleva il cortisolo, favorisce grasso viscerale e peggiora il controllo glicemico.
Lo “stress da discriminazione” è sia causa che conseguenza: conseguenza dello stigma, ma anche causa di ulteriore aggravamento dell’obesità. In altre parole, innesca un circolo vizioso: la colpevolizzazione genera stress e malessere, che peggiorano la psicologia e arrivano ad aumentare l’assunzione di cibo.
Uno studio su Current Obesity Reports stima che oltre il 70% delle persone con obesità abbia subito episodi di discriminazione legati al peso. A ciò si aggiunge l’auto-stigma: interiorizzare i pregiudizi, convincersi che «è tutta colpa mia», con ricadute su autostima, salute mentale e qualità della vita.
Come dicevamo, lo stigma produce effetti indiretti: scoraggia l’attività fisica (evitare palestre e sport per paura del giudizio altrui), alimenta disturbi alimentari come il binge eating e, soprattutto, contribuisce al circolo vizioso dell’obesità. Ridurre tutto a una “colpa personale”, oltre a essere ingiusto, è controproducente.
Quali sono le reali cause dell’obesità?
L’obesità è in larga misura una condizione ereditaria e biologicamente programmata a interagire con l’ambiente moderno. Ridurla a una questione di “scelte personali” è fuorviante. Abbiamo scarsissime capacità (o possibilità) di opporci ai meccanismi neurofisiologici e ambientali che determinano il peso. Vediamone alcuni.
Interazione geni-ambiente
L’obesità deriva da un’interazione complessa tra predisposizione genetica e ambiente moderno obesogenico. Non è solo “mangiare troppo e muoversi poco”: l’equilibrio energetico è regolato da sistemi biologici che controllano appetito e metabolismo.
Per ambiente obesogenico si intende un contesto che favorisce, spesso senza accorgercene, l’aumento di peso:
cibo ovunque e iper-appetibile (ultra-processati, porzioni grandi, snack e bevande zuccherate a basso costo, marketing aggressivo);
prezzi/accesso: il cibo “denso” di calorie costa spesso meno del fresco;
segnali e abitudini: esposizione continua a stimoli (pubblicità, display alla cassa), orari sfasati, spuntini continui, schermi;
vita sedentaria: lavori d’ufficio, auto, città poco “camminabili”;
fattori psico-sociali: stress cronico, sonno ridotto, turni;
altri fattori: possibili interferenti endocrini, temperature indoor costanti (di conseguenza meno termogenesi), ambienti che scoraggiano il movimento.
Ereditarietà
Gli studi sui gemelli mostrano che la tendenza ad aumentare di peso è in buona parte ereditaria: i geni possono contare dal 40 al 70%. In pochi casi rari è colpa di un solo gene alterato, che provoca fame intensa e obesità già dall’infanzia. Nella maggior parte delle persone, però, il rischio dipende da tanti piccoli cambiamenti del DNA (per esempio nella zona del gene FTO). Il punto è che queste varianti, sommate, spiegano solo circa il 3% della predisposizione: tutto il resto è la cosiddetta “eredità mancante”, cioè quella parte di ereditarietà che sappiamo esistere ma che i geni identificati finora non riescono ancora a spiegare.
Epigenetica
Non conta solo il DNA, ma come viene letto. Fattori come alimentazione, stress o persino le condizioni vissute in utero possono “accendere” o “spegnere” geni coinvolti nell’appetito e nel metabolismo. In pratica, una predisposizione può restare silenziosa o attivarsi a seconda dell’ambiente.
Maladattamento evolutivo
Per millenni, accumulare grasso era un vantaggio in tempi di carestia. Oggi, in condizioni di abbondanza calorica e sedentarietà, gli stessi meccanismi ci mettono a rischio.
Ruolo del sistema nervoso centrale
Molti geni associati all’obesità sono espressi nel cervello, in particolare nell’ipotalamo, che regola fame e sazietà. Ecco perché il controllo cosciente non basta: molta parte del comportamento alimentare vive “sotto il cofano”.
A questi si sommano meccanismi psicologici come il sistema di auto-ricompensa (di cui io stesso abuso), ovvero il “premio” (prima o dopo una prova importante) che diventa abitudine. «Mi merito una pizza per ho risolto questo problema», moltiplicato per giorni e settimane, pesa.
Dalle pillole miracolose alla realtà sociale
Nei paragrafi precedenti ho accennato al fatto che riconoscere l’obesità come malattia implica, per lo Stato/SSN, affrontare spese anche importanti. Di che spese parliamo? Di una delle novità più rilevanti degli ultimi anni, ovvero gli agonisti del GLP-1 come la semaglutide, commercializzata come Wegovy (farmaco per trattare l’obesità) e Ozempic (più indicato per il diabete).
Il potenziale della semaglutide è talmente enorme che Science le ha dedicato nel 2023 il premio “Breakthrough of the Year”; Insalata Mista ne ha parlato a fine 2023, quando proiettò Novo Nordisk al primo posto delle aziende europee per capitalizzazione con 433 miliardi di dollari; e poi di nuovo, nel luglio successivo, a proposito dei benefici cardiovascolari.
Questi farmaci — la semaglutide e il più recente tirzepatide (agonista duale GIP/GLP-1) — hanno cambiato il modo di trattare l’obesità. I risultati sono stati definiti “epocali”: negli studi STEP, pubblicati sul New England Journal of Medicine (2021), i pazienti hanno perso in media circa il 15% del peso in 68 settimane.
Nel trial SELECT, la semaglutide ha ridotto del 20% il rischio di eventi cardiovascolari maggiori in pazienti senza diabete ma con malattia cardiovascolare preesistente. Risultati mai visti prima con altri trattamenti farmacologici per l’obesità.
Eppure, come ricorda il dottor Edoardo Mocini nel podcast di Francesco Costa, non si tratta di pillole magiche. L’obesità è una patologia cronica: se la terapia si interrompe, il peso risale, proprio come accade per la pressione arteriosa quando si sospende l’antipertensivo. L’idea che il farmaco sia “inutile” perché «se smetti torni come prima» nasce dal fraintendimento di fondo: considerare l’obesità non una malattia, ma la conseguenza di un comportamento scorretto. La terapia, invece, va continuata — come per l’ipertensione, il diabete o le dislipidemie (cioè alta concentrazione di colesterolo o trigliceridi).
Restano domande aperte sulla sicurezza a lungo termine nell’uso di questi farmaci. I trial durano fino a due anni, ma le molecole circolano da oltre dieci. Finora il profilo di sicurezza è buono (con effetti avversi principalmente di tipo gastrointestinali), ma nessuno può dire cosa succederà dopo 15–20 anni di uso diffuso. In parallelo, si moltiplicano studi preliminari su possibili effetti “bonus” (per ora con evidenze soltanto esplorative), come la riduzione del craving (ovvero il desiderio intenso, urgente e spesso incontenibile di consumare una sostanza) non solo verso il cibo ma anche verso alcol, nicotina e gioco d’azzardo, probabilmente tramite un’azione sui circuiti della ricompensa dopaminergici.
Il nodo più spinoso resta, come detto, l’accesso economico. In Italia, Wegovy è stato autorizzato da AIFA ma inserito in classe C (non rimborsabile), con un costo tra 250 e 400 € al mese (a seconda del dosaggio). Nel Regno Unito, il NICE ha approvato la semaglutide solo in centri specialistici, per pazienti con BMI (Body Mass Index) maggiori di 35 (o 30 con conseguenze gravi).
Le analisi economiche non dicono tutte la stessa cosa. In Portogallo, per esempio, uno studio ha calcolato che la semaglutide è addirittura conveniente per il Sistema Sanitario Nazionale. Si parla infatti di circa 13.500 € per QALY guadagnato, al di sotto della soglia di convenienza impostata a 20.000 €. Negli Stati Uniti, invece, diversi studi concludono che ai prezzi attuali il farmaco è troppo caro: per risultare “conveniente” servirebbero sconti del 50%.
Il parametro QALY (Quality-Adjusted Life Year), fa riferimento a un “anno di vita corretto per la qualità”. Non conta solo quanto vivi, ma anche come: un anno in piena salute vale 1 QALY, un anno con gravi limitazioni magari 0,5. In molte valutazioni europee la soglia accettabile è inferiore ai 20–30 mila € per QALY, a seconda del Paese; nell’esempio citato si fa riferimento alla soglia dei 20.000 €.
La questione è culturale oltre che economica. Da una parte, questi farmaci hanno avuto il merito di portare per la prima volta l’obesità in sui media come patologia vera e non come colpa individuale: «se il 10% della popolazione ha obesità e il 50% è in sovrappeso, forse il problema non è solo nelle persone ma nell’ambiente», osserva Mocini. Dall’altra, l’entusiasmo rischia di alimentare abusi o utilizzi scorretti. Per esempio usare un farmaco così potente non per curare una malattia, ma per perdere “tre chili prima dell’estate”. Qui sta il pericolo dello sgonfiamento culturale: trasformare uno strumento terapeutico in un vezzo estetico (il fattore estetico c’entra sempre), con il rischio di rafforzare — invece di abbattere — lo stigma verso chi ne ha davvero bisogno.
Le soluzioni non possono fermarsi al farmaco. Servono politiche di prevenzione che riducano l’ambiente obesogenico. Ovvero città più camminabili, meno marketing alimentare aggressivo e migliore accesso al cibo fresco. Ma anche percorsi multidisciplinari che integrino il farmaco con una dieta corretta, un supporto psicologico e una corretta attività fisica. E soprattutto un dibattito pubblico meno moralista. I GLP-1 hanno aperto una porta enorme: la sfida è decidere se usarla per costruire un sistema più equo o per creare l’ennesima frattura tra chi può permetterseli e chi no.
Se sei arrivato fino a qui, innanzitutto ti ringrazio.
Non ci siamo presentati: mi chiamo Franco Aquini e da anni scrivo di tecnologia e lavoro nel marketing e nella comunicazione.
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Franco Aquini